lunedì 22 giugno 2009

Cimatti, Felice, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio.

Torino, Codice, 2009, pp. 184, € 16,00, ISBN 9788875781224.

Recensione di Fabio Lelli - 22/06/2009

Filosofia della religione

La tesi che Cimatti costruisce e argomenta lungo tutto il corso del saggio è chiara e precisa: il “sacro” è un’esperienza biologica propria degli Homo sapiens, ed è un sentimento (cioè un “sentire”) logico, non privato e soggettivo, ma pubblico come il linguaggio. Proprio il linguaggio, come si chiarirà più avanti, ne è la condizione di possibilità. Siamo lontani dalle ormai celebri posizioni dei bright di Dennett: l’esperienza del sacro non è affatto una debolezza primitiva dell’uomo e non riguarda una credenza relativa al trascendente. Questo è il primo importante distinguo che l’autore compie: quando si parla di sacro non si parla necessariamente di trascendente o di mistico, e di conseguenza non è un ambito di assoluto monopolio della religione.
L’esperienza del sacro è l’esperienza del “possibile”, come quando di fronte ad un volto sentiamo il suo essere aperto ad infinite possibilità, cioè la sua libertà (“libertà è tutto ciò che questo volto non è in questo momento”, p. VIII).
Il linguaggio è la condizione di possibilità del sacro perché il linguaggio ha in sé l’apertura di questa infinità. La capacità linguistica non ha un funzionamento modulare (Cimatti riprende qui esplicitamente la terminologia di Fodor) come la vista, perché non è riconducibile a regole certe e attuabili meccanicamente. Il linguaggio prevede una infinità delle scelte, e ha la possibilità di “perdersi” nella semiosi infinita (già un’idea di Peirce), nei rimandi sempre aperti, nelle allusioni continue. È perciò anche un’esperienza emotiva di angoscia, che è tuttavia connaturata a una caratteristica essenziale dell’essere umano, quindi non è un “sentimento soggettivo”, bensì biologico e logico assieme.
Il sacro appare in questa possibilità di perdersi quando si riconosce questo “vuoto” (nelle parole di Simone Weil questo riconoscimento è la “grazia”). Il rapporto al sacro deve essere disinteressato: la sua infinita possibilità non si coglie in un oggetto verso il quale abbiamo degli interessi pratici. Per questo la preghiera – non come atto religioso – ha un suo senso che non può affatto essere quello tradizionale del “chiedere a Dio”, perché quest’ultimo sarebbe equivalente a trattare Dio in modo “profano”, cercando di sfruttarlo per ottenere un beneficio.
La difesa antropologica della preghiera si collega direttamente ad una accesa critica delle prospettive similari a quella del sopraccitato Dennett che, nella scia Hume, riducono l’esperienza del sacro alla credulità, alla consolazione o comunque al tentativo di spiegazione prescientifica. Per Cimatti il loro errore è quello di non cogliere ciò che il sacro realmente significa per l’Homo sapiens: non può essere “credenza” perché è esperienza, e non può essere un tentativo di spiegazione proprio perché l’esperienza del sacro è la rinuncia alla spiegazione. Avere esperienza del sacro è semmai accettare una angoscia per nulla consolatoria, è concedersi lo “stupore”.
Come sosteneva Wittengstein, il linguaggio determina i limiti del mio mondo. Il linguaggio è per l’essere umano l’“ambiente naturale”, quella griglia precedente a ogni esperienza, determinata dalla dotazione cognitiva e sensitiva di una specie; esso implica inoltre una intelligenza innata, sapere già cosa sia il linguaggio, cosa significhi l’attribuire un significato a una parola; una operazione che non è per forza di cose spiegabile attraverso proprio quel linguaggio che si dovrebbe imparare. La specificità dell’Homo sapiens è che è consapevole, a differenza degli altri animali, che il proprio mondo è limitato, sa che ne esiste un “fuori” che per lui sarà sempre inconoscibile. Ma come può raggiungere questa consapevolezza? È la natura del linguaggio che ce lo dice: dalla cibernetica sappiamo che un sistema ha bisogno di un ambiente esterno da cui trarre energie, con cui interagire per trasformare il rumore in nuovo segnale. Sono i deittici (“questo” per Russell era l’unico nome proprio) che compiono tale osmosi, che toccano i limiti del linguaggio e che quindi ne segnalano la finitezza (che non è certo staticità). Questo movimento continuo ai confini del nostro mondo linguistico ci comunica implicitamente l’esistenza di un “oltre”. Il confine non lo si “vede”, ma lo si implica logicamente. Un “oltre” e un “mistero” che sorgono logicamente dalla “fisiologia della nostra mente” (p. 90), che danno la possibilità di “alludere” al sacro, ma certo non di dominarlo.
Solo all’interno di una società l’essere umano può portare a compimento la sua natura biologica, perché solo nella società può essergli insegnato a usare il linguaggio (ma non la capacità di poter imparare a usare il linguaggio), quindi c’è un collegamento diretto fra il sacro, il linguaggio e la società, e quindi con la politica. È la possibilità infinita del sacro che permette all’uomo di apprezzare ciò che una pura dimensione fattuale non può comprendere, come i valori e la bellezza. La prima mossa etica nasce dall’ammirazione e dall’attenzione verso un fatto che è “fragile”, che poteva essere ma poteva anche non essere, che per questo è “sacro”; ed è nella società che si stabiliscono i valori, cioè quello che spezza l’omogeneità dei fatti profani, che ispira rispetto. La politica è fatta di scelte, non di meccanismi, quindi vive nella dimensione del sacro e del valore. Ma se dimentica questa sua origine si snatura e diventa puro calcolo, automatismo burocratico.
Se il sacro viene identificato (erroneamente) con il religioso, la morte di Dio sarebbe la perdita di un punto di vista superiore, un criterio su cui valutare il nostro agire. Data la morte di Dio si può tentare di trovare un fondamento naturale per l’etica, come accade ad esempio con la teoria dei giochi o con la naturalizzazione e le neuroscienze. Per Cimatti questi tentativi son destinati al fallimento. Non si può ridurre l’etica a un comportamento modulare, cioè automatico, perché verrebbe meno la sua caratteristica fondamentale: di essere una scelta non obbligata, che sarebbe potuta essere diversa. Nella teoria dei giochi e della decisione razionale l’etica non c’è, perché consideriamo l’altro solo dal nostro punto di vista, quindi non lo consideriamo eticamente. Dallo studio del dilemma del prigioniero Axelrod ha tratto la conclusione che l’esito più fruttuoso si può avere solo se ci si aspetta una collaborazione dell’altro. Ma questa cooperazione da dove dovrebbe provenire? Non significa forse lo scacco di questo tentativo, e che l’etica viene comunque prima della possibilità di ridurla a calcolo interessato?
Se invece la “morte di Dio” è intesa come la mancanza di distinzione fra sacro e profano, cade la possibilità dell’etica (e dell’estetica) che solo questa distinzione rende possibile. L’etica sorge quando ho davanti il volto sacro di un altro individuo che è libero e differente da tutti gli altri fatti, ma se tutti i volti sono uguali, interscambiabili come cose (non sono “sacri”), per loro non è possibile provare alcuna responsabilità. Delle azioni che compio burocraticamente non sono responsabile.
Chi cerca nella natura il fondamento dell’etica non fa altro che seppellire ancora più in fondo la distinzione fra sacro e profano. L’etica non è di per sé “naturale”, anche se l’apertura al sacro è parte della fisiologia umana ed è la sua condizione di possibilità. Nell’Homo sapiens è naturalmente presente una certa predisposizione alla sintonizzazione col “gruppo” (come mostra il famoso esperimento di Milligram e la recente scoperta dei neuroni specchio), cancellando la responsabilità individuale che invece è una sorta di “disobbedienza” rispetto al gruppo.
Se il sacro (nella sua dialettica col profano) non torna nella nostra vita non sono possibili l’etica e l’estetica. Questo non vuol dire comunque affidarsi a fattori soggettivi, visto che l’apertura al sacro è un’esperienza biologica comune a tutta la specie. E neppure vuol dire riaffidarsi a parametri religiosi assoluti, che in realtà del sacro non hanno nulla, perché sono privi della infinita possibilità che lo caratterizza; paradossalmente il religioso rischia di essere un profano mummificato, un fatto deciso una volta per tutte, quindi senza valore.
L’apertura all’incontro con uno spazio sacro, come il volto umano, è rispettoso del “miracolo” che si sta vedendo (dove per “miracolo” non si intende nulla di trascendente, ma la meraviglia che ci sia quello che c’è e non qualcos’altro); quindi è la possibilità della relazione e dell’amore assolutamente disinteressato per l’altro. Nelle ultime pagine Cimatti si riferisce a questo possibile modello sociale facendo riferimento al dono degli studi etnoantropologici di Marcel Mauss; un dono rituale di reciproco riconoscimento, non un dono religioso interessato e soggettivo.
Quella di Cimatti è una forte elaborazione teorica che sfida più o meno implicitamente molte tendenze contemporanee, specialmente quelle più in odore di scientismo e di naturalizzazione dell’etica. Lo fa con grande coraggio teoretico, pur utilizzando un linguaggio assolutamente chiaro, e senza trincerarsi dietro altissimi steccati di citazioni dotte e bibliografie sterminate. Preferisce piuttosto ricorrere alla linguistica, alla psicanalisi, all’antropologia, anche perché, come scrive nell’introduzione “il sacro non ha una collocazione settoriale” (p. XI). Forse le interessanti ricadute politiche meriterebbero una trattazione più ampia, e a volte dispiace che nel corso del testo non compaiano Lacan (che da premesse forse simili a quelle dell’autore concludeva, all’opposto, che “non c’è rapporto sessuale”) e Merleau-Ponty. Ma forse si tratterebbe di una foga comparatistica di natura esclusivamente accademica, molto distante dalla scrittura sincera e militante di Cimatti.

Indice

Introduzione
Capitolo 1: Per un sacro non religioso
Capitolo 2: Una questione logica: la trascendenza
Capitolo 3: Dal profano al sacro, e ritorno
Capitolo 4: Ancora il sacro, dopo la morte di Dio
Bibliografia

L'autore

Felice Cimatti è docente di Filosofia della Mente presso l’Università della Calabria. Collabora alle pagine culturali del quotidiano “Il Manifesto” e alla “Rivista di Psicoanalisi”. È uno dei conduttori del programma radiofonico di attualità culturale di Radio3 Fahrenheit.

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