venerdì 30 novembre 2007

Nisbett, Richard E., Il Tao e Aristotele.

Trad. it. di N. Pomilio, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 237, € 17,00, ISBN 9788817019569.
[Ed. or.: The Geography of Thought, Free Press, New York 2004]

Recensione di Rodolfo Ciuffa - 30/11/2007

Psicologia cognitiva, Antropologia culturale, Metafisica (gnoseologia), Filosofia politica, sociologia

Il Tao e Aristotele è la traduzione italiana del ben più indicativo The Geography of Thought, titolo che compendia in modo piuttosto esatto i contenuti dell’ultimo libro di Richard Nisbett. Quest’ultimo, uno dei più importanti e stimati psicologi cognitivi e sociali statunitensi, si è occupato e si occupa di “etnologia”: non solo producendo un discorso su un dato popolo, ma anche sviluppandone uno sul logos stesso di quel popolo, ovvero sul suo universo logico, riflessivo e rappresentativo.
Nel libro si muove una radicale critica al logocentrismo occidentale, ovvero alla tendenza tutta nostrana a universalizzare il modo di pensare che mediamente ci caratterizza, che presumiamo generale e valido in ogni cantone del mondo e che invece, a detta di Nisbett, non è per nulla globale né globalizzabile: gli stili di pensiero, in altre parti del mondo, sono a tal punto diversi da quello occidentale che si potrebbe addirittura concluderne che il mondo che noi europei e nordamericani vediamo sia completamente diverso da quello che vede, ad esempio, un cinese. In tal modo, con le armi della psicologia cognitiva e comparata, Nisbett contribuisce alla distruzione di un etnocentrismo logico che l’occidente ha veicolato attraverso la sua filosofia e la sua storiografia, e che dal Novecento la stessa filosofia, il pensiero femminista, la linguistica e altri fenomeni culturali, sociali e scientifici hanno teso a decostruire.
L’obiettivo di Nisbett, a ogni modo, è positivo piuttosto che negativo. Avvalendosi di alcuni ingegnosi esperimenti condotti essenzialmente su americani, estremo-orientali ed estremo-orientali trapiantati in occidente (come gruppo culturalmente intermedio tra il primo e il secondo), l’autore ha provato a enucleare le differenze fondamentali che distinguono il modo occidentale di vedere il mondo da quello orientale e, dunque, le caratteristiche definitorie e precipue che caratterizzano l’uno e l’altro.
La visione orientale della realtà è mediamente molto più contestualizzante e meno classificatoria. Il cinese sarà più portato a vedere sostanze che non oggetti e a utilizzare un verbo piuttosto che un sostantivo. L’idea di poter isolare analiticamente una frazione di realtà, anche nella vita di tutti i giorni, potrebbe risultare non solo assurdo ma anche piuttosto difficile per un orientale, che è abituato a pensare qualsiasi individuo e se stesso sempre come parte, risultante di una complessa, irriducibile e olistica interazione fra le molte regioni di un tutto complesso. La stessa classificazione (e dunque i processi associativi che su di essa si basano) sarebbe regolata da principi di inclusione e connessione molto diversi, tanto che, mentre un americano riterrà assai più pertinente associare una mucca a una gallina piuttosto che a un ciuffo d’erba (in virtù della loro comune animalità), il giapponese sarà di tutt’altro avviso, poiché descrittivamente parlando è il nesso fra l’erbivoro e il suo pasto il più frequente. La differente impostazione si riflette anche nell’analisi dell’immagine e della forma, quanto pure nell’attenzione e sensibilità allo sfondo piuttosto che al primo piano.
Le ricadute sul piano estetico, etico e filosofico di queste articolazioni parallele del mondo sono abbastanza ovvie. È per questo, conclude Nisbett, che bisogna sormontare il monolinguismo che ci affligge e provare a trarre il meglio anche dai mondi possibili che albergano nelle menti e nelle culture di persone e civiltà altre - mondi lontani, invero, ma non irraggiungibili.
Il messaggio che sostanzia queste pagine è dunque duplice: non illudiamoci che gli altri abbiano, meramente, delle rappresentazioni della realtà divergenti dalle nostre; potrebbero essere i principi stessi che presiedono alla loro costruzione a differire radicalmente. In più, anche i più piccoli frammenti cognitivi e la realtà di ogni giorno possono riprovare l’esistenza di queste metafisiche irrelate: prendiamone atto.

Indice

Introduzione
Tao e Sillogismo
Le origini sociali della mente
Socialità o individualismo
Vedere una statua o un pezzo di marmo
Contesto o personalità
Un mondo di verbi e sostantivi
Aut-aut o mediazione
E se la natura del pensiero non fosse ovunque la stessa?
Epilogo
Ringraziamenti
Note
Bibliografia


L'autore

Richard E. Nisbett è Theodore M. Newcomb Distinguished Professor di psicologia sociale all’Università del Michigan, dove codirige il progetto di ricerca dedicato a Culture and Cognition. In italiano è altresì disponibile L'inferenza umana (Bologna, 1989).

1 commento:

MAURO PASTORE ha detto...

Non è possibile che l'oggetto di una scienza empirica, che non è fatta da esperimenti bensì con l'esperire, sia a sua volta un'altra scienza, neppure a sua volta empirica; infatti tali scienze sono logiche ma per logiche separate e primarie.
Dunque non è possibile per uno psicologo interessarsi con la psicologia alla etnologia.

La nota informativa aiuta a comporre il quadro della situazione, che la recensione stessa in parte scompone trascurando uno dei due oggetti di ricerca dell'autore recensito, la cultura (non solo la cognizione). Inoltre il recensore di fatto non offre reale resoconto dell'orientamento psicologico dell'autore, volto a studiare la mentalità sociale innanzitutto.
Dunque cosa dedurre?
L'autore Richard E. Nisbett si è occupato di ricezioni culturali, in particolare della mentalità con la quale una società ha fatto uso della cultura etnica, etnologica, etnografica; notando che (in un certo, dato ambiente)...

A) in stessa società non si pratica con dovuta accortezza o certezza riconoscimento sufficiente della alterità, ciò che in psicologia significa scarsa attenzione ai vissuti delle collettività di non propria appartenenza, dunque disattenzione alle manifestazioni esterne dell'inconscio collettivo;

B) che si dice e si pensa delle altrui appartenenze etniche accogliendone manifestazioni senza accoglierne modalità di espressioni, che anzi ripetute differentemente non sono comprensibili nei discorsi che diventano non denotativi e restando indicativi ma problematici per le comunicazioni anche necessarie (monolinguismo psicologico);

C) che si agisce e si reagisce nei contatti e confronti con altre realtà etniche, distinte dalla propria, solo in conformità al proprio volere inerente propria realtà etnica e solamente in base a razionalità non universale, emotivamente dipendente non dalle differenze riconoscibili ma dalla non uguaglianza riconosciuta (logocentrismo psichico);

... e va notato che non si tratta di etno-psicologia, perché l'oggetto di studio non è la mentalità relativa alla appartenenza etnica; difatti lo studio concerne mentalità sociale in rapporto a cultura etnica.

La culturalità cui autore fa riferimento include saggezza orientale e filosofia occidentale — il Tao ed il pensiero aristotelico — il primo basato su logica inclusiva (il Tutto diviso in Parti corrispondenti), il secondo su logica esclusiva (dagli Effetti alla Scaturigine); e parallelamente svolgendo proprie osservazioni anche storiche (comparando scansioni di tempi diretti ed indiretti) anche in ambienti del tutto differenti da quelli originari di stesse saggezza e filosofia: il Giappone, l'America degli indiani di origine orientale; infine pervenendo a conclusione su possibilità ed impossibilità, sociali e culturali, di stessa mentalità studiata:

1) possibilità di relazione sociale e culturale bilaterale, impossibilità di rapporto unico, cioè impossibilità di rapporto comune a stessi che si rapportano.

Ma il recensore (forse per traduzione imprecisa?) trasponendo tutto questo contenuto in nesso cognitivo e non sociale privilegiato ne riferisce senza distinzione ad ovvia psichicità apolitica che in quanto non impolitica è comune a stessi agire politici e che nella esposizione della recensione assurge a riferimento ma essendo tale solo per arbitraria, politica non psicologica soggettività — la psicologia è una disciplina non soggettivistica bensì soggettivamente aperta ad oggetto.
Il risultato traspositorio della recensione è un non psicologico né psichico solipsismo, ovvero semplice strategia mentale che risulta retaggio (diretto o indiretto) della Guerra Fredda e del torto stalinista, che opponeva, agli studi psicologici e non solo dell'Ovest del mondo, chiusura mentale e rifiuto, spesso violento, di realtà umana da cui stessi studi.

MAURO PASTORE