giovedì 3 maggio 2007

Foot, Philippa, La natura del bene.

Bologna, il Mulino, Intersezioni, 2007, pp. 154 + XV, € 12,00, ISBN 978-88-15-11412-9.

Recensione di: Alex Grossini - 03/05/2007

Parole chiave: naturalismo, aristotelismo, buono, sviluppo

Dopo una vita impegnata nella ricerca e la comunicazione delle sue conclusioni attraverso articoli brevi, Philippa Foot pubblica ottantenne il suo primo libro: l'edizione originale inglese, infatti, è uscita nel 2001. Non si tratta di un testo qualunque, ma di una sorta di riassunto definitivo: la riabilitazione del naturalismo, la ridefinizione della razionalità pratica, l'affermazione compiuta di una forma etica che si richiama ad Aristotele, la descrizione della vita buona - tutto in circa 140 pagine.
Il punto di partenza è la razionalità pratica: fino a questo punto la Foot era stata vicina all'interpretazione humeana del concetto, come lei ammette nelle prime pagine del libro. Ma resasi conto che proprio l’accoglimento di questa interpretazione l'aveva condotta agli errori più grandi, ha deciso di cambiare prospettiva. Se prima per razionalità pratica si intendeva uno strumento basato su desideri e prudenza, ora si deve intendere qualcosa di più generale che usi i desideri e la prudenza, ma che, al tempo stesso ne sia indipendente e sia collegato con il mondo. A questo scopo serve la riabilitazione del naturalismo: posizione teorica che dai tempi di Moore e soprattutto degli epigoni di Hume, gli emotivisti, i non cognitivisti, e più di tutti Hare, ha sempre avuto una cattiva fama. Come ricorda Fonnesu nella sua presentazione, il termine "naturalismo" con G.E. Moore viene a significare possibilità di definire il predicato di valore "buono", e nei Principia Ethica questa possibilità è negata: "buono" è un predicato come "giallo", non definibile in altri termini. Per la Foot invece "buono" è definibile, e il libro è quasi una spiegazione di questo solo concetto. La razionalità pratica dipende per l’autrice dalla volontà e dalle scelte. In poche e semplici parole, l'argomentazione sostiene che non sono i desideri e la prudenza dell'individuo a "generare" la moralità, in quanto composta di scelte, per esempio, che hanno conseguenze "migliori"; piuttosto, la moralità è un oggetto che i nostri desideri e la nostra prudenza incontrano e scelgono. Da ciò deriva, tra l'altro, che solo le scelte "buone" sono razionali in senso pratico (le scelte, e non le azioni: conta la volontà dell'agente, anche se l'azione non va a buon fine). La Foot ribalta in tal modo la struttura emotivista e recupera quella aristotelica.
A questo punto, emergono un paio di problemi di una certa rilevanza: in primo luogo, cosa ci motiva a compiere azioni buone, a essere buoni? E in secondo luogo, cosa è "buono"?
La motivazione, accettando l'interpretazione humeana della razionalità, proverrebbe dall'interno: se definiamo "morale" ciò che desideriamo e scegliamo, sono gli stessi desideri a spingerci verso ciò che abbiamo chiamato "morale", "giusto" o addirittura "buono". Sotto questo punto di vista non sembrerebbero esserci difficoltà. Ma esse appaiono se poniamo la moralità anche al di fuori di noi, come fa la Foot. Una volta compiuto questo passo, vale a dire stabilito che le cose non sono buone perché le desidero ma le desidero perché sono buone, cosa potrebbe convincermi a comportarmi bene? Non si può riproporre questa forma di oggettivismo senza trascinarsi appresso i problemi irrisolti. Philippa Foot tenta di dare una soluzione, che sembra più che altro un aggirare l'ostacolo ma alla fine resta l'impressione di aver colto nel segno: ci comportiamo moralmente perché è nella nostra natura farlo. Siamo animali sociali, diceva il maestro di quelli che sanno.
Per l'uomo è essenziale la morale come per le api il pungiglione. La specificità degli esseri umani rispetto agli altri animali è proprio questa: gli animali non hanno bisogno della moralità. Ma quello che va sottolineato è il modo in cui la Foot arriva a questa affermazione. Per poter giudicare cosa è buono o cattivo per un individuo, dobbiamo praticamente trasformarci in biologi e studiare la storia naturale della specie alla quale l'individuo appartiene. Lo facciamo comunemente con piante e altri animali: quando piantiamo un albero, cerchiamo un buon posto, alla luce ma non troppo sotto il sole, con una buona terra, umida e fertile, e usiamo buoni strumenti per favorirne la crescita, dando una buona annaffiata ogni tanto. Se usiamo il termine "buono" ripetutamente sia nella frase, sia nel giudizio pratico, è perché sappiamo che "buono" ha un significato ben chiaro e facilmente descrivibile: è "ciò che fa bene alla pianta", o "ciò che ne permette lo sviluppo". E per poter tradurre questo "buono", dobbiamo sapere cosa fa bene e cosa male alla pianta; e lo sappiamo perché da migliaia di anni coltiviamo piante e abbiamo scoperto cosa fa loro bene e cosa male. Abbiamo una storia naturale della specie, insomma. Se lo facciamo per piante e altri animali, per quale motivo non farlo per l'uomo?
Stabilito che "buono" è ciò che favorisce lo sviluppo (Foot chiama queste cose buone "necessità aristoteliche", e quando sono le cose di cui una specie ha bisogno per vivere le chiama "beni animali": acqua, aria, riparo, cibo, eccetera), se studiamo la storia naturale dell'uomo scopriamo piuttosto in fretta che "buono" coincide con "morale". Nella specie homo è la moralità, la distinzione tra vizi e virtù ( o meglio: tra difetti e bontà naturali) che permette lo sviluppo migliore dell'individuo, perché l'uomo aggiunge un livello alla vita animale, e cioè la vita intellettuale per la quale la necessità aristotelica è la moralità, la correttezza. La vita buona è una vita all'insegna della razionalità pratica come descritta prima, all'insegna della volontà buona. Questo può condurre infine alla eudaimonia , a quello che la Anscombe e in seguito la tradizione aristotelica anglosassone hanno chiamato flourishing . La ripresa dell'aristotelismo è compiuta, ed è programmatica, come leggiamo già all'inizio del volume.
“Credo infatti che le valutazioni della volontà e dell'azione umana abbiano la stessa struttura concettuale dei giudizi valutativi sulle caratteristiche e sulle operazioni di altri esseri viventi, e che possano essere comprese appieno solo in questi termini. Vorrei mostrare che il male morale è un tipo di difetto naturale”.(p. 13)
La filosofa britannica ha costruito un percorso che appare resistente anche alla critica più facile, vale a dire l'accusa di "riduzionismo" che si può portare a questo sistema. Quello che non sembra convincere i suoi avversari è il fatto che la nozione di "buono" intesa in questo modo non ha più un vero significato morale, dal momento che viene riassorbita nella descrizione di funzioni naturali. In fondo, la Foot potrebbe rispondere semplicemente che è vero, lei riduce la morale alla natura, e dunque quella che le si rivolge non è per nulla una critica. Inoltre, già Peter Geach aveva mostrato che "buono", contrariamente a quanto pensava Moore, non ha lo stesso valore di "giallo", perché "giallo" è predicativo mentre "buono" è attributivo: il che vuol dire che il termine "buono" non è in grado di reggere da solo il senso di in una frase, ma deve essere attributo di qualcosa d'altro, deve essere una qualità di qualcosa d'altro, e di conseguenza rappresenta un surplus di descrizione di quel qualcosa d'altro. Un buon pasto, un buon coltello, un buon amico, un buon libro: se non sappiamo cosa sono pasto, coltello, amico e libro, difficilmente potremo giudicarli buoni o cattivi, perché quando giudichiamo un coltello buono gli attribuiamo delle qualità diverse da quelle che attribuiamo a un buon libro. Per poter capire "buono", dobbiamo sapere "buono per cosa?". La classe dei giudizi di valore morale è una sottoclasse dei giudizi descrittivi di qualità naturali, che si applica peculiarmente all'umanità. Una posizione, questa, molto forte che di solito viene accompagnata da una moltitudine di rischi, primo tra tutti il riferimento a un determinato e localizzato set di "virtù" - per esempio, quelle della tradizione classica occidentale, che non sono accettate ovunque: Ma la posizione di Philippa Foot è che le virtù delle quali parla sono caratteristiche proprie di tutti gli appartenenti alla stessa specie. D'altro canto, una pianta che nasce e cresce nella foresta amazzonica ha bisogno delle stesse cose e ha le stesse qualità fondamentali di una che nasce e cresce nei boschi inglesi: per gli esseri umani è lo stesso. Il concetto sostenuto nel libro è che il contenuto descrittivo di un giudizio, un giudizio basato su asserzioni di fatto (la "storia naturale della specie"), sia sufficiente alla valutazione morale.
E risulta sufficiente per un motivo preciso: la descrizione della specie homo comprende un insieme di caratteristiche in potenza, che possono essere sviluppate e portate all'eccellenza. Il comportamento “buono” è una di queste qualità, ed è un comportamento adatto alla situazione, all'ambiente in cui l'umano vive, vale a dire una società di simili. Valutare un comportamento richiede la conoscenza di “ciò che fa bene” alla specie umana nel suo insieme e nelle sue caratteristiche proprie – e comportarsi secondo natura è identico a comportarsi bene.

Indice

1.Presentazione, di Luca Fonnesu - p. VII
2.Prefazione - p. 7
3.Introduzione - p. 9
4.I. Un nuovo inizio? - p. 13
5.II. Norme naturali - p. 37
6.III. Dagli esseri viventi non-umani agli uomini - p. 51
7.IV. Razionalità pratica - p. 67
8.V. Bontà umana - p. 83
9.VI. La felicità e il bene dell'uomo - p. 99
10.VII. L'immoralismo - p. 119
11.Poscritto - p. 139
12.Bibliografia - p. 143
13.Indice dei nomi - p. 153


L'autore

Philippa Foot (1920 -), professore emerito di Filosofia alla University of California, Los Angeles, e Honorary Fellow del Somerville College, Oxford, è una pensatrice fondamentale nella ricerca contemporanea sulle etiche delle virtù; assieme a Elizabeth Anscombe, Peter Geach e Iris Murdoch è alle radici della riscoperta dell'etica applicata della metà del XX secolo. Il suo lavoro si concentra dagli anni '50 del Novecento sulla metaetica, specificamente per confutare le maggiori correnti del deontologismo e dell'utilitarismo. In seguito continua la sua battaglia sul fronte dell'etica applicata, cercando di attualizzare la dottrina aristotelica.

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