giovedì 22 novembre 2007

Sanò, Laura (a cura di), Le potenze del filosofare. Lógos, téchne, pólemos.

Padova, Il Poligrafo, 2007, pp. 250, € 22,00, ISBN 9788871155203.

Recensione di Francesco Tampoia - 22/11/07

Estetica, Filosofia teoretica (tecnica), Storia della filosofia (antica, Rinascimento, contemporanea)

Il volume raccoglie i saggi del lavoro collettivo svoltosi presso la Scuola di dottorato in Filosofia dell’Università di Padova nell’anno accademico 2005-2006. Nell’Avvertenza, Laura Sanò scrive che il progetto è nato all’insegna della quasi arbitrarietà dell’assunto, dalla volontà di condensare, come si legge dal titolo, in “alcune parole chiave le principali direttrici lungo le quali si sviluppa il pensiero contemporaneo”.

I vari saggi, pur se disuguali nella resa e caratterizzati da una propria autonomia di impostazione e di valutazione critica, hanno un comune denominatore nell’acquisita, “definitiva eclisse dei sistemi centrati, il superamento di ogni assolutismo, a cui è connessa la forte valorizzazione delle individualità e delle differenze”.

Stefano Martini nel saggio Pólemos come lógos della iatriké téchne. Considerazioni intorno ad alcuni scritti del Corpus Hippocraticum vede nella téchne medica greca una connotazione conflittuale non solo contingente ma anche strutturale. Esaminando gli scritti ippocratici si sofferma sullo statuto epistemologico della medicina greca, la sua valenza conoscitiva e scientifica, già nota al lettore dei dia-logoi platonici. Lógos e pólemos sono strettamente connessi (Eraclito, Heidegger), così come sono fortemente interconnessi lógos e téchne, e la pratica medica è pólemos nel senso di lotta, guerra senza quartiere contro la magia perché trionfi la téchne, intesa come mediazione feconda tra esperienza e teoria. “Il Corpus hippocraticum offre la migliore immagine di queste polemiche sull’arte perché è il solo corpus del V secolo ad aver conservato nella loro integralità esempi di questi trattati detti téchnai”(p. 32). Dopo un’analisi ricca e documentata dei testi (fin troppo lunghe le citazioni), Martini conclude la sua esposizione “Ancora una volta, siamo in presenza di un’aspra contesa, in questo caso contro la degradazione dell’arte medica, ad opera di alcuni indegni rappresentanti, dimentichi della virtù e della verità: sono costoro ora, pertanto, il bersaglio polemico, ma non in nome di una fanatica forma di idolatria nei confronti di un Ippocrate inteso come principio di autorità indiscutibile” (p. 51).

Nel suo contributo Lógos, téchne, pólemos nel catalano Ramon Llull Alessandro Tessari fa riferimento al contesto storico in cui operò Lullo, ricorda che la molla che spinse Lullo fu la vocazione medievale di convertire gli infedeli alla fede cristiana, soprattutto gli islamici, ma anche la difficoltà di comunicare ignorando la lingua araba. Lullo dice di essere stato, per questo, chiamato da Dio, che gli ha mostrato il logos divino, il liber melior de mundo, non un Arbor scientiae, enciclopedia analitica dell’universo, bensì una clavis universalis, una ars-techne, un metodo che doveva servire da matrice per la composizione di ogni ulteriore libro possibile. Questa arte, insomma, è l’arte di manipolare segni: “Tutta la realtà è una emanazione di Dio. Le figure che Lullo escogita serviranno per rendere più chiaro il percorso creazionistico. L’articolazione dell’Ars brevis passa attraverso un alfabeto, delle definizioni, delle regole di manipolazione: è il linguaggio che caratterizzerà lo spirito della nuova scienza che Descartes, più che Bacon, porrà all’attenzione dell’uomo moderno.” (p. 65) Se Giotto ha usato i colori per raccontare le storie della Bibbia, “Lullo prende le ruote meccaniche e concentriche che al posto delle parole contengono dei segni. La concordanza di quei segni è la techne che permette al logos di illuminare le menti dei suoi contemporanei” (p. 66). Questo logos, ovviamente, non è più quello dei Greci, semmai è un logos ‘polemico’, a kind of primitive logic machine, come potremmo intenderlo noi oggi. Tessari precisa, per restare nel contesto storico di Lullo, che l’arte lulliana non è un’arte di produzione di verità matematiche alla maniera dell’analitica cartesiana, precede la stagione secentesca dell’analitica e la scavalca per la sua esplicita universalità includendo tutti i linguaggi. È una ars magna, che probabilmente ha suggerito a Leibniz la characteristica universalis.

Di carattere più informativo il saggio La destinazione del genere umano: téchne e progresso morale nella riflessione di F. Hölderlin di Laura Anna Macor, che confronta gli scritti di Hölderlin sia con motivi mitologici e classici sia con l’antropologia kantiana e schilleriana. Per Hölderlin la questione della tecnica va affrontata a partire da una chiara e solida base etica: la grandezza dei Greci consiste nel fatto che furono capaci di unire “in una magnifica umanità la giovinezza della fantasia e la virilità della ragione”, mentre con l’età moderna è avvenuta la scissione dei due termini.

Gaspare Polizzi nel suo A proposito di téchne e lógos nel pensiero di Leopardi: nuove fonti testuali dichiara di voler proporre un tassello sulla formazione del pensiero di Giacomo Leopardi e commenta il Dialogo della Natura e di un Islandese. Grazie all’appoggio di testi noti, tra cui lo Zibaldone, nonché di altri meno noti e poco frequentati di Leopardi o di autori conosciuti da Leopardi, individua un percorso di ricerca nuovo in cui poter analizzare il concetto di natura e il rapporto téchne/ lógos.

Di maggior spessore e ampiezza il saggio La scommessa di Prometeo. Fra Leopardi e Nietzsche di Laura Sanò, che prende le mosse dal mito di Prometeo “La téchne non appartiene affatto al corredo naturale dell’uomo, non è un presupposto innato e congenito all’essere umano, non risiede nell’uomo stesso, bensì, piuttosto, è da considerarsi come un dono che proviene dall’esterno, elargito grazie a uno stratagemma e un sacrificio divino” (p. 119). Nel famoso racconto platonico del Protagora sono messi a confronto Prometeo ed Epimeteo. Epimeteo ha chiesto e ottenuto di assolvere da solo il compito di distribuire ”i doni naturali” alle stirpi mortali, salvo la revisione di Prometeo. La distribuzione è equa e appropriata al fine di assicurare la sopravvivenza di ogni specie; ma quando Epimeteo giunge all’uomo si accorge di aver esaurito i doni naturali. Prometeo, scoperto l'errore e vedendo l'uomo nudo, scalzo, inerme mentre il giorno della comparsa sulla terra è giunto, decide di rubare il fuoco e donarglielo.

Prometeo ha donato all’uomo le tecniche esaltandone le virtù, ma non ne ha svelato tutti gli inconvenienti, forse perché non li conosce. Le tecniche sono pharmakoi, procurano del bene, ma non salvano l’uomo dal suo destino. E allora chi dei due ha sbagliato? Leopardi nelle sue Operette morali non ha dubbi ed è convinto che sia più vera e coerente di qualsivoglia sistema filosofico l’ultrafilosofia, che smaschera la crudeltà del destino umano. Il pessimismo di Leopardi non ammette salvezza, non ammette un tempo ultimo, non ammette recupero. La negatività di cui parla Leopardi resta sempre tale e non confluisce hegelianamente nello spirito assoluto, il vero della negatività leopardiana è un logos muto, cosmico, senza voce, è il cielo eterno del divenire, del tempo sempre uguale a se stesso. A modo suo Nietzsche ha contratto un debito verso Leopardi e Schopenhauer, come ha contratto un debito più volte riconosciuto verso Eraclito. Per Nietzsche il senso complessivo della grecità, al di là delle diverse accentuazioni della sua attività intellettuale “il proprium della vita greca, ciò che è alla base di quella cultura, di quell’arte, di quella civiltà, è l’elemento agonico” (p. 136). Verso la conclusione la Sanò, nel confrontare Leopardi e Nietzsche, si richiama al Canto notturno e, riaffermando la linea di pensiero anti-dialettica di Leopardi, chiude così: “Leopardi indica i nodi teorici fondamentali, intorno ai quali si svilupperà quella tradizione speculativa nota come pensiero negativo, all’insegna di una ripresa della nozione eraclitea del pólemos” (p. 138). Alla filosofia resta il compito di far emergere o di rivelare il pólemos della realtà, le antinomie dell’esistenza.

Barbara Scapolo in Téchne del lógos e lógos della téchne. Note intorno al fare poietico-dialogico di Paul Valéry, nel confrontarsi con Valéry parte dal concetto di logos come com-prende, tenere insieme. “In origine, la téchne risultava essere specificamente connessa al dominio della poiesis, ovvero a quell’operare produttivo di cui il fare artistico non è che un esempio eminente” (p. 142). È ciò che interessa Valéry, più scrittore che filosofo; è ciò che lui propugna come poetica della forma. Il dialogo è parte integrante sia del pensiero che del linguaggio e al filosofo appartiene il passo della interrogazione con la conseguenza di stazionare sempre sulla terribile soglia che separa la domanda dalla risposta. Valéry è uno scrittore che ha sempre ripensato, vissuto e rivissuto il problematico rapporto tra lettore e autore: “Il rapporto tra opera e lettore non è quindi del tutto pacifico in Valéry, due potenze si scontrano e tendono a prevaricare l’una sull’altra, senza mai arrivare a fondersi, quanto piuttosto dando origine a una distanza incolmabile” (p. 150). All’idea di una compenetrazione tra autore e lettore, a un qualsivoglia narcisismo, Valéry contrappone una sorta di “apertura verso l’esterno che si caratterizza come dialogo, veste formale che giocoforza implica un confronto attivo” (p. 158). In chiusura la Scapolo ricava dalle sue note su e con Valéry la scoperta della dimensione pratica della filosofia: “il lógos filosofico non può essere inteso come semplice verbalismo conoscitivo, ma deve comprendere al suo interno, al di là del linguaggio, una dimensione legata tanto alla pràxis quanto alla poìesis, che dia forma all’atto medesimo del pensiero e della sua manovra, modificando in profondità che pratica questo esercizio” (p. 177).

In un certo modo parallelo al precedente saggio è quello di Mariateresa Costa Povertà di esperienza nell’epoca della riproducibilità tecnica che verte sulla concezione benjaminiana della tecnica con ampi riferimenti a l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Esperienza e povertà. Per Benjamin l’arte è una téchne che nasce dal puro piacere della mímesis, ma perché la téchne non produca danno all’umanità è bene che sia mantenuta l’asimmetria tra progresso tecnico e progresso morale, seguendo il noto insegnamento kantiano che la tecnica non deve diventare fine a se stessa. Una tecnica spinta all’eccesso porta l’uomo a perdere l’autentica esperienza umana, a un sicuro impoverimento, e Benjamin propone un “nuovo positivo concetto di barbarie”. Di qui la domanda: si può distruggere ciò che è nefasto nella nostra civiltà altamente tecnologica? Con la distruzione è possibile tornare al bambino che è in noi, all’immaginazione? Ed è possibile ancora costruire un discorso filosofico?

Cristina Mescaldin con Spettralità e tecnica del pensiero di Jacques Derrida ci porta a un filosofo spesso evocato, circolante in questi saggi. Chi non ricorda il celebre saggio di Derrida che interpreta il Fedro seguendo una linea di pensiero costruita sull’ambivalenza della tecnica? Derrida ha attaccato il logocentrismo occidentale, sulla scia di Heidegger ha attaccato il valore logocentrico della presenza e lo ha fatto richiamandosi alla scrittura, una téchne che sfugge ed eccede sia la categoria della presenza sia quella dell’assenza. “La filosofia, dopo Eraclito, vive il dramma di una scissione. Il raccoglimento fu minacciato nella sua unità […]. Secondo Derrida, invece, questa presunta origine archifilosofica che si darebbe con il pensiero eracliteo del fuoco, non è altro che un effetto di rimbalzo metafisico. Come insegna Eraclito, e Derrida si pone nella stessa direzione, l’uno è già differente da sé e compromesso con l’altro” (p. 209). Derrida ha insistito su questo: l’originario è un traccia, è la differenza, la sua possibilità è anteriore al segno, la spettralità della tecnica consiste proprio nella sua dinamica iterativa, nella sua differance, nella sua ripetitività.

L’ultimo saggio Lógos e áisthesis nella fenomenologia moderna e contemporanea di Maude Dalla Chiara porta all’attenzione dei lettori i risultati della ricerca del filosofo francese Henri Maldiney. Si tratta di una ricerca interessante, centrata sui concetti greci di lògos e áisthesis seguendo il filo storico della fenomenologia moderna e contemporanea. I filosofi su cui indugia maggiormente Maldiney sono Hegel, Husserl, Heidegger. La sua conclusione è che “la nozione di soggettività trascendentale husserliana, così come la progettualità del Dasein heideggeriana, non rendono conto della dimensione imprevedibile dell’evento”. Per Maldiney “un orizzonte aperto non è aperto da un progetto. È piuttosto l’orizzonte di cui siamo ‘passibili’, l’orizzonte di un’esistenza che non è assunta attivamente ma che è subita” (p. 248). Il nocciolo, se si può dire, della posizione di Maldiney consiste nel riconoscere che non solo è impossibile una presa di posizione preliminare del soggetto, ma anche che è impossibile una predeterminazione originaria e oggettiva di un orizzonte già possibile.

Nella quarta di copertina si legge che nel panorama novecentesco è presente il pervasivo concetto di téchne, ma proprio per questo, a mio parere, mentre alcuni saggi si muovono lungo una lettura essenzialista della tecnica, il volume non dice della connessione/sconnessione, all’interno del concetto di téchne, tra téchne antica e la tecnologia del nostro tempo.

Indice

Avvertenza
Laura Sanò, Introduzione
Stefano Martini, Pólemos come lógos della iatriké téchne. Considerazioni intorno ad alcuni scritti del Corpus Hippocraticum
Alessandro Tessari, Lógos, téchne, pólemos nel catalano Ramon Llull
Laura Anna Macor, La destinazione del genere umano: téchne e progresso morale nella riflessione di F. Holderlin
Gaspare Polizzi, A proposito di téchne e lógos nel pensiero di Leopardi: nuove fonti testuali
Laura Sanò, La scommessa di Prometeo. Fra Leopardi e Nietzsche
Barbara Scapolo, Téchne del lógos e lógos della téchne
Mariateresa Costa, Povertà di esperienza nell’epoca della riproducibilità tecnica
Cristiana Mescalchin, Spettralità e tecnica del pensiero di Jacques Derrida
Maude Dalla Chiara, Lógos e áisthesis nella fenomenologia moderna e contemporanea


Il curatore

Laura Sanò ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. Le sue indagini sono indirizzate all’esplorazione della filosofia italiana contemporanea nel contesto del pensiero europeo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Un daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, La Città del Sole, Napoli 2001; Le ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Città Aperta, Troina (EN) 2005; Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Prefazione di R. Bodei, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2007.

5 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Primo studio recensito è in bilico tra oblio ed errore o non-detto.

Condizioni culturali di rapporti a cultura greca antica erano già parecchi anni prima di anno (2007) di lavori recensiti di poca consapevolezza della forte analogicità dei significati resi fino al punto che i sensi corrispettivi rischiavano di non esserne omologhi e diffusa presunzione di determinismo storico generava interpretazioni non neutrali non riconosciute per tali e che accadevano secondo attese mosse da intenti aggressivi contro mondo greco stesso, di cui si descriveva vita in base a idea sbagliata che esso fosse dèdito ad eros smodato e a sessualità solamente non civile. Prima di tale degenerazione fatta di abbandoni culturali ad esigenze subculturali o non culturali, modalità preponderanti ormai da decenni nel tradurre testi greci di antichità e medioevo erano di riferimento ontologico-lessicologico ed improntate a forte osmosi soggetto-oggetto che richiedeva impegno di lettura distintiva già precomprensiva che pochi avevano. (In scuole chi di mentalità greca non ellenica era impossibilitato a manifestare proprie capacità le quali bisognava usare poco e cercando di non farsi capire troppo, perché più numerosi sensi a disposizione ma significati più oscuri lasciavano perplessi i professori ed interdetti i compagni e si rischiava di esser giudicati oziosi sempre o troppo cialtroni quindi era necessario attuare strategie diplomatiche e tattiche di distacco sociali ed accontentarsi di poco in mezzo alle circostanze negative create da quasi immancabile fobia sessuale ed anti-ideale eros di quasi tutti... Questa era la situazione più frequente per intera Italia.) Riferimento ontologico-lessicologico era comprensibile anche a cultura non ellenica però a sua volta distante; ma per gli altri ancora di più e pochi se ne avvedevano. Secondo tal riferimento le descrizioni di azioni erano assai poco definite nella distinzione tra agente ed atto e tendenza di maggioranza era di non badare tanto e tra la maggioranza una parte era propensa a non rigorosità storica. Oltre a tutto questo, eventi di storia greca ellena erano stati assai mutati da fondazione di Stato Greco unitario moderno e culture elleniche non avevano più funzione diretta quanto prima oppure dovevano considerare grecità non ellenica per pensare il passato senza perderne molte conoscenze. Tutto ciò fu seguito da perdite di continuità culturali e da smarrimento di identità civili: in iperciviltà intromessa da sovietismi ed americanismi si annoverava grecità qual poco più di una pornografia e chi non dava troppa retta ai loschi mòniti di quelli insinuatisi nei superpoteri comunisti / capitalisti non aveva vita culturale facile...

Allora se qualcosa è rimasto di cultura classica su Grecia antica e sua eredità, ciò lo si deve ad eccessi ed estremi degli ingenui e presuntuosi, involontariamente autoannullantesi; nonostante ciò i riferimenti odierni degli ignari di tutto questo a volte cominciano ad essere quasi nulli ed anche a causa di ragioni inapplicabili senza pensar un mondo concettuale uguale ma non stesso che greco; per questo si assiste a tentativi che terminano per non completa oggettivazione e accade anche soggettivismo ignorante di sé stesso che è vero è proprio oblio ed errore storico.

Nei fatti non era pensiero ippocratico greco una attività frammista intellettuale - pratica di polemica e medicina, cioè la polemica ne era una propedeutica per non lasciare tributare a mondo greco esigenze non proprie e per non farne intendere i sistemi medici più di saperi che avevano scopo per i greci di evitare inutilità e di favorire pensabilità.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Dunque...
in dottrina ippocratica la polemica era ad esclusione di tecnica perché illustrava strette necessità sanitarie greche cui medicina un modo di già beneficiare di prevenzioni oppure una maniera di riflettere la esperienza del distacco tra stato di malattia e malattia stessa. Questa riflessione mostrava la favorevolezza del sapersi già al riparo a causa di condizione di unione culturale naturale e da tal coscienza poteva darsi eventuale contributo a mondo non greco, che restava esiguo e a scopo di confronti interculturali e distinzioni etniche. Il sapersi già al riparo scaturiva da intuibilità espressa, dunque: iatria; che in medioevo bizantino, a causa di unione tipica di complessità intellettuali e semplicità sociali, era affermazione di diretta ovvietà: e iatria ne era di stessi destinatari; o per far ritrovare coscienza vitale di vitalità in atto, ai greci stessi; o per informarne i non greci interessati al fatto.

Logica ippocratica era unica ma con secondo manifestarsi per i non greci.

Ciò è assai rimarchevole odiernamente perché tendenza generale insinuata in politica senza tener conto che Sanità di Stato non è Stato stesso è di non considerare adeguatamente distinzioni tra tecniche dirette ed indiretto, tra tecniche e scienze, tra metodologie assistenziali e tecnologie utilizzatene.

Cronaca di questi giorni mostra l'erranza di quelli che affidano a ricerche scientifiche ruolo per disposizioni tecnologiche ma senza tener in dovuto conto della impossibile programmazione di scienze da mandato medico separato a sua volta però attuato da mandato originario dei malati comunicato a sanitari non medici. Ciò significa che àmbito medico deve esser preceduto da àmbito assistenziale di mediazione, sennò da scienza e tecniche inappropriatezze e da medici incapacità... :
In questi giorni sanitari affrontano emergenza di influenza epidemica e circolano notizie di ricorsi medici a scienze che sarebbero adatti per tesi di lauree non per professioni; ed è anche ovvio, poiché concetto di medicina è in realtà quasi assente da ambienti a stessa medicina deputati, non solo in vastità italiane anche occidentali ed in parte anche orientali; con comunicazioni identiche a quelle della non-civiltà - non-tribalità africana ma che giungono da presunti "dottori"... Se invece rispettando reale protocollo di Stato, allora: ricorso a scienze non tramite medici ma assistenti sanitari (sociali e più non sociali! ) per diretto volontario bisogno dei malati o di quelli a rischio di malattia effettiva non di patirne stato e risultati per i ritrovati medici reali — e indubbiamente supporto scientifico è attualmente per la medicina il più importante per molti.
Inoltre se si avesse dato più notizia degli scampati (che non sono coloro che superate eguali non stesse difficoltà; questo è altro da àmbito sanitario medico), cioè agli scampati a stato di malattia stessa, si sarebbe fatto per la prevenzione atto determinante; ed invece, pur essendo controproducente il limitare comunicazioni –o peggio se di altro pure– degli scampati, ma –a quanto pare– è ciò già accaduto ed anche spesso.


...Sicuramente ritornare ad intendere pensiero medico greco ippocratico illustra, di situazioni odierne manchevoli, direttamente la mancanza; ma non di più che questo.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In secondo messaggio non ho evitato di lasciare modalità di espressione tipica del linguaggio della tecnica (sorta di corrispettivo a "diritto" quale nozione giuridica):

'indiretto',

che tecnologicamente significa "intervento indiretto" o simili o anche "indirettamente".


In primo messaggio c'è un 'è vero' che tra parentesi sarebbe più agevole a leggersi.


Reinvierò testi senza apparenti stramberie e con ugual senso finale.



MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(*)

Primo studio recensito è in bilico tra oblio ed errore o non-detto.

Condizioni culturali di rapporti a cultura greca antica erano già parecchi anni prima di anno (2007) di lavori recensiti di poca consapevolezza della forte analogicità dei significati resi fino al punto che i sensi corrispettivi rischiavano di non esserne omologhi e diffusa presunzione di determinismo storico generava interpretazioni non neutrali non riconosciute per tali e che accadevano secondo attese mosse da intenti aggressivi contro mondo greco stesso, di cui si descriveva vita in base a idea sbagliata che esso fosse dèdito ad eros smodato e a sessualità solamente non civile. Prima di tale degenerazione fatta di abbandoni culturali ad esigenze subculturali o non culturali, modalità preponderanti ormai da decenni nel tradurre testi greci di antichità e medioevo erano di riferimento ontologico-lessicologico ed improntate a forte osmosi soggetto-oggetto che richiedeva impegno di lettura distintiva già precomprensiva che pochi avevano. (In scuole chi di mentalità greca non ellenica era impossibilitato a manifestare proprie capacità le quali bisognava usare poco e cercando di non farsi capire troppo, perché più numerosi sensi a disposizione ma significati più oscuri lasciavano perplessi i professori ed interdetti i compagni e si rischiava di esser giudicati oziosi sempre o troppo cialtroni quindi era necessario attuare strategie diplomatiche e tattiche di distacco sociali ed accontentarsi di poco in mezzo alle circostanze negative create da quasi immancabile fobia sessuale ed anti-ideale eros di quasi tutti... Questa era la situazione più frequente per intera Italia.) Riferimento ontologico-lessicologico era comprensibile anche a cultura non ellenica però a sua volta distante; ma per gli altri ancora di più e pochi se ne avvedevano. Secondo tal riferimento le descrizioni di azioni erano assai poco definite nella distinzione tra agente ed atto e tendenza di maggioranza era di non badare tanto e tra la maggioranza una parte era propensa a non rigorosità storica. Oltre a tutto questo, eventi di storia greca ellena erano stati assai mutati da fondazione di Stato Greco unitario moderno e culture elleniche non avevano più funzione diretta quanto prima oppure dovevano considerare grecità non ellenica per pensare il passato senza perderne molte conoscenze. Tutto ciò fu seguito da perdite di continuità culturali e da smarrimento di identità civili: in iperciviltà intromessa da sovietismi ed americanismi si annoverava grecità qual poco più di una pornografia e chi non dava troppa retta ai loschi mòniti di quelli insinuatisi nei superpoteri comunisti / capitalisti non aveva vita culturale facile...

Allora se qualcosa è rimasto di cultura classica su Grecia antica e sua eredità, ciò lo si deve ad eccessi ed estremi degli ingenui e presuntuosi, involontariamente autoannullantesi; nonostante ciò i riferimenti odierni degli ignari di tutto questo a volte cominciano ad essere quasi nulli ed anche a causa di ragioni inapplicabili senza pensar un mondo concettuale uguale ma non stesso che greco; per questo si assiste a tentativi che terminano per non completa oggettivazione e accade anche soggettivismo ignorante di sé stesso e vero e proprio oblio ed errore storico.

Nei fatti non era pensiero ippocratico greco una attività frammista intellettuale - pratica di polemica e medicina, cioè la polemica ne era una propedeutica per non lasciare tributare a mondo greco esigenze non proprie e per non farne intendere i sistemi medici più di saperi che avevano scopo per i greci di evitare inutilità e di favorire pensabilità.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

[(] * [)]

Dunque...
in dottrina ippocratica la polemica era ad esclusione di tecnica perché illustrava strette necessità sanitarie greche cui medicina un modo di già beneficiare di prevenzioni oppure una maniera di riflettere la esperienza del distacco tra stato di malattia e malattia stessa. Questa riflessione mostrava la favorevolezza del sapersi già al riparo a causa di condizione di unione culturale naturale e da tal coscienza poteva darsi eventuale contributo a mondo non greco, che restava esiguo e a scopo di confronti interculturali e distinzioni etniche. Il sapersi già al riparo scaturiva da intuibilità espressa, dunque: iatria; che in medioevo bizantino, a causa di unione tipica di complessità intellettuali e semplicità sociali, era affermazione di diretta ovvietà: e iatria ne era di stessi destinatari; o per far ritrovare coscienza vitale di vitalità in atto, ai greci stessi; o per informarne i non greci interessati al fatto.

Logica ippocratica era unica ma con secondo manifestarsi per i non greci.

Ciò è assai rimarchevole odiernamente perché tendenza generale insinuata in politica senza tener conto che Sanità di Stato non è Stato stesso è di non considerare adeguatamente distinzioni tra tecniche dirette ed indiretto (stesso) considerarne, tra tecniche e scienze, tra metodologie assistenziali e tecnologie utilizzatene.

Cronaca di questi giorni mostra l'erranza di quelli che affidano a ricerche scientifiche ruolo per disposizioni tecnologiche ma senza tener in dovuto conto della impossibile programmazione di scienze da mandato medico separato a sua volta però attuato da mandato originario dei malati comunicato a sanitari non medici. Ciò significa che àmbito medico deve esser preceduto da àmbito assistenziale di mediazione, sennò da scienza e tecniche inappropriatezze e da medici incapacità... :
In questi giorni sanitari affrontano emergenza di influenza epidemica e circolano notizie di ricorsi medici a scienze che sarebbero adatti per tesi di lauree non per professioni; ed è anche ovvio, poiché concetto di medicina è in realtà quasi assente da ambienti a stessa medicina deputati, non solo in vastità italiane anche occidentali ed in parte anche orientali; con comunicazioni identiche a quelle della non-civiltà - non-tribalità africana ma che giungono da presunti "dottori"... Se invece rispettando reale protocollo di Stato, allora: ricorso a scienze non tramite medici ma assistenti sanitari (sociali e più non sociali! ) per diretto volontario bisogno dei malati o di quelli a rischio di malattia effettiva non di patirne stato e risultati per i ritrovati medici reali — e indubbiamente supporto scientifico è attualmente per la medicina il più importante per molti.
Inoltre se si avesse dato più notizia degli scampati (che non sono coloro che superate eguali non stesse difficoltà; questo è altro da àmbito sanitario medico), cioè agli scampati a stato di malattia stessa, si sarebbe fatto per la prevenzione atto determinante; ed invece, pur essendo controproducente il limitare comunicazioni –o peggio se di altro pure– degli scampati, ma –a quanto pare– è ciò già accaduto ed anche spesso.


...Sicuramente ritornare ad intendere pensiero medico greco ippocratico illustra, di situazioni odierne manchevoli, direttamente la mancanza; ma non di più che questo.


MAURO PASTORE