mercoledì 25 luglio 2007

Searle, John R., Mind. A Brief Introduction.

New York, Oxford University Press, 2004, pp. 326, $ 18,50 (pb), ISBN 0195157338

Recensione di Alessandra Melas - 25/07/2007

Filosofia della mente, Psicologia, Filosofia del linguaggio

È dal pensiero cartesiano che John Searle dà avvio ad una attenta disamina delle più accreditate teorie nel campo della filosofia della mente: “La filosofia della mente nell’era moderna di fatto ha il suo inizio con il lavoro di René Descartes (1596-1650). Descartes non fu il primo a sostenere un certo tipo di tesi, ma la sua filosofia della mente è stata quella che più ha influenzato i cosiddetti filosofi della modernità, i filosofi del XVII secolo, e quelli successivi” (p. 13).

Come sostiene l’autore, il problema più famoso che Cartesio ci ha lasciato è noto come il problema “mente-corpo”, che può meglio essere specificato nel modo seguente: come può qualcosa di fisico produrre un effetto sulla mia anima? Come eventi della mia anima possono influenzare il mio corpo? Attualmente queste due domande hanno assunto la forma: come possono i processi cerebrali produrre fenomeni mentali? Come possono i fenomeni mentali avere effetti sul mio corpo e, dunque, portarmi ad agire? Due soluzioni tradizionali sono possibili a questi due quesiti: l’idealismo ed il materialismo. Entrambe, come sostiene l’autore, provano ad eliminare qualcosa che realmente esiste e che non può essere ontologicamente ridotto a qualcos’altro.

Accurata è la disamina che Searle fa, nel quadro del materialismo, del funzionalismo computazionale, ovvero di quella teoria nota come Intelligenza Artificiale forte. Per la concezione dell’IA forte un computer non simula una mente, come per la teoria dell’Intelligenza Artificiale debole, ma possiede letteralmente una mente. Il funzionalismo computazionale spiega in maniera originale il rapporto mente-cervello: mente sta a programma, come cervello sta ad hardware. Tuttavia, sostiene Searle, la nostra mente non può essere ridotta ad un programma. Questo è ottimamente mostrato nel libro da uno dei suoi argomenti più noti contro il materialismo: l’argomento della stanza cinese, col quale Searle ipotizza un esperimento mentale, estremamente semplice dal punto di vista teorico, basato sull'idea che la mente sia qualcosa di più di un sistema per la manipolazione di simboli.

L'argomento della "stanza cinese" si svolge in questo modo: immaginiamo un tale rinchiuso in una stanza dove vi sono un’infinità di piccole scatole nelle quali si trovano tutti i possibili ideogrammi della scrittura cinese, lingua di cui questa persona non conosce assolutamente nulla. Tutti questi simboli, quindi, per lui non sono altro che scarabocchi privi di significato. A questo punto immaginiamo che insieme a questi ideogrammi gli venga fornito un manuale, scritto nella sua lingua madre, che contiene un insieme di istruzioni come ad esempio: “se ricevi il simbolo che ha la stessa forma di quello nella scatola X allora restituisci il simbolo nella scatola Y”. Anche senza capire nulla del cinese, egli potrebbe eseguire queste istruzioni, basandosi esclusivamente sulla forma dei simboli. Ora, immaginiamo che fuori dalla stanza vi sia una persona che conosce il cinese. Questa persona di tanto in tanto manda dentro la stanza una serie di simboli cinesi che corrispondono a domande perfettamente sensate. Ad esempio: "che colore preferisci?". Il tale dentro la stanza, naturalmente, non capisce questi messaggi. Tuttavia, guarda attentamente i simboli ricevuti e cerca nel manuale una regola che li riguardi e, se c'è, la esegue scrupolosamente. Supponiamo, infine, che le regole scritte sul manuale siano fatte in modo che la serie di simboli che il tale restituisce siano risposte sensate alle domande. Ad esempio: "il colore che preferisco è l’azzurro". Ebbene, in questo caso la persona fuori dalla stanza sarebbe convinta di parlare con qualcuno che conosce perfettamente il cinese, anche se in realtà la persona dentro la stanza non sa una sola parola di quella lingua. Quindi, chi si trova dentro la stanza cinese manipola simboli, ma non dà a questi alcun significato. La sola manipolazione sintattica dei simboli non è sufficiente a garantire il pensiero: la mente umana ha anche contenuti mentali, cioè una semantica. Nell’argomento, il manuale delle regole svolge la stessa funzione di un programma di calcolatore. Chi si trova dentro la stanza è il calcolatore, le scatole con gli ideogrammi sono la base di dati, gli ideogrammi che vengono introdotti nella stanza sono gli input e quelli che vengono restituiti sono gli output. Il calcolatore manipola simboli senza comprenderne il significato, esattamente come fa chi si trova dentro la stanza cinese. Questo significa che nessun computer è in grado di pensare per il semplice fatto di implementare un programma.

Con questo argomento John Searle confuta le pretese dell’IA forte.

Attenta è, inoltre, l’intera disamina degli altri argomenti contro il materialismo. Uno degli argomenti più noti contro il monismo materialistico è il seguente: “ Le esperienze coscienti hanno un aspetto qualitativo. C’è una sensazione qualitativa del bere la birra, che è assai differente dalla sensazione qualitativa dell’ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven” (p. 84); ma non manca il riferimento anche a quanto sviluppato da Thomas Nagel in What Is It Like to Be a Bat?, e da Saul Kripke.

Oltre all’insostenibilità del monismo, Searle mostra subito l’insostenibilità del dualismo, sia nella sua accezione cartesiana di dualismo delle sostanze, sia nella sua più recente rivisitazione di dualismo delle proprietà. Secondo il dualismo delle proprietà i fenomeni mentali non costituiscono oggetti o sostanze separate, ma piuttosto sono aspetti o proprietà di un’unica entità e possono, in linea di principio, interagire tra loro. Ma come è possibile questa interazione? Il dualismo delle proprietà non risolve il problema del rapporto tra proprietà fisiche e proprietà mentali e inoltre, per quanto concerne la questione del come possa la coscienza avere potere causale, implica i due grossi problemi dell’epifenomenismo e della sovradeterminazione causale.

Non a caso, il settimo capitolo del testo qui in esame è interamente dedicato al “problema della causalità mentale” così espresso: “Come può mai qualcosa di così etereo e immateriale come i processi mentali avere qualche effetto fisico nel mondo reale?”(p. 193). Noi siamo portati a formulare il problema della causalità mentale nel modo seguente: se la coscienza è qualcosa di non fisico, come può avere un effetto fisico quale il movimento del mio corpo? Se è vero che quando decido di alzare un braccio questo si alza, è altrettanto vero che il movimento del braccio può essere spiegato in altro modo, coinvolgendo l’attività di neuroni nella mia corteccia motoria. Allora, se supponiamo che la causalità mentale ha un ruolo, che la mente svolge un ruolo causale nella produzione del nostro comportamento corporeo, ci troviamo inevitabilmente ad avere troppe cause (sovradeterminazione causale). Se invece supponiamo la chiusura causale del mondo fisico, allora gli stati mentali sono causalmente inefficaci, ma ciò equivale all’epifenomenismo.

Dunque, né il monismo né il dualismo sembrano soluzioni accettabili al problema mente-corpo.

D’altra parte, già nell’introduzione al libro, John Searle aveva esordito affermando:” La filosofia della mente è unica rispetto ai contemporanei ambiti filosofici, per il fatto che tutte le più famose ed influenti teorie sono false” (p. 2). Qual è allora la soluzione proposta in questo testo da John Searle?

Il problema mente-corpo, secondo l’autore, persiste in filosofia a causa di due grossi limiti intellettuali da parte degli uomini. In primo luogo, noi non capiamo realmente come i processi cerebrali causino la coscienza. In secondo luogo, noi continuiamo ad accettare un vocabolario tradizionale che contrappone il mentale al fisico, la mente al corpo, in un modo che l’autore ritiene obsoleto. Bisogna innanzitutto superare, pertanto, la tradizionale distinzione tra mentale e fisico.

Il dualismo delle proprietà e John Searle sembrano concordare circa il fatto che la coscienza sia ontologicamente irriducibile a qualcos’altro, soprattutto per quanto concerne gli aspetti soggettivi di prima persona. Il punto chiave del disaccordo è che l’autore insiste sul fatto che la coscienza sia causalmente riducibile agli stati cerebrali. Non c’è, causalmente parlando, niente eccetto il neurobiologico, il quale presenta un livello aspettuale più alto di coscienza: vale a dire che la coscienza è causata da processi cerebrali di livello microfisico e realizzata nel cervello come proprietà di livello più alto, o sistemico. Essa è uno stato che il sistema neuronale ha, e poiché non è qualcosa che “sovrasta” la sua base neuronale (fisica), come era invece per coloro che sostenevano il dualismo delle proprietà, il problema dell’epifenomenismo e della sovradeterminazione causale appaiono egregiamente eliminati alla radice. Ciò che sta alla base della soluzione di John Searle e ciò che, dunque, lo separa dai sostenitori del dualismo delle proprietà, ma anche dai sostenitori del materialismo, è la distinzione tra riduzione ontologica e riduzione causale del mentale al fisico. Mentre la prima appare impossibile, la seconda è prospettata come la chiave per dare una prima risposta ai quesiti: come possono i cervelli produrre delle menti? Come possono le menti avere effetti sul mio corpo? L’errore, ribadisce Searle, consiste, dunque, proprio nel persistere nella convinzione che il mentale e il fisico costituiscano due regni distinti. Infatti, secondo il filosofo, “la coscienza nel cervello non è un’entità o proprietà separata; è esattamente lo stato in cui si trova il cervello” (p. 208). Esemplare è il paragone che l’autore fa tra la liquidità dell’acqua e il comportamento delle molecole H2O. La liquidità dell’acqua è causalmente riducibile ai rapporti tra le molecole stesse. Ecco cosa dice esattamente Searle: “Quando io dico che la mia decisione cosciente di sollevare il mio braccio ha causato il movimento del mio braccio, io non sto dicendo che qualche causa occorre in aggiunta al comportamento dei neuroni […], piuttosto sto semplicemente descrivendo l’intero sistema neurobiologico a livello di sistema globale e non a livello dei singoli microelementi” (pp. 208-209).

Tuttavia una spiegazione di questo tipo solleva un importantissimo problema filosofico, quale quello del libero arbitrio. Come sostiene l’autore, l’aspetto più impegnativo del dibattito sul libero arbitrio è quello relativo al determinismo neurobiologico. Come può infatti essere possibile una libertà all’interno del naturalismo biologico proposto da John Searle? Una delle soluzioni, quantomeno possibili, prospettate dall’autore è assumere che il cervello, al suo livello più elementare, sia completamente differente da quello che noi chiameremmo cervello meccanico. Il cervello meccanico si presenta come una macchina in senso tradizionale, come un sistema perfettamente deterministico, dove ogni apparenza di indeterminismo è dettata dalla nostra ignoranza, e dunque ha origini prettamente epistemiche. Ma se il cervello è indeterministico, che forma può avere? Certamente, osserva l’autore, esso può essere assimilato ad un cervello quantistico. Come mostra, infatti, Searle, “a livello quantistico lo stato del sistema a t1 è causalmente responsabile dello stato del sistema a t2 solo in modo statistico, non-deterministico. Predizioni fatte a livello quantistico sono statistiche perché c’è un elemento di aleatorietà” (p. 231). Facendo del cervello un sistema quantistico, si attribuisce un ruolo speciale al libero processo decisionale cosciente. Esiste, infatti, a livello quantistico un’insufficienza causale, nel senso che ciò che accade nel passato di un sistema non è sufficiente a determinare una precisa condizione nel futuro del sistema stesso e questo lascia spazio alla casualità dei processi e quindi anche alla libertà di scelta. Questa affascinante soluzione proposta da Searle ci ricorda da vicino quella che oggi è considerata una delle più accreditate soluzioni al noto problema della misurazione in meccanica quantistica. John von Neumann immagina una catena apparentemente senza fine di strumenti di misurazione, ognuno dei quali “osserva” quello precedente della serie, e nessuno dei quali conduce a ciò che è noto tra gli specialisti come collasso della funzione d’onda. La catena può allora avere fine solo quando vi è coinvolto un individuo cosciente. “È soltanto con l’ingresso del risultato della misurazione nella coscienza di qualcuno che l’intera “piramide” degli stati di “limbo” quantico decade nella realtà concreta” (Davies - Brown, p. 88). Eugene Wigner è uno dei fisici che fortemente ha sostenuto questa visione degli eventi. Il processo decisionale cosciente gioca un ruolo fondamentale nel passare da uno stato di aleatorietà ad uno stato determinato. Perché, a questo punto, non proporre una sorta di cosmologia quantistica e applicare le teorie quantistiche all’intero universo? In tal modo anche il cervello di un osservatore potrebbe essere considerato un sistema quantistico. Per ora questa rimane, come l’autore ribadisce, solo una tra le possibili soluzioni al problema del libero arbitrio.

Qualora avessimo, tuttavia, risolto gli antichi problemi sopra citati, ne rimarrebbe ancora uno di grossa importanza filosofica: “Come possono i vostri pensieri, presumibilmente nella vostra testa, riferirsi a o vertere su oggetti e stati di cose distanti, per esempio eventi politici che hanno luogo a Washington, Londra o Parigi?” (p. 4). Questo è il “problema dell’intenzionalità”, dove per “intenzionalità”, come specifica l’autore, si intende la direzionalità o aboutness della mente. Ad esempio, se penso che il Sole dista 150 milioni di chilometri dalla Terra, che cosa permette al mio pensiero di estendersi fino al Sole? John Searle affronta, al riguardo, tre questioni fondamentali che concernono essenzialmente la struttura logica dell’intenzionalità: la possibilità dell’intenzionalità, il contenuto degli stati intenzionali e il funzionamento del sistema dell’intenzionalità nel suo complesso. Come già osservato in precedenza, i processi cerebrali causano la coscienza. Allo stesso modo sembra possibile che i processi cerebrali causino certe forme di intenzionalità; anche la fame e la sete, infatti, sono fenomeni intenzionali: avere sete significa avere il desiderio di bere, avere fame significa avere il desiderio di mangiare. Anche se è difficile ammetterlo, ciò vale anche per la paura, per le credenze, per i desideri e per le forme più sofisticate di pensiero. Dunque, secondo l’autore, gli stati intenzionali sarebbero letteralmente causati da processi cerebrali. Risolto il problema di come siano possibili stati intenzionali, Searle procede affermando che questi hanno sempre un contenuto. Bisogna distinguere, tuttavia, tra il contenuto dello stato intenzionale e il tipo di stato intenzionale. Infatti posso credere che piova, sperare che piova, temere che piova e così via. Altro punto importante: gli stati intenzionali hanno sempre una forma aspettuale. Ecco cosa dice Searle al riguardo: “Per esempio, posso rappresentarmi intenzionalmente un oggetto come Stella della Sera e non come Stella del Mattino anche se si tratta dello stesso oggetto. L’aspetto “corpo celeste che splende vicino all’orizzonte la sera” non è lo stesso aspetto che “corpo celeste che splende vicino all’orizzonte il mattino”” (p. 167). Inoltre, l’autore scrive che gli stati intenzionali presentano tipi diversi di relazione con il mondo. Ad esempio, i desideri rappresentano il mondo non quale è ma quale si vorrebbe che fosse. Il mio desiderio è soddisfatto solo se il mondo si adatta al contenuto del mio desiderio. Nel caso delle credenze, si suppone che lo stato intenzionale rappresenti come stanno le cose nel mondo. La mia credenza è soddisfatta solo se essa si adatta al mondo. Si parla qui, nel descrivere la struttura generale dell’intenzionalità, di direzione dell’intenzionalità. Quando lo stato mentale è responsabile dell’adattamento ad una realtà, Searle parla di uno stato intenzionale con direzione di adattamento mente-mondo. Le espressioni più comuni, per valutare se si raggiunge il successo nella direzione di adattamento mente-mondo, sono “vero” o “falso”. Quando, invece, lo scopo delle nostre intenzioni non è quello di adeguarsi ad una realtà, ma di portare tale realtà ad adeguarsi al contenuto di uno stato intenzionale, allora si dirà che lo stato intenzionale ha direzione di adattamento mondo-mente. Naturalmente questo genere di stati intenzionali, come i desideri, non possono essere né veri né falsi. L’autore sottolinea che alcuni stati intenzionali, come l’essere felici per qualcosa, non hanno direzione di adattamento, perché il loro scopo non è né adeguarsi alla realtà, né far sì che la realtà si adegui ad essi. In tal caso, l’autore parla di direzione di adattamento nulla.

In questa analisi, il primo intento dell’autore consiste certamente nel “demistificare”, non tanto nel tentare di risolvere, il fenomeno dell’intenzionalità nel suo complesso, riportandolo ad un livello di maggiore concretezza. Il secondo intento dell’autore consiste nel mostrare l’irriducibilità ontologica della mente, la peculiarità della dimensione della prima persona, senza cui non potrebbero essere colti caratteri come la forma aspettuale del contenuto nel fenomeno intenzionale. Il contenuto del mio pensiero è, infatti, determinato dal modo in cui il suo oggetto è dato dalla mia soggettività. Teorie, dunque, come il materialismo, che riducono ontologicamente il mentale al fisico, non sarebbero in grado di spiegare la forma aspettuale che sembra alla base dell’intenzionalità.

Il fenomeno dell’intenzionalità è strettamente connesso a quello dell’inconscio, a cui Searle dedica un intero capitolo. Secondo l’autore, infatti, la ragione per cui non sono possibili fenomeni mentali riguardanti l’inconscio profondo è strettamente legata alla forma aspettuale del contenuto del fenomeno intenzionale. Come ricorda l’autore, per Cartesio era impossibile pensare a stati mentali non coscienti. Il pensiero era, infatti, sinonimo di coscienza e parlare di stati mentali non coscienti rappresentava, dunque, una contraddizione in termini. Per molto tempo la connessione cartesiana tra pensiero e coscienza è stata dominante. Essa è stata messa in dubbio solo nel Novecento con la nascita della psicoanalisi. Ma circa l’inconscio profondo, di cui Freud è stato il padre, John Searle afferma nel suo libro che “non esiste alcunché di simile ad un profondo stato mentale inconscio” (p. 246). Perché l’autore giunge a questa conclusione? Nella misura in cui uno stato mentale non ha in sé nemmeno la capacità di divenire uno stato cosciente, esso non è uno stato mentale autentico. Secondo questa concezione la nozione di inconscio è strettamente legata a quella di coscienza. Uno stato mentale inconscio deve avere la potenzialità di divenire uno stato cosciente, altrimenti esso non è un vero stato mentale. L’autore chiama questa regola “principio di connessione”. Ora si può certamente dire, insieme a Searle, che uno stato di inconscio profondo non può mai diventare conscio, con conseguente, dunque, violazione del principio di connessione. Ciò è dovuto al fatto che nel caso dell’inconscio profondo non c’è una forma aspettuale. Ci sono solo caratteristiche neurobiologiche che non hanno alcuna forma aspettuale e non possono essere stati coscienti e, dunque, mentali.

Per quanto concerne la parte dedicata alla percezione, John Searle è critico nei confronti di quella nota posizione filosofica, che ci rimanda principalmente a David Hume, secondo cui noi non percepiamo oggetti materiali, ma solo dati sensoriali. Qual è la soluzione di Searle contro questa forma di scetticismo? Noi assumiamo, osserva l’autore, che ci sia un discorso intelligibile condiviso pubblicamente da diversi parlanti o ascoltatori. Abbiamo, dunque, significati pubblicamente accessibili in un linguaggio pubblico. Ogni volta che parliamo assumiamo che chi ascolta capisca il significato delle nostre parole, proprio come facciamo noi. Solo in questo caso la comunicazione potrebbe avere successo. Ma poiché la comunicazione abbia successo è necessario che ci siano, non solo significati, ma anche oggetti di riferimento pubblicamente accessibili. Ciò implica che io e l’ascoltatore condividiamo un accesso percettivo ad un unico e identico oggetto. Insomma: un linguaggio pubblico presuppone un mondo pubblico. La chiave, dunque, proposta da Searle per risolvere la forma sopraccitata di scetticismo, la quale condurrebbe inevitabilmente al solipsismo, è la dimensione pubblica e intersoggettiva della comunicazione. Opportuno è però, in questo contesto, precisare che la soluzione dell’autore, sebbene contrasti l’esistenza di un mondo privato di dati sensoriali, tuttavia non è, a mio avviso, in grado di contrastare quella forma di scetticismo radicale secondo cui potremmo essere tutti in balia di una sorta di allucinazione collettiva e, dunque, essere tutti quanti “cervelli in una vasca” (Putnam).

L’ultimo capitolo del lavoro di Searle è interamente dedicato ad un altro annoso problema da sempre al centro del dibattito filosofico: il problema dell’Io e dell’identità personale. Non poteva certamente mancare un continuo riferimento alle idee humiane, secondo cui non esiste un Io in aggiunta alle numerose esperienze particolari. Per Hume, infatti, l’identità personale non è altro che un fascio di determinate percezioni particolari. La posizione di Searle si mostra subito in conflitto con quella humiana. Esiste infatti un “senso” dell’Io, cioè la sensazione di essere “se stesso”, e questo è un fatto innegabile. Gli argomenti che convincono l’autore della necessità di postulare una nozione di Io hanno a che fare con le nozioni di razionalità, deliberazione e ragioni per l’azione. Ecco cosa sostiene precisamente il filosofo: “Dobbiamo postulare un io razionale o un agente che sia capace di agire liberamente e capace di assumersi la responsabilità delle azioni” (p. 294-95). Così, Searle ci fa notare che se costruissimo un robot in modo tale che fosse simile ad un uomo, esso dovrebbe avere, oltre ad un’ampia capacità percettiva, anche quella capacità nota come agency, cioè la capacità di dare inizio ad un’azione. Il robot dovrebbe, inoltre, essere in grado di agire in base a ragioni. Ma un robot con tutte queste caratteristiche, secondo l’autore, possiede certamente un Io. Abbiamo visto, dunque, che contrariamente a quanto sostenuto da Hume, è possibile postulare l’esistenza di un’Io e la proposta di John Searle rappresenta un buon inizio per l’analisi di questo importante concetto.

L’importanza del testo di Searle è indubbia. Esso si rivela, in conclusione, una preziosa sintesi delle teorie più accreditate sugli aspetti più importanti della mente umana, ed una introduttiva ma precisa esposizione di brillanti teorie innovative, a cui solo il tempo e la ricerca potranno dare ragione.

Si può certamente affermare che tutto il pensiero dell’autore assume come punto di partenza una grande fiducia nella ricerca biologica e nel continuo confronto con le neuroscienze. Se, infatti, venisse abbattuta la vecchia distinzione cartesiana tra fisico e mentale, alcune domande sulla mente umana potrebbero avere risposte filosofiche semplici, “benché ciò non implichi che siano ammesse risposte neurobiologiche semplici” (p. 304).

Bibliografia

Davies, P.C.W., Brown, J.R., 1986, The ghost in the atom, Cambridge, Cambridge University Press (Il fantasma nell’atomo: enigmi e problemi della fisica quantistica, trad. it., Roma, Città Nuova Editore 1992).

Kripke, S.A., 1980, Name and Necessity, Cambridge MA, Harvard University Press (Nome e Necessità, trad. it., Torino, Boringhieri 1982).

Nagel, T., 1974, “What Is It Like to Be a Bat?”, Philosophical Review, 83, pp. 435-50 (“Cosa si prova ad essere un pipistrello?”, trad. it. in D.C. Dennet, D.R. Hofstadter, L’io della mente, Milano, Adelphi 1985).

Putnam, H., 1981, Reason, Truth and History, Cambridge, Cambridge University Press (Ragione, verità e storia, trad. it., Milano, Il Saggiatore 1985).

Searle, J.R., 1980, “Minds, Brains and Programs”, Behavioral and Brain Sciences, 3, pp. 417-24 (“Menti, Cervelli e Programmi”, trad. it. in D.C. Dennet, D.R. Hofstadter, L’io della mente, Milano, Adelphi 1985).

Searle, J.R., 1983, Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, Cambridge, Cambridge University Press (Della Intenzionalità, trad. it., Milano, Bompiani 1985).

Indice

Acknowledgments
Introduction: Why I Wrote This Book
1. A Dozen Problems in the Philosophy of Mind
2. The Turn to Materialism
3. Arguments against Materialism
4. Consciousness Part I: Consciousness and the Mind-Body Problem
5. Consciousness Part II: The Structure of Consciousness and Neurobiology
6. Intentionality
7. Mental Causation
8. Free Will
9. The Unconscious and the Explanation of Behavior
10. Perception
11. The Self
Epilogue: Philosophy and the Scientific World-View
Notes
Suggestions for Further Reading
Index


L'autore

John R. Searle è Professore di Filosofia della Mente e Filosofia del linguaggio all’Università della California, Berkeley. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo Mente, cervello, intelligenza (Milano 1988), Atti linguistici (Torino 1992), Il mistero della coscienza (1998), Mente, Linguaggio, Società (2000), La razionalità dell’azione (2003) e La mente (2005).

Links

Homepage di John R. Searle presso l’UC di Berkeley:
Conversazioni con John R. Searle (blog):
Intervista radiofonica a John R. Searle:

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