mercoledì 24 giugno 2009

Sbarberi, Franco (a cura di), La forza dei bisogni e le ragioni della libertà. Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento.

Reggio Emilia, Diabasis, 2008, pp. 240, € 15,00, ISBN 9788881035274.

Recensione di Carla Fabiani – 24/06/2009

Filosofia politica

Un bilancio critico sul comunismo e sul marxismo visto con occhi liberaldemocratici. Un confronto serrato e a più voci con le aporie e i fallimenti della filosofia della storia marxista. Contemporaneamente, una riflessione ampia sulle contraddizioni del capitalismo neoliberista.
Il tema di fondo è noto e diremmo di vecchia data: un conto è l’idea marxiana di critica al capitalismo, un conto è la realizzazione del comunismo. Un conto è la critica allo Stato borghese e un altro è l’eventuale costruzione di uno Stato socialista. Si pensi alla celebre domanda rivolta da Bobbio nel 1975 ai marxisti italiani: esiste o no una dottrina marxista dello Stato? Cioè una teoria comunista delle istituzioni che sappia conciliare l’eguaglianza con la libertà? Che sappia far tesoro della democrazia moderna occidentale? Le risposte date allora a Bobbio furono tutto sommato deludenti e inconcludenti. In sostanza i marxisti risposero che sì, in effetti, Marx non ha mai sviluppato a dovere una dottrina classica dello Stato e tanto più i marxisti non si sono impegnati a fondo per riempire quel pericoloso vuoto filosofico-politico. Di questo e del pensiero ‘ambivalente’ di Bobbio ne dà ampiamente conto il saggio di M. Bovero (pp. 52-65). In effetti, Bobbio considera Marx un autore decisamente classico, ma d’altra parte inutilizzabile ai fini di una accurata riflessione sulle istituzioni moderne, sullo Stato, sulla democrazia.
Oggi si ritorna sul tema col senno di poi. E cioè, dato il fallimento del socialismo reale, ci si interroga sulle buone intenzioni che mossero quella storia. Il testo si presenta come una ricostruzione accurata delle numerose voci liberaldemocratiche che in modo serio hanno compreso (e criticato) le ragioni sia del socialismo reale sia del pensiero filosofico-politico di Marx e del marxismo in genere. Dei suoi fallimenti. Certo, si potrebbe obiettare che in fondo Marx non sia mai stato un filosofo della politica – così come si potrebbe invece intendere, per es., Hegel – e, a stretto rigore, nemmeno propriamente un filosofo. Il suo maggiore lavoro, a nostro parere, è e resta la Critica dell’economia politica. Un lavoro teorico per nulla sistematico, per lo più in forma di manoscritto, un laboratorio teorico a cielo aperto, nel quale però non compare mai un accenno esplicito al comunismo. Il “regno della libertà” muove pur sempre dal “regno della necessità” in cui ciò che conta, scrive Marx, è la costante riduzione della giornata lavorativa, e cioè la tendenziale riduzione dell’estrazione di pluslavoro assoluto a fronte di un incremento del plusvalore relativo. Con tutto quello che ciò comporta, innanzitutto in termini di caduta tendenziale del saggio di profitto. I termini di un eventuale crollo del capitalismo – e si badi bene che Marx registra esattamente anche le cause antagonistiche al crollo – non sono propriamente di filosofia politica o di filosofia della storia. Noi che leggiamo quei testi possiamo dedurre conseguenze di carattere filosofico politico. Ma nel Capitale non compaiono esplicitamente.
E tuttavia da parte liberale si rintraccia in Marx una ‘cattiva’ filosofia della storia (la concezione materialistica della storia) ovvero una concezione non propriamente ‘liberale’ dei processi economici, i quali costituirebbero una struttura cieca e deterministica che retroagisce sulla sovrastruttura politica (e sulla politica economica degli Stati) in modo per lo più violento.
Si potrebbe allora obbiettare che – oltre al fatto che su questa linea si muovono esponenti illustri (l’inintenzionalità del mercato smithiano e la “bestia selvaggia” di Hegel) – l’Economia neoclassica o mainstream (il cosiddetto pensiero unico, per intenderci) si presenta per lo più come quella scienza che studia problemi di allocazione di risorse scarse fra usi alternativi dati, la scelta dei quali viene effettuata da agenti razionali auto interessati, in base a preferenze esogene. Se, per es., si ha una preferenza esogena per il suicidio – e l’economista non può giudicarlo in termini etico-morali – il problema dell’homo oeconomicus diventa quello di trovare il mezzo più efficace per raggiungere quell’obiettivo. Come sostiene Amartya Sen, siamo in presenza di stupidità razionale, rational fool, che presuppone il masochismo.
A parte il fatto che sul tema del suicidio e sulle sue ricadute sociali si è esercitato lo stesso Marx in Peuchet, del suicidio nel 1844-45, la critica dell’economia politica marxiana adotta tutt’altro parametro di ricerca: i soggetti tratteggiati da Marx nel Capitale valgono come maschere di processi e di funzioni economiche. La critica si rivolge perciò verso categorie economiche oggettive e contraddittorie (si veda il celebre passaggio sul feticismo della merce, ma anche la prefazione alla seconda edizione del Capitale). Tendenzialmente contraddittorie e generatrici di crisi e conflitti intercapitalistici. Ci chiediamo pertanto se su questo i liberali di ieri e di oggi si esprimano e in che termini.
Vediamone perciò alcuni.
A. Roncaglia (pp. 313 e ss.) descrive, con estrema efficacia e notevole capacità di sintesi, gli elementi essenziali della teoria economica e politica di Schumpeter. Sul primo versante, attinente al piano puramente analitico nel quale si svolge la riflessione dell’economista austriaco, viene descritta e interpretata la sua teoria dello sviluppo economico, alla luce delle due principali ipotesi sulla quale si fonda. La prima, di notevole interesse anche per gli sviluppi contemporanei in ambito postkeynesiano, riguarda l’idea che il sistema bancario crea mezzi di pagamento e, dunque, l’offerta di moneta è endogena e demand-driven. Il che accade, secondo l’autore, nelle condizioni di mutamento istituzionale, laddove gli imprenditori domandano moneta per finanziare le innovazioni. In tal senso, proprio perché radicalmente contraria alla visione mainstream secondo la quale la banca agisce come puro intermediario, raccogliendo risparmi ed erogando finanziamenti, l’assunzione schumpeteriana può essere legittimamente collocata nel più generale ambito dell’economia politica ‘critica’. Il secondo assunto riguarda la peculiare funzione dell’’imprenditore innovatore’, il cui agire, ancora una volta in contrapposizione con l’impostazione marginalista, è mosso da una molteplicità di moventi (‘la volontà di vincere’, la ‘gioia di creare’) che esulano del tutto dall’assunto della massimizzazione dei profitti. Anche in tal senso, la riflessione di Schumpeter è ben lontana dalla matrice edonistica che è alla base della raffigurazione neoclassica dell’homo oeconomicus, puro calcolatore che massimizza una funzione obiettivo dati i vincoli di moneta e di tempo. Sul secondo versante, che attiene alla visione propriamente politica dello studioso austriaco, Roncaglia mette ben in evidenza la sua “visione reazionaria della storia” (p. 323), stando alla quale – per effetto dell’indebolirsi del movente dell’accumulazione e del conseguente prevalere di imprese burocratizzate – il capitalismo sarebbe destinato a perdere il proprio dinamismo. In tal senso, un regime comunista costituirebbe l’espressione massima della mortificazione delle intelligenze imprenditoriali che muovono il cambiamento e che, nella sua fase più alta, rappresentano il pregio essenziale del sistema capitalistico.
Sul piano interpretativo, è convincente l’idea di Roncaglia secondo la quale la riflessione schumpeteriana è sostanzialmente un “grido d’allarme” (p. 313) a fronte della prospettiva della transizione al comunismo. Va tuttavia sottolineato che se è certamente vero che Schumpeter è un economista e un politologo liberale, non è accettabile (né è questo l’intento di Roncaglia) il suo reclutamento nelle fila degli economisti liberisti di ispirazione neoclassica. Pure a fronte della sua piena accettazione del modello walrasiano dell’equilibrio economico generale (definito come la Magna Charta dell’Economia Politica), va riconosciuto che nessuno dei pilastri posti a fondamento della modellistica neoclassica è rintracciabile nelle sue opere: non lo è la teoria della moneta e della banca, non lo è la teoria della crescita, non lo è la teoria della distribuzione del reddito e non lo è – soprattutto – la raffigurazione dell’uomo economico come puro calcolatore, il cui agire è mosso dalla ricerca del piacere e dalla fuga dalla pena. Non è casuale che, almeno nel campo della teoria economica, le tesi schumpeteriane siano oggi alla base di una linea di ricerca che mostra come il capitalismo sia sì una formazione sociale intrinsecamente dinamica, ma anche intrinsecamente instabile.
La ricostruzione del pensiero di Hayek proposta da A. E. Galeotti (pp. 134 e ss.) è essenzialmente basata su due aspetti: la critica di Hayek al ‘costruttivismo’ e la sua peculiare idea dell’agire economico. In premessa, è opportuno chiarire che il liberismo, anche negli anni nei quali l’autore austriaco pubblica le sue opere più rappresentative, è basato sui seguenti presupposti: a) gli agenti economici sono ‘razionali’ e perfettamente informati; b) i mercati sono concorrenziali; c) il processo economico si svolge sotto la duplice condizione della scarsità esogena delle risorse e della ‘sovranità del consumatore’. Il punto di arrivo della costruzione teorica liberista, come declinata in ambito marginalista e neoclassico, sta nel modello walrasiano dell’equilibrio economico generale, secondo il quale – in assenza di interventi esterni, e dati questi assunti – un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente al pieno impiego dei fattori produttivi e alla più efficiente allocazione del reddito. Opportunamente, la Galeotti evidenzia la radicale differenza fra il pensiero di Hayek e quello dei marginalisti per quanto attiene all’assioma della razionalità strumentale. Per ciò che concerne in particolare il comunismo, Hayek critica l’economia di piano, non differenziando la dittatura comunista dal fascismo o dalla socialdemocrazia; restituendo una giustificazione che dall’economia risale alla psicologia cognitiva, alla razionalità limitata, alla critica del razionalismo costruttivista e alla difesa dell’evoluzione spontanea delle regole. Per una eventuale controcritica ad Hayek si potrebbe citare D. Losurdo, il quale sottolinea polemicamente come Hayek, Premio Nobel dell'Economia 1974, esperto economico del Presidente americano Reagan, abbia dichiarato esplicitamente che i diritti economici e sociali sanciti dall'O.N.U. – proprio le libertà dai bisogni – sono il risultato dell'esistenza rovinosa - così la considera - della Rivoluzione marxista russa. Sarebbero dunque da espungere dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e non per ragioni strettamente economiche, ma per una concezione darwiniana della società, secondo la quale per es., contro la sovrappopolazione che attanaglia le società più povere, ci sarebbe un solo metodo efficace: lasciare che si mantengano e si accrescano solo i popoli autonomamente capaci di riprodursi.
Da ultimo, citiamo in breve il saggio di S. Petrucciani su Habermas (pp. 120 e ss.). Una ricostruzione accurata e molto chiara delle frequentazioni marxiste ed economiche del celebre filosofo. Eppure, quello che si rileva è in realtà, a nostro avviso, un mancato confronto di Habermas sia con la Critica dell’economia politica di Marx sia con l’economia mainstream. Entrambe considerate struttura, inefficace e impropria se si intende spiegare la vastità e complessità sovrastrutturale delle moderne società. È la dialettica a farne le spese; quella dialettica di derivazione hegeliana che anche il giovane Marx antihegeliano ha comunque utilizzato a fondo quando – a proposito di struttura/sovrastruttura – afferma che “le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”. E questo solo per accennare all’approssimazione con la quale a volte ci si riferisce all’enorme e non compiuta impresa marxiana di critica della società borghese-capitalistica. Ma non è certo questo il caso.

Indice

La cultura politica del Novecento e la giustizia sociale dopo il 2000, S. Scamuzzi 
Introduzione, F. Sbarberi 
Il comunismo nel pensiero di Raymond Aron, F. Dutto 
Hannah Arendt e il comunismo: considerazioni su una critica anomala, S. Forti 
L’enigma della storia. Bobbio e il comunismo come utopia capovolta, M. Bovero 
John Dewey. Un liberale di fronte al comunismo, G. Cavallari 
Luigi Einaudi e il comunismo. La critica di un liberale, R. Marchionatti 
Piero Gobetti, M. Scavino 
Habermas, il marxismo e il comunismo, S. Petrucciani 
La voce di Hayek nel silenzio dei comunisti, A. E. Galeotti 
Kelsen, M. Dogliani 
Arthur Koestler, M. Revelli 
Totalitarismo e democrazia in Claude Lefort, C. Pianciola 
Lippmann e la critica del comunismo, M. L. Salvadori 
«Ho tentato di dire la verità»: George Orwell e l’universo totalitario, P. Costa 
Pareto e il canone della critica al socialismo, P. P. Portinaro 
Karl Polanyi, G. Becchio 
Karl Raimund Popper, G. Bosetti 
Carlo Rosselli e Giustizia e Libertà di fronte all’«esperienza russa», A. Bechelloni 
Bertrand Russell, egualitario o liberale?, E. Vitale 
Salvemini e il comunismo, S. Bucchi 
Joseph Schumpeter, A. Roncaglia 
Franco Venturi e il comunismo, F. Tuccari 
Il comunismo nell’interpretazione tecno-manageriale del liberalismo americano, G. Borgognone 
Postfazione Le interpretazioni socialiste dell’URSS, B. Bongiovanni 
Profili bio-bibliografici

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L'autore

Sbarberi è professore ordinario di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni sul pensiero politico comunista e liberaldemocratico si ricordano, fra gli altri: I comunisti italiani e lo stato 1929-1945 (Milano 1980); L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio (Torino 1999); Postfazione a N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo (Bari 2008).

Links

Sbarberi, Franco Democrazia e conflitto nella sinistra italiana del Novecento
Domenico Losurdo (Università di Urbino), al Convegno su La crisi economica globale e le alternative di politica economica, del 12 giugno 2009, promosso dal comitato NOG8 di Lecce e da economia e politica

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