mercoledì 9 maggio 2007

Zanet, Giancarlo, Le radici del naturalismo. W.V.Quine tra eredità empirista e pragmatismo.

Macerata, Quodlibet, 2007, pp. 166, £ 18,00, ISBN 978-88-7462-107-1.

Recensione di Giuliano Manselli – 9/05/2007

Il pregevole testo di Zanet si propone di esporre la prospettiva teorica di uno dei più autorevoli protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo, ossia il naturalismo del filosofo americano W.V.Quine. Traccia inoltre un’avvincente percorso storiografico dell’evoluzione teorica di Quine volto a comprendere quali siano le radici da cui il naturalismo prende le mosse.
Così se nel capitolo I del libro vengono esposti i nuclei problematici attraverso cui è possibile definire in cosa consista il naturalismo, nei successivi capitoli II, III e IV, vengono approfonditi quegli orientamenti filosofici che, rielaborati criticamente dal filosofo statunitense, costituiscono le fondamenta su cui poggia l’edificio teorico quineano. Nell’interessante epilogo finale ci si chiede invece se l’adozione di una prospettiva coerentista debba necessariamente comportare la fine dell’empirismo.
Innanzitutto il naturalismo considera la conoscenza, la mente e il significato come entità naturali, cioè sullo stesso piano ontologico del mondo con cui entrano in relazione: è quindi necessario comprenderle con lo stesso metodo empirico utilizzato dalle scienze naturali. Da questo punto di vista l’impresa filosofica viene intesa come continua, nonché inclusa, rispetto alla scienza, e concepita come teoria della conoscenza che si occupa di indagare il rapporto tra mente e mondo, di comprendere la mente nella sua funzione di strutturazione della realtà. Tuttavia ciò non significa che essa rinunci alla propria autonomia o alla propria capacità critico-valutativa nei confronti della scienza, anzi considera quest’ultima come la nostra concezione globale del mondo che, come ogni sistema teorico, rimane solo ipotetica e fallibilista. La filosofia poi, oltre a non assumere acriticamente il metodo e i risultati scientifici, non pretende neppure di fungere da filosofia prima rispetto ad essi, indirizzandosi invece alla comprensione della relazione tra la scienza e l’input sensoriale da cui questa ha tratto origine: “Le nostre conoscenze, la nostra teoria del mondo esterno, sono fallibili e vere per ammissioni o ipotesi, perciò non possono aspirare ad essere assolute e definitive. In questo senso non possiamo pretendere che esse siano descrizioni dal valore assoluto e definitivo della realtà. Dall’altro lato, pur ammettendo la loro ipoteticità, non possiamo negare che esse abbiano un correlato esterno, il mondo, e l’epistemologia deve occuparsi di questa relazione e del supporto alla nostra teoria che il mondo può fornire” (p. 34). L’antifondazionalismo quineano non comporta quindi uno scetticismo radicale, il suo approccio epistemologico, oltre ad una prospettiva descrittiva (di come acquisiamo le nostre conoscenze del mondo esterno a partire da input sensoriali), sembra proporre una dimensione normativa (una ricostruzione del processo della conoscenza) che lascia spazio solo ad uno scetticismo parziale, espressione di quel tipo di dubbio scientifico che è parte costitutiva dell’impresa conoscitiva: “Visto che le modalità attraverso cui conosciamo il mondo si sono rivelate talvolta erronee, è opportuno sviluppare un’analisi della relazione che intercorre tra mente e mondo e vagliare in che misura e in quali condizioni tale relazione può risultare giustificata o meno, e quindi in che misura la nostra concezione della realtà sia corretta” (p. 33). Secondo Quine per giustificare il rifiuto o l’accettazione delle teorie si può solo delineare una varietà di criteri di natura essenzialmente pragmatica; e da questo punto di vista giocano un ruolo chiave gli enunciati osservativi che, in quanto riconosciuti come legati casualmente agli oggetti ed eventi del mondo a livello di conoscenza intersoggettiva, esprimono l’accordo possibile da parte di una comunità su cosa sia possa considerare evidenza empirica, e garantiscono una base oggettiva su cui poter testare, liberi da ogni dogmatismo, ogni ipotesi scientifica.
L’immagine della conoscenza che si delinea è di conseguenza olistica, nel senso che le singole conoscenze hanno senso solo all’interno del tutto che il sistema rappresenta, ma tra gli enunciati che compongono la nostra teoria del mondo ve ne sono alcuni che svolgono un particolare ruolo conoscitivo fornendo il legame tra sistema ed evidenza empirica. Risulta inoltre evidente la centralità del linguaggio nella nascita delle nostre teorie sul mondo, la base stessa dell’intersoggettività è infatti la comunità linguistica dei parlanti. Ed è per questo che l’epistemologia naturalizzata di Quine si occupa della genesi del linguaggio utilizzando gli strumenti offerti dalla psicologia comportamentista: il linguaggio è infatti un sistema, un gioco linguistico, un’arte sociale, al cui interno si rendono comprensibili i significati dei singoli enunciati. Ciò non comporta però una sostituzione dell’epistemologia con la psicologia, né tantomeno con la scienza tout court; bensì l’obbiettivo ben più ampio di comprendere ciò che avviene tra la nostra stimolazione sensoriale e la nostra teoria scientifica, anche se, coerentemente con la prospettiva naturalistica, comprendere questo legame e un lavoro che può essere svolto con risorse concettuali che conducano a risultati che abbiano plausibilità a livello scientifico: “Per tale impresa […] possiamo e dobbiamo contare sulle conoscenze che la scienza (nel suo senso più ampio) ci mette a disposizione. Infine di questa impresa interdisciplinare, una parte mantiene una propria autonomia speculativa, pur rimanendo parte del sistema delle conoscenze scientifiche, nel quale mira ad essere coerentemente inserita, in accordo col motto quineano per cui ‘la filosofia è continua con la scienza’. E tale collocazione non implica alcuna deriva scettica se vediamo nel dubbio una condizione naturale di quella attività umana che è la conoscenza” (p.58).
Dopo aver esposto il naturalismo quineano ed aver analizzato le sue implicazioni teoriche, Zanet ricostruisce l’evoluzione intellettuale di Quine individuando le origini del suo pensiero. Anzitutto egli rintraccia, nel capitolo II, la radice empirista del naturalismo negli appunti stesi da Quine per le lezioni del suo corso di teoria della conoscenza, con particolare attenzione all’opera di Hume, tenuto nel 1946. Zanet sottolinea l’importanza di questo testo, non solo perché ci offre l’interpretazione che Quine dà della storia del problema della conoscenza (costituendo un unicum nella sua produzione, visto che raramente egli commenta tesi altrui), ma perché fornisce anche un contributo indispensabile per capire come nella sua mente inizi a chiarirsi il programma di naturalizzazione che avrebbe poi ricevuto corpo nelle tappe successive costituite da Two Dogmas of Empiricism (1950), Word and Object (1960) e Epistemology Naturalized (1969). Infatti, come evidenzia Zanet, Quine approda alla critica dei due dogmi dell’empirismo attraverso un serrato confronto teorico con la storia della filosofia moderna, in cui emerge il duplice ruolo di Hume come padre sia dell’ empirismo costruttivo, sia del pragmatismo ( o naturalismo, come Quine preferirà definirlo dopo Two Dogmas of Empiricism): Hume attribuisce il funzionamento dell’induzione al meccanismo psicologico di associazione che genera un’abitudine, ma per sapere se questa sia una mera propensione psicologica, o se corrisponda invece ad una qualche regolarità della natura, non ci si può appellare ad una presunta uniformità della natura che garantirebbe quella regolarità in essa da noi riscontrata. Perché, come precisa Quine, l’ uniformità della natura è un puro postulato che implica esso stesso il ricorso all’induzione, e il fatto che spesso quest’ultima sembra funzionare è tutto ciò di cui dobbiamo accontentarci: “Risulta in questo modo illuminato quanto Quine sosterrà a proposito dell’epistemologia più di vent’anni dopo in Epistemology Naturalized. La difficoltà humeana di fondare l’induzione, di giustificarla, è la difficoltà umana, per la quale non ha senso andare alla ricerca di una filosofia prima che trovi un fondamento ultimo alla scienza. Ciò di fronte a cui dobbiamo arrestarci è la constatazione che il metodo scientifico ha funzionato, e ciò non significa assumerlo acriticamente perché è possibile criticarlo e migliorarlo raffinandolo senza perciò presupporre di poter trovare qualcosa come il metodo corretto” (p. 81). Proprio dalla critica humeana al fondamento della conoscenza sembra così emergere l’adozione da parte di Quine di una prospettiva naturalistica in cui l’epistemologia diventa ricostruzione genetica dell’acquisizione della conoscenza attraverso l’analisi semantica comportamentale.
Nel capitolo III Zanet approfondisce invece la radice pragmatista del naturalismo quineano cercando di impostare correttamente quello che a suo avviso costituisce un problema storiografico interessante, dal momento che lo stesso Quine ha più volte espresso dubbi riguardo ad una sua collocazione nella tradizione pragmatista. Da questo punto di vista merita attenzione l’analisi svolta da Zanet direttamente sui riferimenti testuali del pensatore americano per distinguere ciò che risulta da un confronto meramente retrospettivo con alcune tradizioni filosofiche, riconoscendone analogie e differenze, dall’effettivo contributo che queste possono aver fornito alla formazione del suo pensiero. Si rivela infatti utile per escludere preliminarmente alcuni possibili riferimenti talvolta privilegiati dalla critica, come quello a Dewey, laddove questi costituisce invece un’acquisizione tarda: “Sono venuto realizzando che nella mia inclinazione naturalistica sono vicino a Dewey. Ma questo si riscontra più post facto […] Anche se non sono stato influenzato da Dewey […] sembra essere quello con cui sono più in sintonia […] e non mi interessai a Dewey se non molti anni dopo, quando le mie idee filosofiche erano già abbastanza delineate” (p. 85). Ma lo stesso Quine non è immune, secondo Zanet, da una sorta di fallacia retrospettiva quando, prima, afferma che Lewis, essendo stato suo insegnante, è probabile che lo abbia influenzato, ma poi nega tale influsso, dal momento che le sue tesi si sono sviluppate in una direzione critica rispetto al maestro: “Un filosofo americano che forse mi ha influenzato – che sicuramente deve averlo fatto un po’ – è C.I. Lewis, i cui corsi seguii alla scuola di dottorato. Ma naturalmente non sono stato d’accordo con lui sull’uso davvero fondamentale che fa della nozione di analiticità […] Dunque forse egli non è stato neanche, alla fin fine, una grande influenza” (p. 86). Zanet dimostra invece come tale influenza sia stata notevole, fornendo il modello di riferimento diretto dell’orizzonte problematico quineano sulle questioni di epistemologia. Anche se le soluzioni a tali questioni adottate dall’allievo non saranno quelle del maestro, sono comunque evidenti le convergenze su temi come la struttura kantiana di fondo del rapporto mente-mondo e la dimensione sociale della mente e del significato. Per Lewis infatti la filosofia, distinguendosi dalla scienza, si caratterizza come analitica concettuale tesa ad individuare le componenti della conoscenza: cioè il dato e le griglie interpretative (categorie) che la mente impone ad esso. E la tesi di fondo della sua dottrina epistemologica, nota come pragmatismo concettuale, è che nel rapporto tra mente e mondo l’immagine che ci facciamo della realtà è frutto degli schemi interpretativi o concettuali che utilizziamo per comprenderla, e che questi schemi, provenienti dall’esperienza secondo un coerente empirismo, precedono la nostra conoscenza del dato fornendole quell’ordine a priori che la rende intelligibile. Ma tali categorie a priori non sono però fisse, come nella dottrina kantiana, ma possono mutare sia in seguito ad una scelta arbitraria sia in relazione a novità nel campo dell’esperienza. Il puro dato è un’astrazione, perché esso è sempre interpretato, così come è impossibile riferirsi ai dati senza il linguaggio, perché esso rappresenta la forma di mediazione concettuale attraverso cui interpretiamo la realtà. Lewis sviluppa così una teoria del linguaggio e del suo ruolo nella conoscenza secondo cui la dimensione socialmente determinata del significato garantisce una certa obbiettività, e per verificare tale obbiettività, cioè la comunanza di significato tra più soggetti, l’unico arbitro rimane il comportamento verbale. Quine porterà alle estreme conseguenze la tesi comportamentistica, così come l’assunto pragmatista secondo cui la mente, come anche il linguaggio, è qualcosa di socialmente determinato. Rigetterà però la distinzione tra analitico e sintetico implicita nella concezione lewisiana dell’a priori: gli schemi concettuali continuano ad essere infatti un elemento separabile nella conoscenza in quanto relazioni logiche vere indipendentemente dall’esperienza, pur derivando da essa. Proprio a partire dal rifiuto di tale dicotomia Quine maturerà il proprio distacco da Lewis (quanto, come si vedrà, da Carnap).
Zanet sottolinea poi che per comprendere pienamente la linea genealogica del pragmatismo quineano, non si possa fare a meno di ricordare l’influenza di Peirce. Infatti, pur non concordando con lui sulla nozione di metodo scientifico come organon (strumento) che, se usato all’infinito, possa portare alla verità, Quine riconosce in Peirce il padre della teoria verificazionista del significato, che corretta nella prospettiva olistica del naturalismo gli consentirà di rifiutare lo scetticismo radicale grazie al ricorso al bagaglio evidenziale dell’esperienza e alla visione esternista: “Il solo modo scientifico di indagare la mente nel suo rapporto col mondo è attraverso inferenza da fatti esterni, come stabilito da Peirce […] Ciò significa abbracciare un approccio behaviorista che obbliga a spostare il punto di partenza dell’indagine sul versante del mentale che è pubblicamente accessibile, cioè il linguaggio. Per una buona parte il lavoro dell’epistemologia naturalizzata consiste secondo Quine nella ricostruzione del percorso che va dall’acquisizione del linguaggio degli oggetti esterni alla elaborazione del linguaggio teorico della scienza” (pp. 110-111).
Nel capitolo IV vengono chiarite le radici europee del naturalismo quineano attraverso l’approfondimento del rapporto tra Quine e Carnap. Rapporto che Zanet considera rilevante per la storia della filosofia contemporanea perché consente di comprendere l’innesto dell’empirismo logico europeo nella cultura americana, e il conseguente superamento di entrambi gli orientamenti.
Infatti, la formazione pragmatista di Quine pur favorendo la sua adesione a certe tesi di Carnap, come la concezione convenzionale dell’a priori, lo spingerà a sviluppare una visione alternativa, tanto a Carnap quanto a Lewis, culminante in Two Dogmas of Empiricism (1950). In questo saggio infatti, tra i più influenti del dibattito filosofico della seconda metà del Novecento, si può identificare il nucleo di una svolta paradigmatica che in parte riflette e in parte promuove una nuova concezione della conoscenza intesa come un processo di strutturazione della realtà da parte dell’uomo, nel quale le strutture (categorie, schemi concettuali, teorie) non sono considerate fisse e immutabili, ma come adattatesi, in un processo evolutivo storicamente determinato, alla realtà che organizzano e che contribuiscono, almeno in parte, a determinare. Svolta che accomuna quindi Quine alle prospettive epistemologiche di Popper, Piaget, Kuhn e Lakatos.
Ma al di là di tali considerazioni storiografiche, Zanet intende soprattutto delineare come il pensatore americano rielabori il positivismo logico. Secondo lui infatti già a partire dalle Lectures on Carnap (1934), benché Quine le consideri abiettamente servili nei confronti del maestro tedesco, si può rintracciare quel bagaglio pragmatico che avrebbero portato a un distacco dalle sue posizioni. L’adesione alla visione convenzionale dell’analiticità di Carnap deriva infatti direttamente dalla concezione pragmatica dell’a priori di Lewis appresa a Harverd. Tuttavia sia per Carnap che per Lewis, l’analiticità tipica delle conoscenze logiche e delle categorie a priori continuava ad essere segno di un tipo di conoscenza certa la cui verità, seppur di natura convenzionale, e derivante da scelte linguistiche, è indipendente dall’esperienza e si differenzia da quella delle conoscenze empiriche (sintetiche a posteriori). Tale distinzione inizialmente appariva a Quine solo come una questione pragmatica di scelta di quali enunciati abbandonare per ultimi nel caso di revisione dello schema concettuale costituito dal sistema globale che è la conoscenza, ma nel corso degli anni che precedono la stesura di Two Dogmas of Empiricism giunge al rifiuto della dicotomia analitico-sintetico per approdare a una teoria della conoscenza che non aspirava più al modello della certezza matematica, e rinunciava alla ricerca del fondamento delle scienze. Per Quine la verità di una qualunque proposizione dipende sia da fatti linguistici che extralinguistici, non ha quindi senso la divisione in due classi di tutti gli enunciati (analitici a priori e sintetici a posteriori), operata da Carnap, su cui poggia il primo dogma dell’empirismo neopositivista. Non solo, perché da questo dogma ne deriva un secondo, quello riduzionista, secondo cui ogni proposizione avente significato è riconducibile a proposizioni che vertono su esperienze confermabili isolatamente, e in questo caso la critica di Quine scaturisce dal recupero di una prospettiva olistica che concepisce la scienza come un sistema globale, che in alcuni punti tocca l’esperienza, e un eventuale disaccordo di questi punti provoca un riordinamento dell’intero sistema.
Lo stimolante epilogo finale tenta di rispondere alle accuse di soggettivismo ed interniamo mosse da Davidson al suo maestro. Infatti secondo lui, in base al suo coerentismo, la verità di una credenza non si basa sull’esperienza, ma dipende solo dalle condizioni che la rendono intersoggettivamente vera per la comunità linguistica dei parlanti, che per Davidson sono appunto di natura esclusivamente linguistica. Da questa prospettiva il ricorso all’esperienza teorizzato da Quine per dar conto della correttezza delle nostre credenze, lo condurrebbe ad una relativizzazione del significato al singolo individuo. Tale accusa non sembra però cogliere il bersaglio, perché anche Quine considera l’interazione mente-mondo come intersoggettiva, e comprensibile quindi solo attraverso la struttura triadica composta da almeno due menti e un mondo condiviso. E, proprio per questo, l’indagine epistemologica non può ridursi all’indagine semantica, come forse auspica Davidson, perché la possibilità di un’intesa intersoggettiva si spiega solo in parte con l’accordo a livello linguistico. Si può così comprendere, come si è già detto, l’importanza degli enunciati osservativi in quanto cuneo d’ingresso nel linguaggio e punto di controllo empirico delle teorie.

Indice

Introduzione
Capitolo primo
Naturalismo: nuclei problematici
Capitolo secondo
La radice empirista: Quine e la storia della filosofia moderna
Capitolo terzo
La radice pragmatista: la linea genealogica Kant-Peirce-C. I. Lewis-Quine
Capitolo quarto
Le radici europee e Carnap: dalla concezione pragmatico-convenzionale dell’a priori e dell’analicità al rifiuto della dicotomia analitico-sintetico
Epilogo
Esternismo e coerentismo: la fine dell’empirismo?
Bibliografia


L'autore

Giancarlo Zanet è dottore di ricerca in filosofia e insegnante di filosofia nei licei. Collabora alla cattedra di Storia della Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo. È autore di vari saggi sul naturalismo, il pragmatismo e la filosofia della mente.

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