giovedì 23 ottobre 2008

Ferraro, Giuseppe, L’innocenza della verità. Corso di filosofia in carcere.

Napoli, Filema, 2008, pp. 230, € 14,00, ISBN 9788895204024.

Recensione di Irene Merlini – 23/10/2008

Il testo nasce dell’esperienza viva di Giuseppe Ferraro nelle carceri campane di Bellizzi e di Carinola. Per questa ragione il libro si snoda in un intreccio continuo di rimandi, tra l’esperienza vissuta e le riflessioni profonde che dalla prima scaturiscono.

Si scopre presto che innocenza e carcere, entrambi termini presenti nel titolo, sono un ossimoro solo apparente. Ciò che ha fatto Ferraro, e che ha saputo trasformare bene in parola scritta, è un percorso teso a riconoscere come la verità interiore, quella vera, sia sostanzialmente innocente. Solo quando si hanno il coraggio e gli strumenti –che spesso mancano- per riconoscere la verità, si apre quel luogo singolare in cui si può essere liberi anche dentro le mura, uscendo dalle strettoie delle catalogazioni: carcerato, omicida, ladro. Libertà significa poter cambiare, avere la possibilità di uscire dalla stasi rassegnata, significa che si può migliorare se stessi.
Qui trova ragione di essere la filosofia: tra la psicologia e la giurisprudenza, tra la sfera privata e la sfera pubblica, essa è l’unica disciplina che racchiude la parola filìa, ovvero amore, nel senso di avere cura.
La filosofia si preoccupa del logon didonai, cioè del rendere ragione nel senso della restituzione. Se innocenti si nasce e colpevoli si diventa, e il percorso a ritroso è precluso, la filosofia dona la possibilità di tornare in se stessi dopo ciò che si è stati -probabilmente colpevoli-, e non per tornare come si era, bensì per tornare in sé e a sé in modo differente. Qui sta l’estrema ricchezza di questa disciplina che è “un possesso senza proprietà” (p.29) e, in quanto tale, deve essere restituita. La filosofia è un come più che un cosa; si fa etica, alla ricerca del bene e del vero.
Emerge una critica alla struttura carceraria così com’è, perché l’offerta formativa è di minorità, un po’ come il minimo garantito, senza nessuna aspirazione –scrive Ferraro-. Se la salute di una democrazia si misura proprio nelle sue zone di confine, e il carcere è una di queste perché è la zona dell’illegalità, allora bisogna indagarla, anziché emarginarla. Se polis vuol dire legame tra i molti che hanno cura della stessa cosa, che scelgono di stringere legami perché la cosa di tutti sopravviva, illegale è chi non ha sentito il sentimento del legame con le regole, di un legame di verità con le regole. “Ed è solo quando una regola non è sentita propria, o quando non ti fa sentire proprio e in relazione di verità con te stesso e con gli altri, solo allora scatta quella catena che porta lontano fino a smemorare l’appartenenza alla propria città” (p.40). Legami e legalità: questo il binomio funzionante, perché la legalità è affettiva prima ancora che giuridica.
Ferraro ricerca le relazioni che permettono di insegnare la filosofia come pratica, come arte della fuga senza evasione, nel rincorrersi del tempo interiore, per raggiungersi e trovarsi proprio là dove non si era mai stati. La filosofia obbedisce a un tempo strano, “un futuro interiore, ed è quello che si condensa nel vano dell’animo e che ci fa promettere ed educare ad essere al presente” (p.54). Ferraro offre ai detenuti un riparo attraverso l’esercizio filosofico della disposizione, come posizionarsi altrimenti. Posizionarsi in cerchio per essere liberi di sapere, in un luogo in cui è importante la modalità, in un luogo fatto di presenza e di parola. Non si tratta di sapere cosa, ma di sapere di cosa, “di saperla nel modo in cui la si vive, la si sente, nel modo in cui la si ascolta risuonare in se stessi, partecipandovi” (p.47).
Nel cerchio avviene l’esperienza straordinaria dell’amicizia, attraverso l’uso della parola vera, che è di ciascuno ma si offre a tutti, donando riparo all’irreparabile. Si tratta in sostanza di dare parola ai contenuti e ai sentimenti che non l’hanno avuta prima, perché non hanno potuto averla o non hanno saputo averla. Si tratta di dire e di usare uno sguardo attento per ascoltare l’invisibile. “Se la filosofia è vedere quel che manca in quel che c’è, perché quel che c’è sia veramente quel che è, allora l’esercizio che precede ogni altro è presentarsi impreparati per cogliere ciò che risulterebbe compromesso da un discorso approntato e già definito. Vedere l’invisibile è questa propriamente la pratica della filosofia, l’arte della sua fuga, non certo andare chissà dove, ma mirare verso ciò che non si vede proprio in ragione di quel che si lascia vedere” (p.51).
E’ esattamente questo lo spirito con cui Ferraro entra nel carcere e che introduce alla Parte II del testo, Il cerchio dei dialoganti, fatta di capitoli che associano nel titolo un concetto ad un soggetto, come a ribadire che i concetti sono sempre di qualcuno, hanno origine sempre da una vita vissuta e da una voce vibrante.
L’atteggiamento dell’autore non è mai di chi impone certe tematiche, ma di chi è pronto a cogliere quel che c’è nell’hic et nunc del cerchio dei dialoganti, per intraprendere un binario inatteso e imprevedibile.
Molti ragionamenti meriterebbero menzione, perché è esemplare come sono nati e si sono evoluti nel tessuto di voci, come e cosa hanno fatto scoprire ed aprire.
Nell’antica Grecia non è libero chi non possiede legami, ma chi possiede legami di appartenenza a una famiglia, chi è riconosciuto e appartiene alla città. Nell’ora di filosofia si dischiude ai detenuti la possibilità di essere liberi, intessendo legami di verità, riappropriandosi di sé e del proprio tempo.
L’ esercizio dell’ascolto educa ai sentimenti, perché significa dare tempo all’altro e guadagnarlo per se stessi nella relazione di verità, laddove il contrario è il tradimento di chi è nemico. Il vero filosofico è fatto dalle relazioni che sosteniamo, è ciò che ci sostiene e non ciò che sosteniamo e che sarebbe passibile di falsità. Si è veri allora con gli amici, con la famiglia, con se stessi, con tutti coloro di cui si ha fiducia e con cui ci si può abbandonare.
E’ educativo recuperare lo spazio difficile in cui si è veri, giusti e buoni. Già Aristotele distingueva “un’amicizia per il bene dell’interesse e un’amicizia per l’interesse del bene, ovvero un’amicizia interessata e una disinteressata” (p.86) e Agostino lo riecheggia quando sostiene che la verità non si può condensare in una definizione, ma è una relazione, un dialogo di verità che si può intrattenere con chi è amico.
Il problema sorge col nemico, con chi è nemico di chi e perché. Serve un terzo che giudichi e la filosofia insegna a farsi terzo ed essere giusti prima di tutto nella zona interstiziale tra sé e sé. Parafrasando Aristotele: “Quella giustizia che non giudica recuperando alla concordia sociale procurando, attivando e alimentando l’amicizia, diventa una giustizia ingiusta”(p.117). Se è così, quando siamo di fronte a una colpa non dev’essere il singolo solo a risponderne, ma tutta la città deve essere chiamata in causa. L’educazione dovrebbe essere tanto primaria da dover essere diffusa in tutti i contesti. Essa è strumento essenziale al riscatto dei detenuti perché, se è vero che la verità è innocente, che i detenuti sono innocenti nelle loro relazioni di verità, è anche vero che la loro storia non lo è, che la storia e la verità non sempre coincidono. La questione sta nel come farle coincidere, nel come diventare ciò che si è. L’educazione diventa la possibilità di costruire una storia altra, talmente clamorosa da poter essere ricordati per un’altra storia.
La forza del testo, che offre molte riflessioni di questo tipo, sta nella possibilità di ascoltarle nel mentre si dispiegano: attraverso i pensieri silenziosi che Ferraro si porta a casa, attraverso le parole dette e quelle scritte dai detenuti. Alberto, trasferito in un’altra casa circondariale, è ancora parte del cerchio attraverso un rapporto epistolare denso e profondo. Lui è l’esempio di chi ha capito e quindi trova la forza di reagire ogni giorno alla pena definitiva: crescendo, leggendo, pensando a ciò che è importante, dedicandosi con verità ai rapporti essenziali; Alberto è tutti coloro che hanno scoperto il prezioso segreto filosofico e a cui Ferraro dice: ”Fa’ di tutto per essere un detenuto libero. Non è un paradosso. Cerca di detenerti da te stesso, non farti detenere”(p.100).
Il testo si conclude con una critica, nel senso filosofico, della ragione penale. Ferraro si tiene lontano dalle colpe dei prigionieri, e non perché non siano reali, ma perché a lui interessa la verità delle persone e che le persone tocchino la loro verità. E’ un percorso che spinge ad una riflessione sul perché del carcere, delle pene e delle colpe. Dalla lettura della Fenomenologia di Hegel, nella parte dedicata alla “ragione che esamina le leggi”, emerge la necessità di una relazione fluida tra l’Etica e la Legge, perché “essere nella sostanza etica significa considerare il Giusto in sé per sé, quindi considerarlo tale non per me e in me” (p.205). Si tratterebbe di riconoscere nella propria volontà quella di un Noi, se non fosse che anche la Legge è passibile di scelte individuali: Hegel non parla di Socrate in cella che, innocente, sceglie di non fuggire, per obbedire a quella stessa Legge che lo condanna. E’ ancora la questione dei legami, del binomio legami-legalità, è questione di quantificazione e qualificazione del tempo. In cella il tempo è solo quello esteriore e misurabile, che non sa monitorare i singoli passi di una coscienza che pesa e che non può riscattarsi senza strumenti. “Occorre pensare al carcere come ad un istituto di garanzia sociale” (p.215), in cui si ragioni in termini di restituzione, e non di risarcimento: usare termini di patteggiamento e di sconti significa rimanere nella logica dello scambio e promuovere valori legati allo scambio. Ma, come si può scambiare ciò che misurabile non è, se non operando un’illecita conversione del tempo interiore in tempo esteriore?
Non è in questione il perdono, i delitti non si perdonano, perché non si possono perdonare e perché solo Dio li potrebbe perdonare. “L’uomo può solo restituire, quando non resta impigliato nello schema d’interesse di scambio. Non il perdono, ma l’imperdonabilità verso se stessi rende possibile la restituzione come espressione del Giusto, avanzando verso una Giustizia Restitutiva” (p.217). Ciò che è in questione è come bisogna fare per restituire se le misure saltano, e quando si ha a che fare con la vita le misure saltano, perché nel mentre si cerca di definirla quella si trasforma. Sta tutto lì il suo senso, nel sacro e nel nulla della coscienza interiore di ciascuno. E’ questo dell’interiorità il luogo in cui si può restituire e restituirsi, anche dentro il carcere. L’esperienza di Ferraro lo dimostra: si tratta di offrire stimoli per sapere-di, come quella sera a Carinola, in cui gli allievi erano raggianti dopo la lezione, perché si erano scoperti in grado di rispondere alla domanda milionaria di un quiz televisivo. Non avevano vinto, ma erano felici come se avessero vinto, perché sapevano. Chiedono ancora di poter sapere, di sé e del mondo; chiedono di sapere attraverso le parole che non hanno mai saputo o potuto dire, per ritrovarsi dove non erano mai stati; chiedono di sapere attraverso le relazioni di verità e amicizia coi compagni di viaggio; ma soprattutto (si) chiedono di quel compagno che stanno conoscendo e da cui non si separeranno mai: l’altra parte di sé. Certo, questa non li assolverà ma, nel tempo del futuro interiore, renderà loro possibile costruire una storia nuova, che coincida finalmente con la loro verità.
A noi che siamo fuori dalle celle resta uno spazio smisurato per una critica della ragione penale, per l’autocritica e per una riflessione, a partire dalle parole di Giuseppe, detenuto e allievo-amico di Ferraro: “La vita («Limpida meraviglia di un delirante fermento») come mezzo di conoscenza e con questo principio nel cuore penso si possa vivere deliziosamente e finanche tendere fin dove si vuole: l’uomo arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo” (p.227).

Indice

Premessa 
Ringraziamenti 
I Parte: La filosofia in pratica 
II Parte: Il cerchio dei dialoganti 
III Parte: Per la critica della ragione penale


L'autore

Giuseppe Ferraro insegna filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Per Filema ha pubblicato nella stessa collana La filosofia spiegata ai bambini, Filosofia in carcere e La scuola dei sentimenti.

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