giovedì 15 maggio 2008

Fiasse, Gaëlle (éd. par), Paul Ricoeur. De l’homme faillible à l’homme capable.

Paris, Puf, 2008, pp. 178, € 12,00, ISBN 978882130561152.

Recensione di Luca Maria Possati - 15/05/2008

Storia della filosofia (contemporanea)

Nella notte tra il 19 e il 20 maggio 2005 moriva Paul Ricoeur. Oggi, a circa tre anni di distanza, dopo la pubblicazione postuma del volume di frammenti Vivant Jusqu’à la mort (2007), testamento spirituale di un’opera che ha attraversato tutto il Novecento filosofico, le Presses Universitaires de France hanno pubblicato per la collana Débats philosophiques il volume miscellaneo dal titolo Paul Ricoeur. De l’homme faillible à l’homme capable, curato da Gaëlle Fiasse, che raccoglie i contributi di alcuni tra i massimi studiosi del filosofo di Valence.
Il volume vuole offrire un filo conduttore che possa aiutare il lettore a orientarsi in un’opera tanto oceanica come quella di Ricoeur, un corpus non ancora misurato in tutta la sua estensione, che conta più di trenta libri e oltre mille tra articoli, saggi, contributi, conferenze, corsi, prefazioni e interviste. Questo filo conduttore ruota attorno al tema dell’“uomo capace” o, meglio, al passaggio dall’”uomo colpevole” all’”uomo capace”. “Ricoeur stesso riconosceva una svolta nel suo pensiero filosofico – sottolinea Gaëlle Fiasse – dal problema della colpevolezza a un’insistenza più pregnante sul tema della felicità e della capacità, dalla filosofia della volontà a una filosofia dell’azione, dall’uomo fallibile all’uomo agente e sofferente” (p. 10).
L’importanza del tema dell’azione per Ricoeur è un dato evidente fin dall’inizio degli anni ‘70, a partire dal confronto con la filosofia analitica, e in particolare con i lavori di Arthur Danto ed Elizabeth Anscombe. Pensabile “come se fosse un testo”, l’agire sociale diventa per Ricoeur il luogo princeps dell’interpretazione, intesa non solo come una dialettica tra spiegazione e comprensione, ma anche come una pratica inserita nel mondo. Dal testo all’azione, dalla metafora al pathos cosmico, dal racconto al tempo, per Ricoeur è questo: non fermarsi al linguaggio, e alla polisemia regolata che necessariamente lo caratterizza, ma indagare il rapporto tra linguaggio, soggetto ed essere; capire in che modo il linguaggio, dal momento in cui acquista la fisionomia del discorso, del testo, dell’opera strutturata, possa “illuminare” l’esperienza, svelare il senso della vita vissuta, della condizione umana, della storia. Come scriveva nella prefazione al volume di Don Ihde, Hermeneutic phenomenology (Evanston, Northwestern University Press, 1971), Ricoeur cerca di pensare un “nuovo equilibrio” tra linguaggio e azione, intesi come i due poli di una nuova ontologia.
Nell’ultimo Ricoeur il tema dell’azione e del sé capace di agire ha assunto un ruolo ancora più importante. In Soi-même comme un autre (1990) il nucleo dell’indagine è rappresentato dall’unità analogica dell’agire umano. La fenomenologia ermeneutica acquista sempre di più l’aspetto di una filosofia dell’agire. Il soggetto scopre il cammino della riflessione, il lento détour del sé, leggendo e interpretando il proprio agire, scoprendosi conatus essendi. “Molti “io posso” punteggiano l’opera di Ricoeur – scrive Fiasse – anche se compaiono su uno sfondo di passività e malgrado tematiche apparentemente eteroclite, come il rapporto con l’alterità, il fenomeno della memoria e della reminiscenza, la storia e le tracce del passato, l’oblio e il perdono, il fenomeno del riconoscimento, le caratteristiche della traduzione […]” (p. 11).
A causa di questa molteplicità di temi e di vedute, l’unità del discorso ricoeuriano costituisce un problema su cui lo stesso Ricoeur ha più volte riflettuto, o è stato indotto a riflettere dai suoi critici e dalle tante versioni diverse del “motivo unitario” che essi ne hanno dato. La questione è ormai diventata un locus classicus, e forse sarebbe auspicabile un cambiamento di prospettiva.
A prendere le mosse dalla difformità dell’impresa ricoeuriana è anche Jean Grondin, autorevole studioso di ermeneutica, in uno dei saggi più importanti della raccolta, dedicato a una questione finora trattata soltanto da pochi: è possibile parlare di una comune concezione ermeneutica tra Ricoeur e Gadamer? In effetti, anche se Ricoeur e Gadamer s’inseriscono entrambi nella grande tradizione dell’ermeneutica europea, quella di Schleiermacher, di Dilthey, di Bultmann, di Heidegger, tuttavia lo fanno in maniere e con scopi molti diversi. A differenza del maestro di Marburgo, per Ricoeur non possiamo parlare di una sola concezione ermeneutica. “Non è facile comparare Gadamer con Ricoeur – riconosce Grondin – poiché occorre ogni volta chiedersi: con quale Ricoeur? Quello dell’ermeneutica dei simboli? Quello che s’impegna in un dibattito con Freud e con lo strutturalismo? Quello della teoria della metafora, del racconto o dell’ipseità?” (p. 40). Due le grandi differenze che saltano subito agli occhi. La prima riguarda la provenienza filosofica dei due autori: mentre Gadamer ha i piedi ben piantati nella tradizione tedesca, quella di Schleiermacher e di Dilthey, Ricoeur è figlio della tradizione riflessiva francese, perciò i suoi modelli di riferimento sono Lachelier, Lagneau, Nabert, Marcel, Emmanuel Mounier. La seconda differenza è più di carattere strutturale: “mentre la questione di Gadamer è: “che cosa accade quando comprendiamo?”, quella di Ricoeur piuttosto è: “Come dobbiamo interpretare?”” (p. 43). Gadamer pensa una frattura netta tra lo spirito metodologico e oggettivante della modernità e l’esperienza ermeneutica. Ricoeur invece accetta il metodo. Anzi, secondo lui l’ermeneutica ha proprio il compito di pacificare il conflitto tra metodi interpretativi diversi.
In altri termini, se Gadamer parte da una domanda fondamentale, “che cosa significa comprendere?”, Ricoeur non elimina questa domanda ma pensa che, per porsela correttamente, sia necessario accettare e giustificare la molteplicità dei metodi che la comprensione usa nell’attuarsi. Tale la convinzione che guida l’Essai sur Freud (1965) così come i saggi de Le Conflit des interprétations (1969): il conflitto delle interpretazioni è la cruna dell’ago che il filosofo deve attraversare per arrivare alla terra promessa dell’ontologia, laddove si mostrano – ma solo attraverso il gesto dell’interpretazione – le radici ermeneutiche della comprensione, e il soggetto si scopre Dasein. Stessa cosa nelle grandi opere degli anni ‘70 e ‘80 che, sebbene mostrino una “tonalità” ben diversa dalle precedenti, accettano e giustificano un nuovo conflitto, quello tra la semiotica e la semantica, tra lo spiegare e il comprendere. L’interpretare è inteso come una “dialettica fine” tra questi due atteggiamenti insieme epistemologici e ontologici. L’arco ermenutico – che non è un circolo, ma una spirale senza fine – passa continuamente dalla comprensione alla spiegazione, per arrivare infine ad una nuova comprensione “dotta”.
Più in generale, con Ricoeur e Gadamer si affrontano due progetti di “fenomenologia ermeneutica” profondamente diversi. Il primo muove dalla distinzione tra una “via corta” e una “via lunga” per effettuare “l’innesto del problema ermeneutico sull’albero fenomenologico” contro il tentativo di costruire un’ontologia diretta – implicita la critica ad Heidegger. Il problema di Ricoeur è: “Che ne è di un’epistemologia dell’interpretazione, frutto di una riflessione sull’esegesi, sul metodo della storia, sulla psicoanalisi, sulla fenomenologia della religione, ecc., quando è toccata, animata, e, se così si può dire, aspirata, da un’ontologia della comprensione?” (Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 20). Dunque, recuperare il problema critico, metodologico, in una prospettiva ontologica. “Il proposito essenziale di Ricoeur – scrive Grondin – è sempre stato quello di una descrizione del fenomeno essenziale, quello dello “sforzo per esistere”, e che sfocerà nella sua ultima opera in una fenomenologia dell’uomo capace” (p. 51); il suo progetto, sottolinea ancora Grondin, “resta in effetti quello di una fenomenologia dello sforzo di esistere, ispirata dalla filosofia riflessiva, dall’esistenzialismo e dal personalismo, ma può compiersi soltanto attraverso una “deviazione ermeneutica”” (p. 52).
Neanche Gadamer riprende il tentativo heideggeriano di un’ontologia diretta del Dasein. Tuttavia non incontra Ricoeur perché rompe col problema critico, rompe col metodologismo. Più precisamente, Wahrheit und Methode critica un’interpretazione soltanto metodologica dell’esperienza di verità all’opera nelle scienze umane. “Non potremo ridurre dei pensieri così viventi come quelli di Gadamer e di Ricoeur a dei termini tecnici – scrive Grondin – ma è significativo che il primo parli soprattutto di una “ermeneutica fenomenologica” (o filosofica) mentre il secondo di una “fenomenologia ermeneutica”. Non è una distinzione puramente verbale, poiché lascia trasparire un approccio ben diverso alla fenomenologia e all’ermeneutica” (p. 49).
Dovremo parlare, allora, per Ricoeur di una svolta ermeneutica della fenomenologia, mentre per Gadamer di una svolta fenomenologica dell’ermeneutica (p. 52). Ciò traspare da scelte molto lontane, riguardo a temi chiave come la storicità, il ruolo dell’individuo nella storia, il rapporto con Hegel. Mentre Gadamer “insiste di più sull’essere-affetto-dalla storia, Ricoeur riconosce una capacità d’iniziativa alla coscienza immersa nella storia” (p. 56). Nella storicità, e attraverso la storicità, in Ricoeur si fa largo il concetto di iniziativa o, come ha rilevato Johann Michel nel suo volume del 2006, une philosophie de l’agir humain. L’individuo non è una luce tremante nel cerchio chiuso della storia. È un agente che può incidere sulla storia e cambiare il mondo. Di qui la tensione tra l’uomo fallibile e l’uomo capace: di fronte alla storia, il soggetto è sempre fallibile, vittima o colpevole, ma anche capace, cioè in grado di cambiare le cose.
A gettare una luce più profonda su questo stato di cose è un altro saggio della raccolta, quello di Johann Michel, intitolato L’animal herméneutique. In esso assistiamo a un originale esperimento di lettura: considerare l’antropologia ricoeuriana a partire dalla prospettiva aperta dal concetto foucaultiano di souci de soi. “Sebbene non trattino mai di Ricoeur – scrive Michel – le analisi di Foucault ci possono aiutare a dire e a pensare altrimenti la genealogia dell’antropologia ricoeuriana. È anche un modo per noi di confrontare due dei più grandi filosofi contemporanei che, se si sono letti reciprocamente, hanno relativamente dialogato poco insieme” (p. 66). La domanda centrale è: si può parlare in Ricoeur di un ritorno della spiritualità socratica, di quell’unità tra conoscenza ed esigenza di una trasformazione del sé di cui la filosofia moderna si è liberata?
Ricoeur lo ha imparato dai suoi maestri esistenzialisti (Marcel, Jaspers, Nabert): il soggetto non è un dato, ma un compito, una conquista. Se l’io è inesorabilmente perduto come origine, esso può, anzi deve, essere ritrovato come sforzo, come cammino, lavoro, proiezione di sé. È la stessa lezione del freudismo, ma anche della fenomenologia (la rottura aperta dalla epoché della tesi generale dell’atteggiamento naturale). Bisogna perdere se stessi per ritrovarsi; “è un lavoro, un lavoro su di sé, una trasformazione progressiva del sé inerente ad ogni spiritualità” (p. 70).
Questo significa – ricorda Michel – che per Ricoeur non c’è un soggetto, ma solo un divenir-soggetto, e che questo divenir-soggetto è un cammino ermeneutico che riflette i risultati delle scienze umane. È il processo del “divenir umano e adulto”, un uscire dall’infanzia, un superamento dell’archeologia verso una “teleologia dello spirito”, verso le nostre possibilità più autentiche. In tal modo avviene un recupero del senso vero della spiritualità greca, sottolinea Michel, nel senso di un’integrazione profonda tra conoscenza scientifica (momento cartesiano) e conoscenza di sé (momento socratico). Recupero, questo, che si prolunga anche nella seconda fase della vicenda intellettuale ricoeuriana, quella segnata da capolavori come Soi-même comme un autre e La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000). Sotto l’influenza di Lévinas, i temi dell’alterità e dell’intersoggettività diventano aspetti centrali: il souci de soi è insieme souci de l’autre, “desiderio di vivere bene con e per l’altro in istituzioni giuste”.
È qui che si manifesta tutta quella tensione drammatica di cui parla anche Alain Thomasset, nel saggio Au coeur de la tension éthique: narrativité, téléologie, théonomie. L’etica ricoeuriana lega insieme teleologia e deontologia, desiderio e obbedienza, intenzione della felicità e consapevolezza di un male sempre possibile.

Indice

G. Fiasse, Introduction
J. A. Barash, Les enchevêtrements de la mémoire
J. Grondin, De Gadamer à Ricoeur. Peut-on parler d’une conception comune de l’herméneutique?
J. Michel, L’animal herméneutique
A. Thomasset, Au coeur de la tension éthique: narrativité, téléologie, théonomie
G. Fiasse, Asymétrie, gratuité et réciprocité
R. Kearney, Vers une herméneutique de la traduction


La curatrice

G. Fiasse è docente presso l’università McGill di Montréal. Si è occupata principalmente di filosofia della religione, di etica e di storia della filosofia antica e contemporanea. Ha già scritto un saggio su Ricoeur: L’autre et l’amitié chez Aristote et Paul Ricoeur, Louvain, Editions de l’Institut Supérieur de Philosophie, 2006.

Link

Fonds Ricœur - www.fondsricoeur.fr

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