martedì 21 aprile 2009

Derrida, Jacques, Marx& Sons. Politica, spettralità, decostruzione.

Milano, Mimesis, 2008, pp. 295, € 18,00, ISBN 978-88-8483-638-0.
[Ed. or.: M. Sprinker (ed.), Ghostly Demarcation. A Symposium on Jacques Derrida’s Spectres of Marx, Verso, London-New York 1999].

Recensione di Francesco Tampoia – 21/04/2009

Filosofia politica

Il volume, come da titolo nell’edizione originale del 1999, riporta gli interventi al simposio e le risposte di Derrida in margine al libro Spectres de Marx del 1993.
Il primo saggio, “Il sorriso dello spettro”, è di Antonio Negri il quale si chiede se il progetto di decostruzione derridiana possa essere marxista o avere in qualche modo a che fare con il marxismo. Marx ha usato spesso la figura dello spettro; nella sua opera abbiamo una sarabanda di spettri, basti pensare alla scrittura in chiave spettrale dell’Ideologia tedesca. Ma che fare, oggi, degli spettri marxiani? Marx, mentre parlava di spettri, un secolo e mezzo fa, mentre decostruiva il Capitale, invitava, allo stesso tempo, a spazzar via i fantasmi e il capitalismo, invitava i soggetti produttivi a entrare nella scena della non-spettralità. In Spettri di Marx Derrida esorta a ripensare Marx e suggerisce che “bisogna assumere l’eredità del marxismo, assumere quel che è più vivo, cioè, paradossalmente, quel che continua a mettere ancora in cantiere la questione della vita, dello spirito e dello spettrale, la-vie-la-mort al di là dell’opposizione tra la vita e la morte. Bisogna riaffermare questa eredità, trasformandola anche radicalmente, se sarà necessario” (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, 1994 p. 73). Ma Negri risponde che l’invito di Derrida non è sufficiente, che nella trasformazione (decostruttiva) di Marx Derrida resta prigioniero della medesima ontologia che critica. Il gioco decostruttivo spinge Derrida verso una sorta di misticismo, di chiusura e di addomesticamento, mentre la lotta tra gli spettri del marxismo e gli spettri del capitalismo non è finita. Per rispondere costruttivamente alle rinnovate forme della disciplina del capitale e dello sfruttamento del lavoro immateriale è necessario fare appello alla nuova forza sociale dell’intellettualità di massa, “la decostruzione insiste – senza agganciare la pratica oppure sfuggendone dopo aver identificato il discrimine possibile della giustizia – verso solitari orizzonti trascendentali… Peccato, perché Spettri di Marx rappresenta una formidabile introduzione a una nuova pratica” (p. 21). Peccato che Derrida abbia sorvolato su un certo spettro di Marx, quello della XI tesi su Feuerbach: “i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi, si tratta ora di trasformarlo”.
Al breve saggio di Pierre Macherey segue “La lettera rubata di Marx” di Fredric Jameson. Jameson ricorda che, nel suo iter intellettuale, da una prima vocazione filosofica Derrida si è incamminato in direzione di una più letteraria, ultima fase di ricerca, ma non ha attenuato il suo interesse per la politica europea e mondiale. Il volume Spettri di Marx ruota sulla nuova accattivante figura: “la nuova figura, o meglio il nuovo concetto figurato, di spirito o di spettro, è di genere diverso rispetto alle figure che proliferavano nei primi testi di Derrida” (p. 38). Spesso si ha l’impressione che Derrida privilegi il confronto e la narrazione dei testi filosofici più che l’argomentare, l’interpretazione più che la ferrea logica del linguaggio scientifico, la teoresi più che la prassi. Tanto che viene da chiedersi: è possibile vedere in Spettri di Marx il tentativo derridiano di sintonizzare il marxismo come prassi alla luce della decostruzione? Dalla metà del secolo scorso fino agli anni settanta sono state proposte differenti filosofie marxiste, diversi innesti tra marxismo e esistenzialismo, fenomenologia e marxismo, etc… Tentativi falliti secondo Derrida, tentativi che si sono risolti in ontologia, clamoroso l’esempio del diamat. La spettralità, invece, è qualcosa di nuovo, qualcosa che sfida il buon senso, si pone al di qua e al di là di ogni ontologismo, al di sopra o al di sotto di ogni banale binarismo, non implica l’esistenza degli spiriti, “ afferma solo, se si può pensare che parli, che il presente vivente è meno autosufficiente di quanto vuol far credere; che faremmo meglio a non contare sulla sua densità e solidità, poiché in circostanze eccezionali esse ci potrebbero tradire” (p. 47).
A questo punto, in Spettri di Marx, Derrida sposta l’indagine sul tema della religione in Marx, e argomenta che l’attacco marxiano alla religione è un gesto di sovversione politica, vale soprattutto come sovversione politica. Jameson condivide la tesi derridiana e aggiunge che Marx ha compreso che la modernità, nel momento in cui si illude di aver chiuso ogni discorso del sacro, segue inconsciamente il feticcio delle merci, ha compreso “che il tentativo di conquistare e di realizzare la concretezza tramite l’espulsione degli spettri conduce solamente alla costruzione di un’entità ancora più immaginaria che viene scambiata con il mio ‘Io’” (p. 68). In cuor suo avrebbe voluto liberarsi dei fantasmi, ha pensato che fosse auspicabile farlo, ma ha avuto dubbi e sospetti, e ha assunto una posizione essenzialmente critica nei confronti della modernità.
Collegato al tema della religione è quello della promessa di un a-venire, tema comune sia a Marx sia a Derrida. Derrida esordisce dicendo che ogni forma di utopismo, messianismo etc. contiene in nuce una spinta rivoluzionaria, e, allo stesso tempo, un senso di impossibilità e di speranze infrante, sensazione che si ritrova anche in Benjamin. Ma proprio qui risiede la fecondità della figura chiave dello spettrale: gli spettri ci sono sempre, bisogna parlare con gli spettri, anche se non esistono, anche se non sono più, anche se non sono ancora.
Warren Montag nel saggio “Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida” parte dalla constatazione che il libro di Derrida significa che Marx non è del tutto morto, anche se, oggi, si registra una diffusa credenza che il mercato e lo stato capitalista rappresentino il vero e unico modello economico e sociale di esistenza. Certo lo spirito di Marx, invocato da Derrida, è molto diverso da quello ricorrente nella letteratura pro o contro Marx, “è lo stesso spirito che rompe gli argini teoretici del Capitale, che si versa ai suoi margini e alle sue note, che parla con oscura ironia della discrepanza tra le nobili finzioni che hanno accompagnato l’ascesa del capitalismo i suoi pomposi cataloghi dei diritti umani” (pp. 80-81). Derrida è consapevole di ereditare questo difficile lascito in un’epoca in cui la discrepanza tra la retorica trionfalistica del liberalismo (economico e politico) e la realtà del mondo che esso domina è la più grande mai vista, è consapevole, allo stesso tempo, che la spettralità nel marxismo rappresenta la sua potenza, il suo essere né presente né assente, né vivo né morto, né attuale né inattuale, né reale né immaginario. Non intende difendere Marx a tutti i costi, vuole cercare di esserne degno erede, cosa non semplice, visto che gli spiriti di Marx sono tanti, visto il collasso dei regimi comunisti nel XX secolo.
Per Terry Eagleton, “Marxismo senza marxismo”, la decostruzione derridiana è stata sin dal principio un progetto politico, ma ambiguo, a due facce, l’una prudentemente riformista l’altra estaticamente di ultra-sinistra. In sede di analisi critica Derrida è dalla parte del marxismo, in sede propositiva non è disponibile ad accogliere le positività storica del marxismo, e si atteggia, piuttosto, come l’ultimo post-strutturalista, che non è interessato a un socialismo effettivo.
Aijaz Ahmad all’inizio del suo “Riconciliare Derrida” si chiede che tipo di testo sia Spettri di Marx. È un testo performativo, letterario, o altro? Indugia poi sul celebre colloquio di Amleto con il Fantasma del padre morto, e afferma che Derrida ha sperato che il collasso del materialismo storico coincidesse almeno con il trionfo filosofico e accademico della decostruzione. Dopo aver criticato la destra, Derrida, sempre secondo Ahmad, passa a criticare la sinistra e tutte le forze organizzate che si sono ispirate a Marx, e discute, infine, il concetto di promessa nella forma messianico-escatologica. Sembra si sia ispirato al tentativo di Benjamin di riconciliare il marxismo con il misticismo ebraico, in realtà ci propone la ri-scrittura delle riflessioni sull’Angelo della storia, “ma privata della collocazione di Benjamin all’interno del misticismo ebraico (questa è forse la ragione della sua necessità di separare il ‘messianico’ dal messianismo; tutto ciò che resta del tormento di Benjamin è il linguaggio, il gioco retorico di un’emancipazione allo stesso tempo secolare e messianica …. È un sollievo […] che il messianismo di Derrida affermi di essere libero da ogni determinazione metafisico-religiosa” (p. 119-20). Verso la fine del suo intervento, Ahmad conclude polemicamente: “che cosa ce ne facciamo, infine, di questo atto di riconciliazione tra il marxismo e la decostruzione, che presuppone l’abbandono di tutte le categorie familiari al marxismo politico, e che caratterizza questa conciliazione non solo su basi, per loro stessa ammissione, messianiche, ma anche colme di un potente immaginario religioso, benché Derrida affermi ripetutamente che il ‘messianico’ non è religioso?” (p.124).
Tom Lewis in “La politica dell’hantologie” fa ampio riferimento ai saggi di Ahmad e Jameson e nota, schematizzando, che gli obiettivi principali di Derrida sono: il ripudio del materialismo storico, la rinuncia alla rivoluzione sociale. Derrida ripudia il materialismo storico perché esso ha avuto in sé una forte spinta ontologizzante (Lenin) che ha aperto la strada a Stalin; non accetta la rivoluzione sociale perché essa inevitabilmente porta alla soppressione dell’individuo. Il suo ideale di società prende la forma di una Nuova Internazionale “appena pubblica […] senza coordinazione, senza partito, senza patria, senza comunità internazionale […] senza con-cittadinanza, senza appartenenza comune a una classe” (Spettri di Marx, p. 48).
In “Lingua amissa” Werner Hamacher approfondisce il concetto di messianico senza messianismo che, diverso dal fenomeno religioso come pare lo abbia inteso Marx (sovrastruttura), deriva dalla stessa struttura della merce. Una innovativa analisi della merce, supportata dalle idee guida della lettura derridiana di Marx, “deve essere un’analisi della sua spettralità – vale a dire contemporaneamente un’analisi della fenomenicità della merce e di ciò che eccede questa fenomenicità, della sua spettralità e parafenomenicità” (pp. 192-193). Gli scambi e le trasformazioni possono essere effettuati solo con il medium della lingua merce, ossia della merce denaro; ma la lingua merce è mistificante e feticizzante, è “un fantasma perché non è in grado di esprimere l’esser-prodotti dei prodotti, ma solo la loro forma stabile, non la storicità dei prodotti, ma solo la loro perpetua oggettività, non la singolarità delle attività, ma solo la loro funzione astratta” (pp. 201-202). Derrida ha scoperto nello spettrale qualcosa di passato, ma provocato da qualcosa a venire, da qualcosa di prominente, ma sempre già in arretrato, qualcosa che reclama i propri diritti qui e ora. Anche se lo spettro si presenta/non presenta con fattezze più teoretiche che pratiche riesce a tenere in piedi la messianicità. La promessa (il messianico) è come una fessura del tempo, e “il marxismo è storicamente la prima promessa che ha affermato l’universalità illimitata della libertà e della giustizia, la prima e l’unica non influenzata da razzismi, nazionalismi, culti o ideologie di classe, ma che al contrario ha promesso un mondo comune a tutti e a ognuno il suo mondo” (p. 237).
L’ultimo capitolo del volume riporta la replica di Derrida agli interlocutori del Simposio.
Derrida ricorda che, ancora una volta, è in gioco il rapporto politica/filosofia, la questione del politico e del filosofico in relazione a Marx, la fenomenicità del politico, la filosofia come onto-teologia. Rivolto a Terry Eagleton, forse ultimo campione del marxismo novecentesco, Derrida significativamente ricorda i disastri del marxismo in Russia e altrove, afferma che la sua posizione si esplicita in due tempi, de-politicizzazione e ri-politicizzazione, giudica con vivacità, a volte con durezza le tesi di Ahmad. Hamacher ha posto giustamente in rilievo il posto della religione in Marx, Ahmad, invece, non coglie affatto questo riferimento e si ostina a credere che la questione religiosa sia definitivamente chiusa e risolta. Nel sostenere a più riprese di non aver mai inteso abbandonare un certo suo engagement politico, Derrida propugna l’ideale di una Nuova Internazionale, non tanto astratta e utopica come può apparire. La Nuova Internazionale deve muoversi giorno dopo giorno secondo le circostanze, deve essere soggetta a ogni istante a una nuova valutazione delle urgenze delle implicazioni strutturali, innanzi tutto dalle situazioni singolari, deve essere immune da calcolabilità assoluta, “è a questa condizione, alla condizione costituita da questa ingiunzione, che c’è – se c’è – azione, decisione, responsabilità politica: ri-politicizzazione” (p. 269).
Marx & Sons si chiude con un aside rivolto al compagno di letture spinoziane Antonio Negri. Derrida con un sorriso chiede a Negri un compromesso: accettare tutti e due l’ontologia come una password, un termine convenzionale che consenta di parlare insieme un linguaggio criptato alla maniera dei marrani. Potremmo, in filosofica compagnia tra marxisti-marrani, comportarci come se parlassimo ancora la lingua della metafisica o della ontologia ben sapendo che non ne resta più nulla. Perché la scelta del marrano? Semplicemente per il fatto che Derrida più volte si è presentato, in passi autobiografici, come un Marrano. E, del resto, chi può dire che Marx stesso, liberato dall’ontologia, non fosse un Marrano? Gli stessi figli di Karl forse non lo sapevano o non lo sanno, e nemmeno le sue figlie. Potremmo, allora, cercare di imparare a vivere in giustizia a partire dagli spettri, senza cadere in una sorta di patria ontologica della spettralità. Perché in una qualsivoglia unica patria ontologica, lui J. Derrida non se la sente assolutamente di vivere.

Indice

Nota dei traduttori
Antonio Negri, Il sorriso dello spettro
Pierre Macherey, Marx dematerializzato, o lo spirito di Derrida
Frederic Jameson, La lettera rubata di Marx
Warren Montag, Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida
Terry Eagleton, Marxismo senza marxismo
Aijaz Ahmad, Riconciliare Derrida. Spettri di Marx e la politica decostruttiva
Rastko Močnik, Dopo la caduta. Le nebbie sul “18 Brumaio” delle primavere dell’est
Tom Lewis, La politica dell’hantologie in Spettri di Marx di Jacques Derrida
Werner Hamacher, Lingua amissa. Il messianismo della lingua-merce e Spettri di Marx
Jacques Derrida, Marx& Sons


L'autore

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo e critico letterario di origine ebraica, noto come il fondatore del decostruzionismo, è riconosciuto come uno dei massimi filosofi del nostro tempo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: La scrittura e la differenza, Della grammatologia, La voce e il fenomeno, Margini della filosofia, Glas, Dello spirito. Heidegger e la questione, Politiche dell’amicizia, Aporie, Oggi l’Europa. L’altro capo, Spettri di Marx, Quale domani.

Links

http://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Derrida (pagina della Wikipedia italiana dedicata a Jacques Derrida)

1 commento:

MAURO PASTORE ha detto...

Marx descrisse lo spettro del comunismo in Europa ma in un manifesto politico attivo... attivante!, d'altronde e non invece lo spettro del marxismo agitato da Derrida era in tempi di forze comuniste non spettrali...

Derrida agiva nei confronti del marxismo senza applicargli... relativo costruzionismo metafisico di valore decostruttivo. Infatti per antimetafisico che fosse il marxismo non era sistema antimetafisico, solo strumento.
Derrida agitò lo spettro del marxismo anche perché in mente dei filosofi accademicamente marxisticamente obliosamente inquadrati voleva far apparire per beffa politica lo spettro sociale di Marx, perché quest'ultimo aveva in ultimo agito oltre quanto prodotto, negando la linea direttiva nel partito comunista allora fortemente internazionalizzato non nazionalizzato... Derrida faceva uso di strumentismo americano filosofico, secondo inclusione pragmatica, europea, avendo lavorato ai margini ma non marginalmente, in Francia dove c'era un importante partito comunista. Dallo spettro di Marx, al fantasma "della Internazionale": Derrida propose (!) un marxismo reso vuoto inerte simulacro di mentalità anche perché il disastro totalitario c'era e c'è ne era il potere che lo aveva fatto e questo si sosteneva dogmaticamente e finanche per misteriosa aspettazione di futuri incogniti ed allora la ostinazione marxista era già ex-marxista ma le incognite indussero il prof. Derrida ad intervenire antagonisticamente perché l'intervento rammemorante filosoficamente era una obiezione contro il passato progetto marxista e contro i suoi risultati diversi futuri. In Francia fu obiezione assai forte e vincente. Derrida fece notare che i problemi da affrontare richiedevano aspettazione altra di alterità che il marxismo non poteva avere né dare e per questo la ultima biograficamente conosciuta divergenza silenziosa ma attiva di Marx dal marxismo gli servì ricordarsi e ricordare per dare scaturigine ad autocapitolazioni di poteri accademici marxisti.

...Ma il gioco corrispondente ne sarebbe il dòmino, nessuna marra che oltretutto questa non è un gioco di ebrei né giudei e gli ebrei erano soltanto noti per la particolare imbranataggine nel porvi azione. (La più nota variante di tal gioco è: la marra cinese, che io trovo e ritrovo abbia origini mongole, lo dedussi anche, da testimonianze etnologiche oltre che etniche).

MAURO PASTORE