martedì 6 gennaio 2009

Marchetti, Giancarlo, Verità e Valori. Tra Pragmatismo e Filosofia Analitica.

Mimesis, 2008, p. 119, 14 €, ISBN 978-88-8483-753-0.

Recensione di: Sarin Marchetti – 06/01/2009

Epistemologia, filosofia analitica, pragmatismo

Nell’affollato palcoscenico della filosofia analitica si stagliano sopra le altre le figure di tre pensatori contemporanei che hanno contribuito in larga parte a definirne, e poi a rovesciarne, il canone: Donald Davidson, Hilary Putnam e Richard Rorty. Se l’importanza di questi tre pensatori nella definizione dell’agenda filosofica della seconda metà dello scorso secolo è oramai parte dei manuali di storia della filosofia analitica, tuttavia solo recentemente questi tre filosofi sono stati oggetto si interesse in quanto filosofi pragmatisti; tutti americani, e tutti allievi di alcuni tra i più influenti filosofi analitici quali W. O. Quine, Rudolf Carnap, Hans Reichenbach e Nelson Goodman, questi tre pensatori hanno tuttavia raccolto in modo proficuo ed originale gli insegnamenti dei pragmatisti classici. Questo significa per lo meno due cose; che pragmatismo e filosofia analitica sono se non altro frères ennemis, e che per una piena comprensione dell’uno non si può prescindere dall’altra. Troppe infatti sono le linee di forza, i comuni avversari, le somiglianze di famiglia e le liti interne che legano queste due tradizioni o registri; e se nella filosofia vale quanto Proust sosteneva a proposito della vita ordinaria, ossia che troppe coincidenze valgono più di una dimostrazione studiata a tavolino, allora il fatto che Wittgenstein fosse un avido lettore di James, che G. E. Moore e Dewey condividessero una comune avversione all’idealismo, e che sia Frege che C.S. Peirce si consumarono nell’intento di elaborare un linguaggio logico-formale che permettesse di sottrarre il pensiero e i concetti in esso espressi al regno della psicologia descrittiva, complica quantomeno la vulgata che vuole la nascita della filosofia analitica come una risposta –oltre che all’idealismo tedesco ed inglese– allo strumentalismo americano. Già una folta schiera di filosofi analitici di seconda generazione –ad esempio i filosofi del linguaggio ordinario di Oxford– ha quanto meno subito il fascino del pragmatismo nella stessa misura in cui lo hanno combattuto gli esponenti del circolo di Vienna esuli in terre americane, i quali in ogni caso hanno inoculato in quella cultura un veleno che è stato neutralizzato già nella generazione successiva, dato che i loro allievi più promettenti diventeranno i tre più importanti filosofi pragmatisti contemporanei. Se dunque per un verso è vero che il periodo d’oro del pragmatismo in America è stato messo in crisi dalle dottrine importate dal nocciolo duro di filosofi del vecchio continente approdati nel nuovo, tuttavia non sono sporadiche le incursioni pragmatiste nelle roccaforti filosofiche del vecchio continente, incursioni che hanno riempito a loro volta il vuoto fisico e teorico lasciato dalla disgregazione del circolo di Vienna, combinando alcune delle idee sviluppate negli scritti maturi di Wittgenstein con il rifiuto della fenomenologia, dell’ermeneutica e dell’idealismo hegeliano. Senza dimenticare che anche queste ultime correnti hanno acquistato nuova linfa grazie alla riabilitazione che di esse hanno operato importanti filosofi analitici e pragmatisti, talvolta mostrando la loro vitalità nei testi dei classici americani (James e la fenomenologia, Dewey e l’idealismo, Peirce e l’ermeneutica) e analitici (Wittgenstein e l’idealismo nel Tractatus).
È in questo complesso scenario di scontri e confronti, di alternanza di alte e basse maree che mettono in relazione idealismo, empirismo e pragmatismo che va letto il volume di Giancarlo Marchetti, il cui taglio teorico presuppone e nello stesso tempo illumina questa storia interna alla nascita, allo sviluppo e per alcuni all’epilogo della filosofia analitica come del pragmatismo. Il titolo del volume –Verità e Valori– ci pone nel cuore della disputa tra filosofia analitica e pragmatismo, e suggerisce la prospettiva d’indagine scelta dall’autore; infatti sia l’analisi e la definizione del predicato ‘vero’, sia l’indagine della natura del valore sono stati i temi centrali trattati sia dai padri fondatori della filosofia analitica (Russell in On Denoting, G. E. Moore nei Principia Ethica, Wittgenstein nel Tractatus), sia dai colleghi pragmatisti (Peirce e James nelle rispettive conferenze del 1903 e 1907 pubblicate con il nome di Pragmatism, F. S. C. Schiller in Humanism, Dewey in Human Nature and Conduct). A distanza di cento anni, dopo che da questi due nuclei centrali di questioni filosofiche si sono sviluppate da una parte l’epistemologia, la filosofia del linguaggio e della mente, e dall’altra l’etica, l’estetica e la filosofia della religione come aree di indagini specializzate e eccezionalmente indipendenti, lo scenario appare sostanzialmente il medesimo, poiché se sul versante analitico il dibattito filosofico ruota ancora intorno a questi due cardini –la verità ed il valore–, su quello pragmatista si rinnova il rifiuto di tale impostazione (e in alcuni casi di queste stesse nozioni). Tuttavia ora la partita si gioca a ruoli invertiti, poiché oggi è il pragmatismo a doversi difendere dalla filosofia analitica, registro dominante del panorama filosofico analitico; è Rorty che si ribella ai syllabus dei corsi di Oxbridge, dove invece cento anni fa erano Russell e Moore a sentirsi in dovere di ridicolizzare James, e con lui Harvard e Chicago.
Nello specifico, l’autore presenta questo scenario attraverso l’analisi della nozione di verità come rappresentazione della realtà e la dicotomia fatto/valore come una sua esemplificazione, mostrando come gli scritti di Davidson, Putnam e Rorty sono nello stesso tempo dei classici del pensiero analitico e di quello pragmatista, e dunque canonizzabili in entrambi in registri. I capitoli dell’agile ma denso volume raccontano il percorso che ha portato questi tre pensatori, lavorando all’interno della filosofia analitica, a riportare all’attenzione alcuni temi e soluzioni pragmatiste. È il caso della concezione rappresentazionalista della verità, variamente attaccata da James come da Schiller, da Davidson come da Rorty, oppure della dicotomia fatto/valore, bersaglio critico tanto di Dewey quanto di Putnam. Nonostante le notevoli differenze che caratterizzano le diverse biografie intellettuali di questi tre autori è possibile individuare degli obiettivi critici comuni e quindi delle linee di attacco convergenti (anche se diversificate e talvolta in disaccordo, come nel caso del Putnam-Rorty debate circa l’utilità della definizione del predicato vero) ad alcune immagini filosofiche che, come scrive Wittgenstein nelle Ricerche § 115, ci tenevano prigionieri. Marchetti individua nell’attacco all’immagine della mente come specchio della natura il contributo più importante di questi autori, e nello specifico nell’abbandono del fondazionalismo da parte di Rorty il passo deciso verso la riconciliazione della filosofia analitica con il pragmatismo. Questi due momenti teorici corrispondono non a caso alle due fasi in cui può essere divisa la biografia intellettuale di Rorty: la prima mirata all’attacco dell’immagine rappresentazionalista della mente umana e della conoscenza come adaequatio rei et intellectus, mentre la seconda orientata alla critica dell’immagine della filosofia come impresa fondativi del pensiero e delle pratiche umane. Entrambe questi temi, pragmatisti nello spirito, sono stati variamente elaborati in maniere molto diverse da Wittgestein e Sellars, da Goodman a Quine, il cui insegnamento è stato da una parte quello di notare le differenze tra i vari rapporti che possiamo intrattenere con il mondo –e dunque accorgersi delle varietà di interessi e di scopi che possono guidare il nostro contatto con l’esperienza–, e dall’altra quello di ripensare la filosofia come un particolare tipo di dialogo che intratteniamo con noi stessi e con gli altri nell’intento di dar senso e nello stesso tempo giustificare le nostre pratiche linguistiche –siano esse scientifiche, etiche, religiose.
Nel primo capitolo l’autore presenta questa storia mostrando le linee di convergenza che legano il rifiuto del rappresentazionalismo da parte dei pragmatisti classici con quello operato dai filosofi analitici della seconda metà del novecento, per poi presentare nel secondo capitolo le argomentazioni portate avanti da Davidson e Rorty a riguardo. L’immagine filosofica che tanto i pragmatisti tanto i filosofi analitici di seconda e terza generazione hanno messo in crisi è quella che vuole il mondo come un insieme di fatti che è compito della mente rappresentarsi fedelmente e poi del pensiero e del linguaggio esprimere attraverso il successo della corrispondenza tra i contenuti della mente e quelli del mondo. Contro questa teoria della conoscenza come soddisfacimento e della verità come corrispondenza tanto Rorty quanto Davidson sono interessati a mostrarne le conseguenze inaccettabili e contro-intuitive: più che a una risposta diretta ai sostenitori del corrispondentismo, questi filosofi sono interessati ad un loro smascheramento come questioni mal poste o riposanti su assunti non più difendibili, come ad esempio quello della netta separazione tra fatti ed interpretazioni o tra valori e stati di cose. Riprendendo una linea di ragionamento di Rorty, Marchetti scrive che “se optiamo per una scelta di ordine anti-rappresentazionalista derivante, anche, dall’abbandono della distinzione apparenza/realtà, realismo/antirealismo e dalla spiegazione delle conoscenza come conoscenza da «spettatore», allora le posizioni scettiche e relativistiche che sorgono dagli assunti del modello rappresentazionale si dissolveranno” (pp. 49-50). È interessante che l’autore, pur senza citare direttamente la fonte, ponga la differenza tra i programmi rappresentazionali e quelli antirappresentazionali in termini jamesiani, ossia di una contrapposizione tra due diversi ‘atteggiamenti umani’: Davidson e Rorty, in modalità e con intenti diversi, condividono infatti la convinzione, questa tutta pragmatista, secondo cui le nostre scelte teoriche sono guidate dalle nostre esigenze e temperamenti umani e non viceversa.
Nel terzo capitolo l’autore presenta l’attacco di Putnam alla dicotomia fatto/valore ripercorrendo i passi salienti che hanno portato al suo tramonto in larga parte grazie agli scritti del filosofo di Harvard e sottolineando come anche questo esito sia indissolubilmente legato agli insegnamenti pragmatisti –di Dewey in particolare. Di nuovo è interessante prestare attenzione alla dialettica interna tra filosofia intesa come analisi logica del linguaggio e pragmatismo: entrambe critiche verso una certa concezione ingenua dell’empirismo e tuttavia in tensione per quanto riguarda il suo superamento. Un’attenta analisi delle varie posizioni sostenute nel novecento dai filosofi analitici mette in risalto come mentre alcune di queste sono state formulate in antitesi e come risposta al pragmatismo, altre hanno stretto con esso una stretta e proficua alleanza. Nel quarto capitolo questo rapporto di avversione e tentazione è presentato alla luce del discorso circa la stessa concezione dell’indagine filosofica; tornando ancora una volta su Rorty l’autore suggerisce una possibile lettura dei suoi ultimi scritti come un suggerimento a ripensare il significato e le dinamiche dell’attività filosofica di registro analitico alla luce di alcune istruzioni e suggerimenti provenienti dalla compagine pragmatista. Una volta abbandonato il fondazionalismo come ipotesi guida delle nostre ricerche filosofiche, si apre agli stessi filosofi analitici uno scenario di nuove ricerche filosofiche e culturali in generale; tuttavia è proprio su questo punto che le strade dei nostri tre protagonisti divergono in maniera rilevante, poiché se mentre per Davidson e Putnam il riconoscimento del fallimento del fondazionalismo non implica un abbandono del paradigma analitico, per Rorty invece tale riconoscimento sembra inconciliabile con la continuazione della nostra indagine filosofica come la conoscevamo prima. Tuttavia, anche su questo punto dato oramai per acquisito, non dovremmo cedere a facili semplificazioni, perché la questione delle sorti della filosofia analitica e del pragmatismo è tanto intricata quanto lo sono state le sue origini, e talvolta proprio i periodi caratterizzati da una ‘crisi di identità’ possono dare i migliori frutti, frutti insperati in periodi di relativa bonaccia.
Il volume di Marchetti si caratterizza per la chiarezza dei temi presentati e nello stesso tempo per la freschezza dei contenuti, soprattutto per i lettori italiani non familiari con i testi degli autori presentati. Tuttavia il volume non si presenta come un’introduzione né alla filosofia analitica né al pragmatismo, poiché da per acquisite molte nozioni e dibattiti interni non sempre articolati nel corpo del testo, ed è per questo motivo indirizzato a lettori non estranei a queste due tradizioni. Penalizza il volume la concisione del testo, dettato forse da ragioni editoriali, cui avrebbe giovato in alcune parti di una maggiore articolazione delle tante posizioni discusse; tuttavia la nutrita bibliografia permetterà allo studioso interessato di approfondire le sue ricerche in merito ai rapporti e le intersezioni tra filosofia analitica e pragmatismo, ricerche che come questo volume testimonia sono oggi più fertili e interessanti che mai.

Indice

Prefazione, p. 9
Il tramonto del rappresentazionalismo, p. 13
Dal rappresentazionalismo all’antirappresentazionalismo, p. 37
Il tramonto della dicotomia fatto/valore, p. 55
Rorty e il tramonto del fondazionalismo, p. 75
Bibliografia, p. 101
Indice dei nomi, 117


L'autore

Giancarlo Marchetti è ricercatore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Membro della International Pragmatism Society, ha svolto soggiorni di studio presso le università di Harvard, Stanford e UCLA. Oltre a una serie di saggi pubblicati su riviste italiane e straniere, ha curato Il neopragmatismo (1999) e, con altri, Ratio et superstitio (2003) e la traduzione del volume di Anselmo d’Aosta, La caduta del diavolo (2007).

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