venerdì 18 gennaio 2008

Accarino, Bruno (a cura di), Confini in disordine. Le trasformazioni dello spazio.

Roma, manifestolibri, 2007, pp. 175, € 19,00, ISBN 9788872854938.

Recensione di Luigi Marfè – 18/1/2008

Filosofia politica

È una doppia confusione quella cui fa riferimento il titolo di questo volume a cura di Bruno Accarino, Confini in disordine. Da un lato, infatti, indica la disconnessione del concetto di confine, che – in un mondo come quello post-coloniale – è reso sempre più labile e provvisorio dall’incremento esponenziale dei flussi migratori, fino a smaterializzarsi. Dall’altro, sottolinea il corrispettivo sovvertimento dell’identità dell’individuo che, assieme a uno spazio condiviso di valori e di diritti, ha perso ogni criterio oggettivo per definire il proprio status di cittadino. È per questo che, nell’introduzione, Accarino esordisce ricordando il romanzo Das Schloβ di Franz Kafka, il cui protagonista cerca di farsi assumere come agrimensore in un paese in cui le demarcazioni tra i poderi sono già state tracciate. In negativo, l’allegoria di Kafka rappresenta infatti l’importanza della misurazione dello spazio nel definire la personalità degli uomini che lo abitano.
Confini in disordine raccoglie quattro saggi che descrivono alcuni aspetti della trasformazione dello spazio nell’epoca della globalizzazione. Il libro si concentra sia sulle premesse filosofiche che ne hanno accompagnato l’avvento che sulle questioni direttamente geopolitiche. Contro teorie come quelle di Zygmunt Baumann, Accarino pone l’accento sulla spatial turn che negli ultimi anni ha spinto il dibattito critico di discipline molto diverse – antropologia, urban studies, semiotica, storia dell’arte – a riflettere su come la definizione di una civiltà dipenda dalla propria imago mundi. È in questa volontà di dominare il territorio (Herrschaft) attraverso la misurazione che l’uomo rivela la vera natura del proprio rapporto con lo spazio. Le rappresentazioni dei luoghi non sono del resto mai fini a se stesse. Come aveva già notato Georg Simmel, infatti, in quanto demarcazione di confini, ogni discorso sul territorio si configura come agire politico basato sull’appropriazione e, talvolta, sulla violenza. Sulla scorta delle tesi di Gilles Deleuze e Felix Guattari, Confini in disordine invita allora a ri-territorializzare lo spazio come piano del discorso politico, nell’ottica di una filosofia che permetta di capire che cosa significhi orientarsi nel pensiero.
Nel primo saggio – ‘Tabula costituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica – Accarino sottolinea come la concezione tradizionale di confine sia messa in crisi da un insieme di cause che ha finito per deregolamentare lo spazio. L’integrazione finanziaria globale, il tramonto della sovranità, la porosità delle frontiere, le ondate migratorie, la crisi degli Stati-nazione, il sovvertimento di logiche oppositive come quella tra centro e periferia hanno disconnesso per sempre il carattere costituente della demarcazione dei confini. Si è spenta quella capacità di scatenare l’immaginario che, alla fine del secolo scorso, le zone bianche delle carte geografiche ancora sapevano scatenare, come dimostra il piccolo Marlow in Heart of Darkness di Joseph Conrad, indicando sul mappamondo il suo destino africano: “when I grow up, I will go there.” Da orizzonte critico diverso, studiosi come Michel Foucault e Hans Blumenberg hanno notato inoltre come ai pericoli di questa progressiva omogeneizzazione vada aggiunto un difetto che ha caratterizzato da sempre le rappresentazioni dello spazio. Mi riferisco all’inversione ontologica tra il mondo scritto e quello non scritto, per cui l’indagine diretta dei luoghi è mediata dalle loro rappresentazioni precedenti, così da impedire ogni svelamento di senso. In un mondo come quello di oggi, la categoria in cui iscrivere il concetto di confine è quindi quella della liminarità, dal momento che si tratta di frontiere mobili, frattali, marginali. Al di là degli omaggi alle virtù rizomatiche del mondo in rete, resta però da capire se, in un futuro più o meno prossimo, le forzature nomo-poietiche della conoscenza cartografica cederanno o meno a un nuovo ordine iconico che riconfiguri in maniera inedita l’intero spettro della rappresentazione dello spazio.
Nel secondo saggio – La seconda ecumene. A partire da Eric Voegelin – Antonietta Brillante verifica quali, secondo le teorie di Eric Voegelin, siano le coincidenze e quali le disparità tra le figure dell’ecumene greca e l’orizzonte universalistico della cultura occidentale moderna. Per la filosofia greca, l’ecumene implica una concezione dello spazio geografico che rimanda a una ricerca dell’ordine del cosmo. Si declina quindi sia come apertura a una trascendenza espressa attraverso i simboli del mito, della filosofia e della rivelazione, sia come chiusura connessa con il disorientamento di fronte alla verità dell’esistenza. Se il riconoscimento del fondamento trascendente dell’essere comporta la ricerca del significato dell’esistenza umana in un beyond, l’esperienza dell’ordine del cosmo – il beginning – non può però essere cancellata. Fin dai tempi di Alessandro Magno, infatti, chi ha provato a spostare il beyond nel mondo terreno si è scontrato con la vanità di ogni conquista, scoprendo l’esperienza di un confine da varcare in chiave escatologica. In questo senso, l’orizzonte è la traduzione in termini geografico-spaziali della verità dell’esistenza che Voegelin chiama in-between: lo spazio di apertura critica che consente di dotare di senso l’esistenza individuale, sociale e storica.
Nel terzo saggio – La rima e lo spazio (‘Reim und Raum’). Carl Schmitt fra poeti e scrittori – Nicola Casanova sonda le componenti letterarie della riflessione sullo spazio di Carl Schmitt. Appassionato di poesia, il giurista tedesco ha infatti analizzato con grande acume critico opere come Hamlet di William Shakespeare, Moby Dick di Herman Melville o I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Tra i contemporanei, la sua simpatia va all’amico poeta Theodor Däubler, mentre non sono risparmiati strali a Thomas Mann, accusato di pensare soprattutto al suo personaggio pubblico di scrittore. Attraverso la letteratura, Schmitt scopre il rapporto meta-linguistico che si instaura tra la parola (Wort) e il luogo (Ort) e che sarà alla base delle sue teorie comprese ne Il nomos della terra. In questo libro, egli riflette infatti sui rapporti fra la spazialità, la politica e il diritto delle genti interpretando la rima poetica come forma ordinativa del reale: un principio di ordine – retorico e non ontologico – di difesa da un caos che incombe e va trattenuto. Casanova sostiene che il modello di Schmitt vada cercato nella Scienza Nuova di Giambattista Vico, poiché sono entrambi autori avversi al giusnaturalismo e al contrattualismo e sviluppano un pensiero che descrive l’origine storico-concreta del diritto non dal punto di vista dell’individuo, ma da quello dei popoli. In questo senso, Schmitt si inserisce in maniera originale nel discorso politico novecentesco di matrice cristiana – da Konrad Weiss a Léon Bloy – scommettendo in chiave magica sul confine (Grenze) come strumento di organizzazione e di controllo dello spazio politico.
Nell’ultimo saggio – Dinamiche dello spazio politico nella comunità mondiale –, Gregor Fitzi riflette sulla doppia natura dell’agire politico, che chiama in causa sia la dimensione oggettiva delle scienze sociali che quella soggettiva dell’etica. Riprendendo Max Weber, Fitzi descrive la comunità politica attraverso la lotta dei gruppi sociali (Verbände) per il monopolio del potere sul territorio. Dopo aver constatato – sulla scorta di Hannah Arendt – la crisi in cui versano oggi gli stati nazionali, la sua analisi smaschera le ingenuità di chi, come Niklas Luhman, scommette nella capacità dei processi della globalizzazione di costruire una società mondiale omogenea., D’accordo con Laurant Carroué, Fitzi invita piuttosto a usare il concetto asistemico di mondializzazione, nel senso della molteplicità di livelli (local, national, global) in cui si articola lo spazio politico. In questonuovo paradigma, il compito più urgente appare quello di ri-configurare i confini della sfera pubblica del cittadino e di quella privata dell’individuo, nell’ottica di una nuova etica della responsabilità.
Non è quindi una filosofia dello spazio sistematica e totalizzante l’obiettivo a cui mira Confini in disordine. Descrivendo la progressiva de-territorializzazione del concetto di confine degli ultimi anni, Accarino sottolinea infatti come in essa sia implicita anche una possibile ri-territorializzazione. In quanto esperienza di soglia, i confini sono infatti ancora riti di passaggio, che concorrono a definire l’identità di chi li attraversa. È il caso dei migranti, i cui viaggi sono odissee contemporanee che ripropongono il gioco etimologico del tedesco tra il viaggiare (fahren) e l’esperienza vissuta (Erfahrung). Viaggiare significa scoprire qualcosa, scriveva del resto già il poeta tedesco Heinrich Heine, che era dentro di noi e che non sapevamo ci fosse.

Indice

Bruno Accarino, Introduzione: l’entropia del confine

Bruno Accarino, ‘Tabula costituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica

Antonietta Brillante, La seconda ecumene. A partire da Eric Voegelin

Nicola Casanova, La rima e lo spazio (‘Reim und Raum’). Carl Schmitt fra poeti e scrittori

Gregor Fitzi, Dinamiche dello spazio politico nella comunità mondiale


Il curatore

Bruno Accarino è professore di Filosofia della Storia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Tra i suoi ultimi scritti, sono da ricordare Rappresentanza (il Mulino, 1999), Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg (Mimesis, 2002), Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna (Mimesis, 2005). Ha curato l’edizione italiana de I limiti della comunità (Laterza, 2001) e di Potere e natura umana (manifestolibri, 2006) di Helmuth Plessner.

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