martedì 19 agosto 2008

Monk, Ray, Leggere Wittgenstein.

Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp. 108, € 12,00, ISBN 9788834315644.

Recensione di Delia Belleri – 19/08/2008

Storia della filosofia (contemporanea), Filosofia analitica, Filosofia del linguaggio

Esce a tre anni dalla sua prima pubblicazione in inglese questo agile volume introduttivo sulla persona e la filosofia di Ludwig Wittgenstein. L’autore è Ray Monk, docente di filosofia all’Università di Southampton a cui si deve un altro, precedente, saggio su Wittgenstein: Il dovere del genio (uscito in Italia nel 2000). “[P]ubblicare un libro di base sul pensiero di Wittgenstein è cosa presuntuosissima” ammette l’autore stesso nella nota introduttiva all’opera. Il carattere controverso, sfuggente a un'esegesi univoca degli scritti wittgensteiniani, espone l’autore di un testo introduttivo al rischio di banalizzazione dei contenuti. Per evitare questo, Monk sceglie di riportare dei brani originali da sottoporre come ‘campione iniziale’, in seguito discutendoli e contestualizzandone il messaggio. Biografia, resoconto storico e resoconto tematico scorrono in parallelo, permettendo al lettore di cogliere i nessi (solo apparentemente ininfluenti) tra le vicende biografiche di Wittgenstein e l’evoluzione del suo pensiero.
Uno degli aspetti biografici che più ha influenzato le scelte teoriche wittgensteiniane è stato sicuramente il rapporto con Bertrand Russell, inizialmente maestro, in seguito collega, e alla fine figura quasi paterna nella sua delusione per le aspettative disattese da quello che, da sempre, aveva visto come il suo erede ideale.
Monk presenta il giovane Wittgenstein – studente a Cambridge a partire dal 1911 – in primo luogo come un agguerrito sostenitore delle tesi di Frege e Russell in logica. Gli studi di Logica in terra britannica contribuiscono alla preparazione del terreno per il Tractatus logico-philosophicus, unico libro pubblicato in vita dal filosofo austriaco. In quest’opera egli mirava all’enunciazione dei limiti della filosofia sotto l’aspetto logico-linguistico tanto che, negli intenti dell’autore, dopo il Tractatus niente di filosofico avrebbe più potuto essere detto. Wittgenstein riconsidera la natura dei problemi filosofici, asserendo che essi non siano tanto veri o falsi, quanto insensati. Tale insensatezza è un difetto dovuto al linguaggio. Quando un problema filosofico viene enunciato, il linguaggio stesso viene forzato oltre il limite di ciò che con esso si può dire. Le verità filosofiche possono tutt'al più essere mostrate, ma non dette, dove la differenza tra il dire e il mostrare sembra assimilabile alla differenza tra uso letterale ed uso non-letterale – tra il poetico e il mistico – del linguaggio. Per questo motivo, la filosofia può solo tacere, poiché niente di ciò che essa dice può veramente essere detto.
Come Monk stesso scrive, “il Tractatus logico-philosophicus è un curioso ibrido, un trattato di logica e l’espressione di un punto di vista profondamente mistico” (p.26). Proprio per questo suo carattere ibrido, il Tractatus non riceverà immediatamente il riscontro che Wittgenstein si aspettava, a partire proprio da Russell. Monk riporta che il filosofo di Cambridge espresse in più occasioni perplessità (e delusione) nei confronti del Tractatus. In particolare, non riusciva a capacitarsi della tesi per cui le verità della logica e della filosofia non sono esprimibili: “dopo tutto Wittgenstein riesce a dire parecchio su ciò che non si può dire” egli scrisse.
In effetti l’osservazione di Russell porta alla luce un aspetto paradossale del Tractatus: se tutte le proposizioni della filosofia sono insensate, allora anche quelle contenute nel Tractatus lo saranno. Wittgenstein non esita ad ammetterlo, proponendo di vedere le proposizioni della sua opera come i pioli di una scala che, una volta arrivati in cima (ossia alla verità) va gettata via. Questo però genera un ulteriore paradosso: come può un discorso insensato anche solo mostrare una verità, se non riesce nemmeno a dirla? Il problema è tuttora uno degli aspetti più discussi tra gli interpreti del Tractatus. Monk ipotizza che la risposta di Wittgenstein possa essere la seguente: il fallimento del dire è il miglior modo per mostrare la verità.
L’obiettivo del Tractatus (enunciare i limiti della filosofia) è perseguito attraverso l’impiego di una logica molto rigorosa, per mezzo della quale Wittgenstein vuole arrivare a definire la struttura della proposizione. Solo conoscendo cosa sia e come sia strutturata una proposizione sapremo cosa può essere detto e cosa no. Non stupisce quindi che il Tractatus sia dedicato in gran parte all’elaborazione di una teoria del significato. Monk espone in modo sintetico e al contempo esauriente le tesi-chiave della semantica wittgenstiniana, servendosi di estratti dal testo originale e intervenendo con chiarimenti e semplificazioni ove necessario. Partendo dalle proposizioni 1-1.21 del Tractatus dove viene fornita una definizione del mondo come “la totalità dei fatti”, si passa attraverso la caratterizzazione del pensiero come “immagine logica dei fatti” (propp. 2.12-3.1), per poi chiudere il cerchio con il concetto di proposizione in quanto “segno sensibile” del pensiero, anello di congiunzione del rapporto mente-linguaggio e linguaggio-mondo. Wittgenstein postula un isomorfismo tra mondo, linguaggio e pensiero, i quali sarebbero accomunati dall’avere la medesima forma logica. Il linguaggio può rappresentare ciò che ha una forma logica, quindi può rappresentare il mondo, descriverlo e dire il vero intorno ad esso: questo è ciò che fa la scienza. Ciò che il linguaggio non può fare è rappresentare ciò che sta al di fuori del mondo – o meglio dell’esperienza del mondo, ossia il trascendentale – e se stesso – o meglio la propria forma logica. È perciò destinato a naufragare nel nonsenso qualsiasi sedicente discorso ‘scientifico’ in filosofia, tale che pretenda di asserire delle verità sulla logica, sull’estetica, sull’etica. Perché? Come spiega Monk “[l]a ragione è che le proposizioni significanti possono solo raffigurare stati di cose nel mondo, e nel mondo non si trovano valori, né etici né estetici né religiosi.” (p.51).
Fu una recensione del Tractatus ad opera di Frank Ramsey a causare il crollo dell’edificio logico messo insieme da Wittgenstein. Ramsey criticò una parte dell’atomismo logico wittgensteiniano, facendo vedere come proposizioni atomiche possano contraddirsi, al contrario di ciò che aveva postulato l’autore del Tractatus. Ciò fu sufficiente ad indurre Wittgenstein a una revisione globale del suo assetto di pensiero. A questo punto del suo percorso teorico, Monk rileva come Wittgenstein avvertisse l’esigenza di un metodo d’indagine nuovo, alternativo al metodo scientifico da cui il Tractatus stesso era stato ‘infettato’.
In questo senso, Wittgenstein inaugura una nuova stagione del proprio pensiero quando enuncia la sua teoria del giochi linguistici. Contro una teoria ‘scientista’ tutta tesa a trovare una struttura unica e generalizzabile per ogni proposizione del linguaggio, Wittgenstein propone di pensare al linguaggio come ad una famiglia di pratiche o ‘giochi’, caratterizzati da specifiche regole e appresi dai parlanti fin dalla tenera età. Quella che Wittgenstein combatte è l’idea da Monk definita “pre-filosofica” del linguaggio come strumento di raffigurazione della realtà: la raffigurazione (o rappresentazione) dei fatti è solo una tra le tante cose che si possono fare con il linguaggio.
La teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici ha un’importante conseguenza: rende impossibile l’esistenza di un linguaggio privato. Monk parla dell’argomento contro il linguaggio privato come di uno dei maggiori successi di Wittgenstein, tuttavia sconsiglia il lettore dal vederlo come un vero e proprio ‘argomento’. Si tratterebbe piuttosto “di tentativi di affrontare da più angolature diverse delle assunzioni sull’esperienza privata, ‘interiore’, accolte, in genere, tanto dai filosofi di professione quanto dalla gente comune” (p. 90). Monk vede nel problema della conoscenza delle esperienze interiori un tema cui Wittgenstein tiene particolarmente. E da qui che nascono quesiti come: in che misura il linguaggio può fare luce sulle esperienze interiori relative a se stessi? E in relazione agli altri? Quale tipo di competenza ci permettere di conoscere gli stati interiori degli altri? Si tratta di una competenza teorica e trasmissibile o di qualcosa di più sfuggente? La conclusione di Wittgenstein sembra essere che, servendoci del linguaggio, noi allestiamo una grande e comunemente accettata finzione grammaticale per la quale ci è possibile dire di conoscere gli stati psicologici degli altri così come i nostri.

Indice

Introduzione
I. Logica, scienza e affari
II. ‘Ripulire’ la filosofia in tre parole
III. Raffigurare il mondo
IV. Che cos’è una proposizione?
V. Che cos’è la filosofia?
VI. La disintegrazione della forma logica
VII. La nuova filosofia e la rinuncia alla purezza cristallina della logica
VIII. I giochi linguistici
IX. Ci può essere un linguaggio privato?
X. Leggere Wittgenstein con lo spirito giusto
XI. Capire gli altri, capire noi stessi: l’evidenza imponderabile
Cronologia
Suggerimenti bibliografici


L'autore

Ray Monk insegna filosofia all’Università di Southampton dal 1992. E’ autore di due biografie di Wittgenstein: How to read Wittgenstein (Granta Books 2005, tr. it. Leggere Wittgenstein, Vita e Pensiero 2008), qui recensito, e Ludwig Wittgenstein: the Duty of Genius (Jonathan Cape 1990, tr. it. Ludwig Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani 2000). Ha scritto anche alcune opere biografiche su Bertrand Russell. Si occupa di storia della filosofia analitica, filosofia della matematica e di questioni filosofiche connesse alle pratiche biografiche.

Links

http://www.soton.ac.uk/philosophy/staff/monk.html pagina web dedicata all’attività didattica e di ricerca di Ray Monk, da cui è possibile scaricare alcuni suoi articoli
http://plato.stanford.edu/entries/wittgenstein/ la voce “Ludwig Wittgenstein” sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy
http://plato.stanford.edu/entries/wittgenstein/ il Tractatus in versione ipertesto

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