Recensione di Fabio Lelli, 6-1-2009
Filosofia del diritto, Filosofia analitica, Diritto naturale
1. Il tema centrale del testo di Ricciardi è il rapporto fra diritto positivo e diritto naturale che H. L. A. Hart — uno degli autori cardine della storia della filosofia del diritto nel Novecento — affronta nell’ultima parte del suo testo più famoso, Il concetto di diritto del 1961. Nella sua peculiare trattazione si può rintracciare lo sviluppo di una importante tradizione della filosofia britannica la cui disamina — ad essa è dedicata la maggior parte del volume — permette di comprendere realmente gli intenti del filosofo di Oxford. Spesso il pensiero di Hart è stato letto esclusivamente attraverso gli schemi dell’analitical jurisprudence; di conseguenza Ricciardi si propone di ripartire da capo, ricostruendo l’ambiente culturale e filosofico in cui Hart matura al di là dei comuni stereotipi.
2. All’università di Oxford fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX un autore oggi poco conosciuto, John Cook Wilson, influenza profondamente il clima intellettuale e filosofico in cui si sono formati Hart e altri celebri autori tra cu Isaiah Berlin, J. L. Austin, P.F. Strawson, H. Pritchard e G. Ryle. È proprio da Cook Wilson che deriva l’attenzione verso il linguaggio ordinario, un atteggiamento che nulla aveva a che fare con le fonti classiche (Russell, Frege e il primo Wittgenstein) della filosofia analitica comunemente intesa. La sua derivazione è semmai aristotelica e l’intento non è, come dimostra la polemica di Ayer nei confronti di questa “ortodossia” oxoniense, quello di dissolvere la confusione insita nel linguaggio naturale usando gli strumento dell’empirismo e dell’analisi logica, bensì la ricognizione accurata degli usi linguistici per comprendere meglio il modo in cui pensiamo. È facile rintracciare quest’ultima caratteristica in Hart, in Berlin e in Ryle, senza dover necessariamente ammettere un’influenza eccessiva del Wittgenstein delle Ricerche logiche, che è stato considerato affine, da questo gruppo, relativamente ad alcuni ambiti, ma non certo un “maestro”. Diverso anche l’atteggiamento nei confronti della tradizione filosofica, molto più rilevante nella scuola di Oxford, e l’interesse per l’etica, assente in Frege e nel primo Russell. Queste sono le linee fondamentali per poter comprendere lo sviluppo delle argomentazioni di Hart, anche al di là delle ricostruzioni e delle critiche usuali nella storiografia giusfilosofica.
Il senso dell’ analisi filosofica e il suo rapporto con il linguaggio naturale occupano buona parte del testo. Da Frege e Russell si sviluppa una concezione dell’analisi che prevede l’individuazione della struttura logica sottostante al linguaggio naturale e la possibilità di riformulare le espressioni ambigue. Ma la storia attraverso cui si giunge a questa prospettiva che dominerà a Cambridge è articolata, e passa attraverso il primo platonismo di G. E. Moore e la sua complessa rilettura da parte di Russell in reazione all’idealismo di Bradley e McTaggart, correnti che a loro volta influenzarono altri ambienti intellettuali inglesi. Ricciardi allarga il suo orizzonte di indagine, anche a scapito dello spazio dedicato ad Hart, ma riesce in tal modo a tracciare delle direttrici storiche in cui collocare anche Viriginia Woolf, E. M. Forster, Stephen Fry e altri ancora.
Anche quando la filosofia analitica “classica” di Russell perderà il suo ruolo egemone sia con le critiche sorte all’interno della propria tradizione, sia per l’influsso del cosiddetto “secondo Wittgenstein”, continuerà ad essere un inevitabile confronto polemico per Hart e per l’approccio descrittivo di Strawson, in particolar modo per la sua idea dell’analisi “connettiva”. Con questa espressione Strawson intendeva un’analisi del linguaggio ordinario che esplicita le presupposizioni dei nostri modi di parlare e di pensare; presupposizioni senza le quali il nostro linguaggio sarebbe diverso, ma che allo stesso tempo non sono necessarie in senso assoluto. Si tratta, in altre parole, di analizzare in che misura i nostri presupposti concettuali dipendono da alcune caratteristiche contingenti della natura umana, non da necessità logiche o metafisiche.
Negli ultimi due capitoli, Ricciardi raccoglie gli esiti della sua ricostruzione storico-critica e affronta il capolavoro di Hart, Il concetto di diritto, partendo dal depotenziamento di un luogo comune sul testo e sul suo autore, derivante principalmente dalla ricostruzione della vita di Hart compiuta dalla sua biografa Nicola Lacey. Il fatto che Hart non abbia incluso nel suo testo un chiara delineazione del suo metodo e che neppure abbia rimediato a questa presunta lacuna in seguito, non è verosimilmente dovuto alla sua ormai famigerata insicurezza, bensì alla consapevolezza che il testo sarebbe stato introdotto in una comunità filosofica nella quale tali specificazioni sarebbero state ridondanti, e avrebbero solo tolto spazio alla ricerca vera e propria.
Il modo di procedere di Hart è infatti chiaro data la sua formazione e i suoi intenti: la ricognizione degli usi nel linguaggio ordinario e l’andamento dialettico provengono dalla matrice aristotelica (e in ultima analisi dalla scuola di Cook Wilson); l’analisi non è di tipo “decompositivo” come quella di Russell, ma piuttosto “connettiva” alla maniera di Strawson, e l’obiettivo generale è sistematico e non unicamente terapeutico e “negativo” come accadrà in Wittgenstein. Tipico di Hart, e della filosofia di Oxford, è anche il pluralismo che impedisce di considerare il significato di un concetto come “diritto” risolvibile nel puro caso paradigmatico, o con l’individuazione di un univoco criterio di identificazione.
Hart è indubbiamente giuspositivista, e riconosce il fatto che nell’identificazione del diritto applicabile i membri di una comunità non si interroghino su elementi morali, ma per quanto riguarda il diritto in generale (cioè “il concetto di diritto”) non è per lui contraddittorio valutare le condizioni, o presupposti per la sua esistenza, che derivano direttamente da fatti generali riguardanti gli esseri umani e che pongono in essere il contenuto minimo del diritto naturale.
L’importanza di questo ramo della riflessione di Hart è sempre stata sottovaluta, e a torto. È sullo status di questo contenuto minimo che Hart gioca un altro punto importante: i presupposti non sono né puramente soggettivi né oggettivi (nel senso di “validi in ogni mondo possibile”), e quindi la conseguente valutazione della bontà del diritto, cioè della sua adeguatezza per la fioritura umana, non ha una fonte unicamente soggettiva (come ad esempio la morale per gli emotivisti). Per questo Hart abbandona la dicotomia descrizione-prescrizione, considerando il suo lavoro sì una descrizione, ma non necessariamente contrapposto ad una prescrizione e alla valutazione. A seconda del senso e del contesto nel quale conduciamo la nostra ricerca, mostra quindi Hart, possiamo prendere anche in considerazione il contenuto del diritto e anche una sua peculiare valutazione morale.
Ricciardi risponde anche alle critiche mosse ad Hart da Ronald Dworkin e Brian Leiter. Entrambi danno per scontato che Hart abbia operato da filosofo analitico nel senso russelliano, e quindi adoperando lo strumento dell’analisi decompositiva, sottintendendo la dicotomia fra forma e contenuto e una rigida distinzione fra verità analitiche e sintetiche. Ma da quanto mostrato nelle pagine precedenti è chiaro che si tratta di un punto di partenza falsato, che attribuisce ingiustamente ad Hart queste peculiarità del positivismo giuridico e della filosofia analitica alla maniera di Cambridge.
3. Quali i presupposti del contenuto minimo del diritto naturale? Si tratta per Hart di “cinque semplici ovvietà” riguardanti gli esseri umani, non delle generalizzazioni empiriche, e neppure delle “autoevidenze” (come le verità matematiche), ma delle assunzioni di buon senso, che hanno lo stesso statuto dei fondamenti dell’apparato concettuale in Strawson. E sono: la vulnerabilità umana, l’eguaglianza approssimativa, l’altruismo limitato, le risorse limitate, l’intelligenza e forza di volontà limitate.
Sul loro incompreso statuto si sono incentrate diverse critiche, basate su controesempi più o meno specifici ed empirici. È vero che probabilmente —scrive Ricciardi— queste “ovvietà” non possono sostenere tutto il peso che Hart voleva loro assegnare, ma è anche vero che concepirle come verità empiriche significa fraintenderle, non comprendere il loro ruolo nell’analisi connettiva. Queste ovvietà dovrebbero anche fornire, oltre ad uno strumento di valutazione graduale dell’adeguatezza di un sistema giuridico alla vita umana (comunque non determinante per l’individuazione della giuridicità), le ragioni per la cooperazione. Su questo Hart viene criticato invece dallo stesso Ricciardi, che nota ad esempio come la sopravvivenza, fine che segue dalla caratteristica della vulnerabilità, sia difficilmente sempre in gioco nel modo di porsi degli individui rispetto al diritto. L’analisi di Hart sarebbe troppo raffinata per cogliere il reale gioco delle ragioni, sarebbe cioè troppo teorica e distante dall’uso effettivo del diritto da parte dei consociati. Il volume si chiude con una riflessione su Hart e la religione, rievocando la sua polemica con Lord Devlin sulla punibilità dell’omosessualità e il rapporto con il suo allievo John Finnis, cattolico devoto.
4. Ricciardi si impegna in un dettagliato spaccato storico-critico più che in una monografia su Hart, ed è anche evidente, considerando lo spazio impiegato per sviscerare quelle premesse necessarie a costruire la sua “guida alla lettura” del capolavoro hartiano. In sintesi il volume offre la possibilità non solo di riflettere in modo innovativo su di una parte essenziale del pensiero di Hart, ma anche quella di rintracciare le coordinate storiche e filosofiche essenziali per una sua reale comprensione, riconsiderando lungo il percorso una larga fetta della filosofia analitica di lingua inglese.
Le linee dell’indagine: diritto e natura umana in hart
1. “…an absurd idea”
2. Un filosofo tra i giuristi
3. La genesi del libro di Hart
4. La storia di un’idea: Hart e il diritto naturale minimo
2. H.L.A. Hart e la “filosofia di Oxford”
1. La proposta di Hart
2. L’eredità di John Cook Wilson
3. Filosofie analitiche
4. Isaiah Berlin
5. Wittgenstein e la “filosofia di Oxford” 58
6. Dalla filosofia alla Jurisprudence?
3. Le varietà dell’analisi
1. Un’eredità aristotelica?
2. L’analisi, la sintesi e gli assiomi
3. Concezioni dell’analisi e chiarificazione
4. Moore, Russell e “il platonismo logico”
5. Hart e la “damnosa hereditas” di Platone
4. Definizione, analisi e chiarificazione
1. Bertrand Russell e l’atomismo logico
2. Decomposizione e trasformazione
3. Un paradigma di filosofia
4. Contro l’atomismo logico
5. Strawson e l’analisi connettiva
6. La verificazione e le “altre menti”
7. Hart su ascrizione e definizione
5. La chiarificazione del concetto di diritto
1. Un’ipotesi interpretativa
2. Una breve guida alla lettura
3. Diritto naturale e concetto di diritto
4. Dworkin e il “punto di vista archimedeo”
5. Leiter e l’impossibilità dell’analisi
6. Realismo giuridico e “svolta naturalistica”
6. Cinque semplici ovvietà
1. Rapporti tra diritto e morale
2. Quattro tipi di domande
3. Diritto naturale e modernità
4. Cinque semplici ovvietà
5. Lo statuto epistemologico delle ovvietà
6. Un argomento trascendentale?
7. Alcune obiezioni
8. Diritto, natura e religione
L'autore
Mario Ricciardi è ricercatore di Filosofia del Diritto presso l’Università Statale di Milano, e insegna Teoria Generale del Diritto presso l’Università C. Cattaneo di Castellanza. Ha curato diversi volumi ed è anche autore di Status. Genealogia di un concetto giuridico, Milano, Giuffré, 2008.
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