domenica 9 agosto 2009

Rawls, John, Lezioni di storia della filosofia politica, a cura di S. Freeman, trad. it. di V. Ottonelli.

Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 514, € 45,00, ISBN 9788807104459.
[Ed. or.: Lectures on The History of Political Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2007]
Nota di Giuliano Manselli – 09/08/2009

Filosofia politica

Le Lezioni di storia della filosofia politica di John Rawls costituiscono un testo molto interessante non solo per l’appassionato di storia della filosofia politica, ma anche e soprattutto per chi voglia approfondire il pensiero del grande teorico politico americano. Per molti aspetti, infatti, esse possono essere considerate come complementari alle opere principali di Rawls, dal momento che egli sembra aver attinto dalla storia della filosofia politica gran parte dell’arsenale di concetti e di idee che sostengono la complessa struttura della sua famosa teoria della giustizia come equità.
Del resto, come sottolinea il curatore dell’opera Samuel Freeman, queste lezioni, tenute ad Harvard dagli anni ’60 fino alla metà degli anni ’90, venivano abbinate da Rawls alle lezioni su Una Teoria della giustizia(1971) e su Giustizia come equità. Una riformulazione (2001). Esse rivelano quindi come, e dove, Rawls collochi la propria opera rispetto alla storia della tradizione del contratto sociale, oppure dell’utilitarismo. È infatti Rawls stesso, nelle note introduttive, a spiegare che queste lezioni partono da una prospettiva piuttosto circoscritta, limitandosi ad esaminare come autori precedenti abbiano trattato i temi da lui successivamente discussi nei suoi scritti. Così se Hobbes, Locke e Rousseau sono analizzati in quanto esponenti della tradizione contrattualista, a cui Rawls si richiama per la delineare il suo liberalismo politico e la sua teoria della giustizia come equità, Hume, Mill e Sidgwick sono oggetto di trattazione in quanto rappresentanti della tradizione utilitarista. Tradizione che egli si propone di superare, nonostante le non poche analogie tra il suo liberalismo e quello di Mill, e la sua ammirazione per il metodo comparativo di Sidgwick, che rimane per Rawls, in etica, un modello da emulare. Marx, invece, che rappresenta la tradizione socialista, viene preso in considerazione soprattutto in quanto critico del liberalismo.
L’immagine di Rawls che queste lezioni ci offrono, inoltre, non è più solo quella di un filosofo normativo costantemente impegnato nella continua rielaborazione e meticolosa messa a punto del suo grande progetto teorico, ma anche quella di uno studioso affascinato e spesso impressionato dalla grandezza degli autori del passato. Lo possiamo cogliere, ad esempio, sconvolto dallo spaventoso modo di pensare la società di Hobbes, o colpito dal fatto che Locke abbia scritto un’opera così ragionevole e di buon senso mentre, rischiando in prima persona, era attivamente impegnato politicamente, oppure ammirato di fronte all’insuperata unione di forza letteraria e potenza di pensiero di Rousseau.
Riguardo invece al metodo storiografico adottato, Rawls, benché convinto che in filosofia politica alcune domande fondamentali siano ricorrenti, si richiama, almeno in parte, alla massima di Collingwood secondo cui “la storia della teoria politica non è la storia di risposte differenti alla stessa domanda, ma la storia di un problema che é cambiato in maniera più o meno costante, e la cui soluzione è cambiata con esso” (pag.111). Tenta così di porre i problemi filosofici nel modo in cui gli autori trattati li vedevano, per capire come la filosofia politica si è sviluppata nel tempo, e spiegare perché egli veda ciascun autore, come qualcuno che aveva contribuito allo sviluppo del pensiero democratico, compreso Marx. Ma si richiama pure alla celebre massima di Mill secondo cui “una dottrina non è giudicata affatto finché non è giudicata nella sua forma migliore” (pag.113), cerca così di presentare il pensiero degli autori in quella che egli ritiene la forma più valida e coerente.
Prima di passare alla trattazione diretta del loro pensiero, nell’interessante lezione introduttiva, Rawls propone alcune riflessioni generali e preliminari sulla filosofia politica e sulle idee principali del liberalismo. Egli richiama i quattro ruoli, già discussi in maniera più ampia e approfondita nel primo paragrafo di Giustizia come equità. Una riformulazione, che la filosofia politica può interpretare come parte della cultura politica di una società. Solo per citarne alcuni, quello “pratico” di attenuare i conflitti politici divisivi, al fine di mantenere una cooperazione sociale sulla base del rispetto reciproco fra cittadini; o quello consistente nel saggiare i limiti della possibilità politica praticabile: un ruolo concepito da Rawls come base di un’utopia realistica, ossia di un regime democratico ragionevolmente giusto anche se non perfetto.
Molto interessanti sono poi le sue riflessioni sulle tesi centrali del liberalismo. Prima fra tutte quella del requisito della giustificazione delle istituzioni di fronte alla ragione di ciascun cittadino. Tale requisito è connesso infatti alla tradizione del contratto sociale, a cui Rawls si richiama nel delineare una concezione di liberalismo politico caratterizzato da una lista di diritti e libertà fondamentali, dalla priorità di queste libertà, e dall’assicurazione che tutti i membri della società abbiano i mezzi adeguati per godere di tali diritti e libertà.
Molto interessante e attuale risulta, infine, il contenuto delle cinque riforme di cui, secondo Rawls, ci sarebbe bisogno negli Stati Uniti per ottenere un regime democratico più giusto. Basti solo pensare a quella sull’assistenza sanitaria garantita a tutti, attualmente al centro del dibattito pubblico americano sulla politica economica del presidente Obama.
Nell’introdurre i temi del suo corso, Rawls sottolinea come ogni seria trattazione inerente alla storia della filosofia politica deve prendere le mosse dal Leviatano di Hobbes, che secondo il filosofo americano può essere considerato come il più grande libro di filosofia politica in lingua inglese mai scritto, non solo per il suo stile e la sua acutezza, ma soprattutto per un modo di pensare la società che Rawls ritiene spaventoso ed agghiacciante.
Rawls interpreta la teoria hobbesiana come un “sistema politico e morale secolarista”, poiché le leggi di natura, comprensibili indipendentemente da qualsiasi retroterra teologico, sono semplici “dettami della ragione” su ciò che è necessario per la conservazione degli uomini e la pace della società. Un aspetto particolarmente interessante dell’interpretazione rawlsiana della teoria del contratto sociale di Hobbes, é soprattutto la parte riguardante la teoria hobbesiana del ragionamento pratico. Rawls, riprendendo la nota distinzione di matrice kantiana fra “ragionevole” e “razionale”, da lui già discussa nel celebre articolo Kantian Constructivism in moral theory (1980) e in Liberalismo Politico (1993), interpreta la ragion pratica hobbesiana come un genere di razionalità che implica una certa forma di ragionevolezza. La dottrina del contratto sociale di Hobbes, infatti, non è che una spiegazione filosofica dell’origine del Leviatano, ossia del possibile passaggio da uno stato di natura alla società civile, e dei motivi per sostenere un sovrano effettivo. Il fatto che la relativa uguaglianza degli uomini nelle dotazioni naturali renda difficile a una o più persone di dominare su tutte le altre, unitamente alla scarsità di risorse necessarie a soddisfare i loro bisogni, porta infatti gli uomini a competere, facendo dello stato di natura uno stato perenne di guerra di tutti contro tutti. Per rendere collettivamente razionale la società civile è necessario, quindi, introdurre condizioni che, pur non eliminando completamente tale scarsità, la rendano meno urgente, facilitando la produzione dei frutti del lavoro o l’incremento dei mezzi per una vita comoda.
Ora, secondo Rawls, Hobbes non nega che gli uomini siano capaci di giustizia o fedeltà, pensa tuttavia che non si possa far affidamento su tali capacità quando si vuole offrire un resoconto realistico della società civile. A rendere infatti tanto spaventosa l’argomentazione di Hobbes, è il fatto che essa si fonda su assunti del tutto plausibili riguardo le condizioni normali della vita umana. Anche persone normali possono trovarsi nello stato di natura, e questo degenererà comunque in uno stato di guerra. Non è necessario che siano dei mostri.
Tornando così alla distinzione kantiana tra diverse forme di ragionamento pratico, se gli imperativi ipotetici, giustificati da ciascun individuo sulla base dei propri fini particolari, implicano il principio della scelta “razionale” inteso come azione in vista del proprio interesse, gli imperativi categorici invece, giustificati come requisiti che tutti devono seguire a prescindere dai propri fini particolari, esprimono i requisiti della “ragionevolezza”, ossia le restrizioni alle quali ciascuno dovrebbe sottostare nella propria condotta sociale.
Secondo Rawls dunque, poiché il ragionamento pratico di Hobbes consiste solo nel deliberare riguardo a ciò che è razionale fare, le sue leggi di natura corrispondono agli imperativi ipotetici di Kant. Infatti, benché il loro contenuto sia ragionevole, pensiamo cioè che dovrebbero aderirvi tutti a prescindere dai propri interessi, esse sono giustificate a ciascun individuo solo alla luce del proprio fine particolare: l’autoconservazione. Sono principi ragionevoli collettivamente razionali. Per questo motivo, secondo Rawls, in Hobbes non c’è posto per l’idea di diritti o di obbligo morale.
Tuttavia, affinché sia razionalmente vantaggioso attenersi a tali principi, è necessario avere la certezza che ciascun individuo si attenga ad essi. Così, nella visione di Hobbes, il ruolo del sovrano sarebbe proprio quello di rendere stabile la situazione sociale, garantendo il rispetto delle leggi di natura.
Rawls paragona, infatti, la struttura formale della situazione iniziale dello stato di natura hobbesiano a quella del gioco del dilemma del prigioniero. Un gioco a due persone non cooperativo, in quanto gli accordi non sono vincolanti né fatti valere con la forza, e non a somma zero, in quanto ciò che un giocatore guadagna non è sottratto all’altro. All`interno di questo gioco, date certe circostanze particolari, la preferenza dominante per entrambi i prigionieri è la confessione, nel senso che per ciascuno, in mancanza di informazioni stabili circa la scelta dell’altro giocatore, la cosa più razionale da fare è confessare. La natura dominante di questa preferenza produce un equilibrio stabile. Ora, le persone nello stato di natura di Hobbes si troverebbero in una situazione analoga. La differenza è che nel caso dello stato di natura, le parti non sono chiamate ad una e una sola scelta ma essa è incessantemente ripetuta e dunque, in assenza di un qualche cambiamento di sfondo, non converrà a nessuno attenersi alle leggi di natura e tale stato rimarrà uno stato stabile di guerra di tutti contro tutti. Il problema centrale di Hobbes è quindi come fuoriuscire dallo stato di natura per entrare nella società civile. Così l’idea che le leggi di natura siano effettivamente fatte rispettare da un sovrano, con tutti i poteri necessari per farlo, muta le condizioni di sfondo, rendendo razionalmente vantaggiosa e dominante la scelta di uno stato di pace e concordia civile stabile e sicura. Per Rawls, Hobbes è stato uno dei primi a comprendere l’idea che sia “razionale” per ciascuno volere un qualche genere di sanzione coercitiva per garantire che le leggi siano rispettate da tutti, anche qualora tutti fossero disposti a fare il proprio dovere.
È importante sottolineare che questa analogia tra la teoria del contratto sociale di Hobbes e il gioco del dilemma del prigioniero è divenuta celebre poiché è stata ripresa e sviluppata dal filosofo canadese David Gauthier che, in “Morals by Agreement”(1986), delinea una teoria contrattualista di ispirazione hobbesiana, critica nei confronti del contrattualismo rawlsiano, nota come Contractarianism. Secondo tale teoria infatti, sulla base della natura primariamente autointeressata dei soggetti, solo un assetto istituzionale razionale che preveda la miglior strategia per ottenere la massimizzazione dell’interesse personale è in grado di garantire l’esercizio della moralità e il consenso verso forme di restrizione esercitate dall’autorità di un governo.
Nel contrattualismo di Rawls invece, che considera la dottrina di Hobbes insoddisfacente, gli individui non sono motivati esclusivamente dal proprio interesse, ma dall’impegno a giustificare pubblicamente i principi morali ai quali ciascuno dovrebbe attenersi. Rawls vuole infatti riformulare la teoria del contratto sociale in una prospettiva che concepisca le istituzioni politiche, non semplicemente come collettivamente razionali e vantaggiose, ma in una struttura all’interno della quale possa essere definito il contenuto di nozioni essenziali alla cooperazione sociale, quali quelle dell’autolimitazione ragionevole e dell’equità. E tale esigenza, secondo Rawls, conduce concettualmente a Locke.
Quella che in Hobbes e in Locke potrebbe sembrare la stessa idea, ovvero quella del contratto sociale, ha in realtà un significato molto diverso. In Locke l’idea del contratto sociale è usata per sostenere che un governo legittimo può esser fondato solo sul consenso di persone libere ed eguali, ragionevoli e razionali, a partire da uno stato di natura in cui tutti sono egualmente sovrani su se stessi. Per Rawls, tuttavia, la teoria dei diritto naturale di Locke, diversamente che in Hobbes, non può essere discussa prescindendo dal suo sfondo religioso. Le leggi di natura sono infatti una parte della legge divina accessibile all’intelletto umano grazie alla ragione naturale, differiscono quindi sia da quelle leggi divine accessibili solo per rivelazione, che dalle leggi civili dello stato, le quali tuttavia dovrebbero conformarsi al diritto naturale. Per questo motivo teorie recenti, come quella di Nozick in “Anarchia, stato e utopia” (1981), spesso descritte come lockeane, per Rawls non possono ritenersi tali. In quanto assumono vari diritti, per esempio quelli di proprietà, senza il genere di derivazione fornita ad essi da Locke.
La concezione del diritto naturale di Locke, inoltre, presuppone un ordine indipendente di valori morali e politici attraverso i quali è possibile valutare i propri giudizi politici sulla giustizia e sul bene comune. Locke prevede così una concezione della giustificazione ben diversa da quella di giustificazione pubblica adottata per esempio da Rawls nella giustizia come equità, in cui è la concezione pubblica della giustizia politica, a creare una base comune che permette ai cittadini di giustificare in condizioni di reciprocità i rispettivi giudizi politici.
Infatti, la tesi fondamentale di Locke sulla legittimità del potere politico che si basa sul consenso, come ricorda Rawls, si applica solo all’autorità politica. Locke non sostiene alcun tipo di teoria contrattuale dei doveri e degli obblighi generali, come ad esempio ha fatto invece recentemente Thomas Scanlon in “What We Owe to Each Other” (1998). Perché molti dei doveri e degli obblighi che Locke riconosce non derivano dal consenso, ma dalle leggi di natura. La teoria lockeana dell’autorità politica legittima e degli obblighi nei suoi confronti, infatti, pur basandosi su di un accordo contrattuale intervenuto nel corso di un processo storico rettamente condotto, “storia ideale”, prende il via da una condizione di perfetta libertà ed eguaglianza, in cui tutti sono sovrani ed agiscono sia razionalmente, per promuovere i propri interessi legittimi, quanto ragionevolmente, cioè in accordo con i doveri e gli obblighi che essi hanno in base alla legge di natura.
Molto interessante, infine, è l’interpretazione di Rawls della teoria della proprietà lockeana, compatibile con libertà politiche diseguali e con uno stato di classe. Infatti, anche se la visione di Locke non richiede tale stato di classe, lo può però permettere. In quanto le persone che acconsentono al patto sociale, diversamente da quelle poste sotto il velo di ignoranza nella posizione originaria rawlsiana, sono a conoscenza dei propri interessi sociali ed economici particolari, così come del loro status sociale. I più sfortunati potrebbero quindi trovare vantaggioso accettare anche grandi disuguaglianze nella proprietà. Per Rawls la dottrina del contratto di Locke andrebbe quindi rielaborata, in modo da rendere più solide le libertà e l’eguaglianza di opportunità. Come ha fatto ad esempio Rousseau, la cui visione del ruolo e del significato dell’uguaglianza è ben più profonda di quella di Locke, e più vicina alla giustizia come equità di Rawls.
Tuttavia, prima di passare a Rousseau, Rawls si occupa di Hume in quanto esponente della tradizione utilitarista e in quanto critico del contrattualismo. La tradizione utilitarista si basa infatti su un’idea intuitiva ben diversa da quella di accordo implicata dalla tradizione del contratto sociale. Essa ha a che fare con l’idea di interesse generale, o di benessere generale della società, che prende le mosse dalla necessità di vincolare le scelte alla produzione del maggior bene sociale. L’autorità politica di un governo è fondata così sulla sua capacità di promuovere il benessere generale nel modo migliore e più efficace.
Hume, nella sua critica a Locke, non nega che il consenso sia “un giusto fondamento del governo”. Anzi, quando esso ha luogo è “certamente il migliore e il più sacro”. Ma poiché è raro che esso ne sia effettivamente il fondamento, non può esserne l’unico. Inoltre affinché esso sia vincolante devono verificarsi per Hume certe condizioni che di rado si verificano. Come una certa conoscenza della giustizia, e riguardo nei suoi confronti, che le persone di fatto non hanno, oppure che gli individui credano che il loro obbligo nei confronti del governo dipenda davvero dal loro consenso.
Per Hume, oltre ai doveri naturali, esistono infatti dei doveri “artificiali”, ossia razionali in quanto artificio della ragione, che presuppongono il riconoscimento degli interessi generali della società e dell’impossibilità di una vita sociale ordinata qualora tali doveri siano trascurati. Così i doveri artificiali di giustizia, fedeltà e lealtà sono spiegati e giustificati, per Hume, dalla nozione di utilità. Se trascurati infatti, la vita sociale ordinata sarebbe impossibile.
Hume considera perciò la dottrina del patto sociale, non solo implausibile e contraddittoria rispetto al senso comune, ma anche superficiale, in quanto non riesce a mostrare la base reale dell’obbligo politico, ossia l’utilità sociale.
Rawls è particolarmente attratto dalla teoria della diseguaglianza di Rousseau. In quanto critico della cultura e della civiltà, infatti, Rousseau è spinto dalla necessità di diagnosticare ciò che egli vede come i mali profondamente radicati nella società a lui contemporanea, e di cercare di descrivere la struttura fondamentale di un mondo politico e sociale libero da tali vizi. Nel Contratto sociale egli cerca così di stabilire il fondamento di un regime giusto e realizzabile, stabile e felice. Secondo Rousseau, infatti, l’uomo, naturalmente buono, diventa cattivo a causa delle istituzioni sociali. Ciò avviene soprattutto perché la facoltà naturale tipicamente umana dell’amour-propre, che sorge solo in società, può venire pervertita in modo innaturale. Nella sua forma naturale, infatti, essa rappresenta semplicemente il bisogno che ci spinge a ricercare una posizione sicura nelle relazioni con gli altri, implicando così il bisogno di essere accettati dagli altri come eguali. Ciò significa che sulla base dei nostri bisogni possiamo avanzare pretese accettate dagli altri come pretese che impongono limiti legittimi alla loro condotta. Al contrario un amour-propre innaturale o pervertito si rivela nel desiderio di essere superiori e di dominare gli altri, e di essere ammirati dagli altri facendo in modo che essi occupino posizioni inferiori alla nostra.
Rousseau crede tuttavia nella possibilità di istituzioni politiche giuste stabili e felici. Se infatti l’idea della bontà naturale è vera, l’ideale della cooperazione sociale è compatibile con la natura umana. Per Rawls inoltre, che considera quella di Rousseau un’utopia realistica, la formulazione degli equi termini della cooperazione sociale che, se realizzati, garantirebbero a ciascuno libertà morale, eguaglianza politica e indipendenza, determina l’implicita assunzione di un reciproco obbligo che vincolerebbe coloro che cooperano a promuovere i propri interessi fondamentali in condizioni di interdipendenza sociale con gli altri e in maniera mutuamente vantaggiosa. Rousseau infatti, dando per scontato che le persone non possano vivere senza società, assume anche che esse abbiano un’eguale capacità e volontà di essere libere, cioè un’eguale capacità di giudicare cosa promuova il proprio bene e un eguale desiderio di agire in base a tale giudizio. Infine, Rousseau assume anche che tutti abbiano sia un’eguale capacità di avere un senso di giustizia politico che un interesse ad agire di conseguenza, ossia la capacità di capire e applicare i principi del patto sociale. Ciascuno di essi, infatti, pur dipendendo dalla società politica nel suo insieme, nella società del patto sociale è un cittadino eguale non soggetto alla volontà arbitraria e all’autorità di nessuno. Esiste infatti un impegno pubblico a stabilire un’eguaglianza di condizioni fra i cittadini che assicuri quell’indipendenza personale richiesta dall’amour-propre naturale e legittimo.
Molto importante risulta, infine per Rawls, anche l’idea di Volontà generale, il cui contenuto specifica i principi e i valori politici e le condizioni che devono essere realizzate nella struttura fondamentale della società. Con essa infatti Rousseau sembra anticipare sia l’idea di Rawls della struttura fondamentale come l’oggetto primario della giustizia, sia quella di ragione pubblica, ossia quella di una forma di ragionamento appropriato a cittadini uguali intenti a deliberare sulle regole da imporsi reciprocamente. Nella visione di Rousseau infatti gli interessi particolari possono rappresentare degli ostacoli al voto coscienzioso, e impedirebbero così una visione ponderata del bene comune che soddisfi gli interessi fondamentali condivisibili da tutti i cittadini.
Dopo Rousseau, Rawls si occupa di Mill, da lui considerato un pensatore molto originale e profondo, la cui originalità fu però repressa dalla sua vocazione educativa e dal suo complicato rapporto psicologico col padre, che gli impedì di rompere apertamente con l’utilitarismo propugnato da questi e da Bentham. Mill si proponeva, infatti, di spiegare quelli che considerava i principi filosofici, morali e politici fondamentali adeguati alla società moderna. Società che Mill auspicava divenisse democratica, industriale e secolare. Egli sperava inoltre di formulare tali principi in modo tale che fossero intelligibili all’opinione illuminata di coloro che avevano influenza sulla vita politica e sociale, perciò scrisse in modo da non apparire eccessivamente originale o incomprensibile. Riteneva tuttavia che l’interpretazione benthamiana del principio di utilità fosse troppo ristretta per trattare le questioni politiche e sociali fondamentali dell’epoca. Tale principio, infatti, era basato semplicemente sul “principio delle conseguenze specifiche”, in base al quale, l’approvazione o disapprovazione di un atto scaturisce dal risultato del calcolo delle conseguenze prodotte dalla pratica generalizzata di tale azione. Mill si preoccupava invece di come organizzare istituzioni sociali in grado di guidare la condotta dei membri della società. I “principi del mondo moderno” di Mill, quindi, possono per Rawls essere pensati come principi della giustizia politica e sociale per la struttura fondamentale della società. Essi, infatti, nella visione di Mill, sono necessari per proteggere i diritti degli individui e delle minoranze dalla possibile oppressione delle moderne maggioranze democratiche. Ora, per Rawls, il contenuto sostanziale di questi principi è praticamente identico a quello dei due principi della sua giustizia come equità. Il problema quindi è quello di interpretare l’apparente visione utilitarista di Mill in modo che sia coerente con tali principi di giustizia politica e sociale. Nell’interpretazione di Rawls, Mill sembra adottare infatti un “criterio bipartito”. Nello specificare i diritti morali di giustizia derivati da questi principi, infatti, Mill non fa riferimento, come gli altri utilitaristi, al benessere sociale aggregato o all’idea della massimizzazione dell’utilità totale, ma fonda tali diritti sui bisogni e le necessità fondamentali degli individui. Nonostante ciò, tuttavia, egli afferma che l’unica ragione per cui tali diritti morali debbano essere tutelati giuridicamente sia l’utilità generale. Sul lungo periodo, infatti, far valere questi diritti uguali per tutti, massimizza l’utilità sociale, assicurando a tutti gli individui gli elementi essenziali al benessere umano su cui tali diritti si fondano.
Ciò tuttavia, a parere di Rawls, sembra lasciare aperto il problema di Hart, ossia di come mai Mill sia così sicuro che i suoi principi di giustizia, se realizzati nelle istituzioni fondamentali, sul lungo periodo massimizzerebbero l’utilità generale. Per rispondere a tale questione, secondo Rawls, bisogna comprendere il ruolo che la psicologia morale di Mill gioca all’interno della sua dottrina. La particolarità della visione di Mill infatti deriva dalla sua reinterpretazione dell’utilità nei termini degli interessi permanenti dell’uomo come essere progressivo. Egli fa affidamento su una concezione psicologica della natura umana che implica la possibilità di un miglioramento continuo e naturale della società umana, miglioramento che può essere raggiunto solo attraverso assetti sociali informati da quei principi di giustizia da lui individuati.
Dopo Mill, Rawls si occupa delle critiche di Marx al liberalismo, concentrandosi perlopiú su come le idee del giusto e della giustizia di Marx si applichino al problema della giustizia nel capitalismo, in quanto sistema sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Tuttavia Rawls si propone anche di rispondere a tali critiche. Così, se per Marx, alcuni diritti e libertà fondamentali esprimono e proteggono solamente l’egoismo reciproco dei cittadini di una società capitalistica, per Rawls in una democrazia proprietaria ben ordinata, questi diritti e queste libertà invece, esprimono e proteggono in maniera appropriata gli interessi primari di cittadini liberi ed uguali. Ed anche se la proprietà privata non è un diritto fondamentale, nelle attuali condizioni essa rimane tuttavia il modo più efficace per soddisfare i principi di giustizia. I diritti e le libertà politiche di un regime costituzionale non sono quindi, come sostiene Marx, meramente formali. Anzi, una delle caratteristiche egualitarie essenziali della giustizia come equità di Rawls è che solo attraverso l’equo valore delle libertà politiche può essere assicurata a tutti i cittadini una pari opportunità di esercitare influenza politica. Inoltre per Rawls, un tale regime costituzionale, in cui vige la proprietà privata, oltre ad assicurare le cosiddette libertà negative, grazie ad un’equa eguaglianza di opportunità e al principio di differenza, fornirebbe un’adeguata protezione anche alle libertà positive, rendendo possibile superare quelle caratteristiche più anguste e degradanti della divisione del lavoro nel regime capitalistico denunciate da Marx.
Nonostante ciò, il socialismo di Marx rimane per Rawls importantissimo. Il capitalismo del laissez-faire, infatti, ha una serie di ricadute negative, che dovrebbero essere riconosciute e riformate attraverso l’attuazione di un socialismo liberale.
Il tratto più interessante dell’interpretazione di Marx tuttavia, è che Rawls, sotto l’influenza di G.A. Cohen ed altri, intravede dietro alla sua critica del sistema capitalistico come sistema di sopraffazione e sfruttamento, un’idea implicita di giustizia, rappresentata da una società di lavoratori liberamente associati. Secondo l’interpretazione di Cohen infatti, fatta propria da Rawls, Marx sosterrebbe una concezione libertaria del tipo “Ciascuna persona ha la piena proprietà sulla propria persona e sui propri poteri; perciò ciascuna persona ha il diritto morale di fare di se stessa ciò che vuole, a patto che non violi i diritti di proprietà di sé di nessun altro” (pag. 392). A differenza del libertarismo di destra, però, come per esempio quello di Nozick, secondo cui le persone possono acquisire diritti egualmente forti su quantità diseguali di risorse naturali esterne, il libertarismo di Marx, analogamente a quello di sinistra di Hillel Steiner, è egualitarista rispetto alla distribuzione delle risorse esterne, e considera il monopolio capitalista dei mezzi di produzione una negazione dell’eguale diritto di ciascuno ad accedere alle risorse naturali esterne. Marx inoltre, secondo tale interpretazione, rifiuterebbe anche il principio di differenza rawlsiano, essendo il suo comunismo, sì un egualitarismo radicale, ma senza coercizione. L’eguale diritto di ciascuno all’uso delle risorse e alla partecipazione alla pianificazione democratica pubblica viene infatti rispettato nella misura in cui tale pianificazione è necessaria. Tuttavia, se in base a questa idea di giustizia la società comunista è certamente per Marx una società giusta, in un altro senso essa sembra essere però al di là della giustizia, in quanto realizza la giustizia senza affidarsi al senso del giusto o di giustizia delle persone. I membri della società comunista, infatti, non sono spinti ad agire a partire da principi di giustizia. Questo, per Rawls, solleva una questione molto profonda, in quanto istituzioni giuste dipendono in parte anche dal fatto che i cittadini abbiano un senso di giustizia appreso nell’ambito di quelle stesse istituzioni.
Il testo di Rawls si chiude con due appendici molto interessanti su Sidgwick e Butler. I metodi dell’etica (1874) di Sidgwick è infatti, per Rawls, la prima opera veramente accademica di filosofia morale in inglese, moderna sia per il metodo che per l’approccio. In essa il suo autore si prefigge di fornire uno studio comparativo sistematico delle idee morali, iniziando da quelle più influenti e significative. Inoltre Sidgwick, indicato da Rawls come l’ultimo e più completo e coerente esponente dell’utilitarismo classico, sembra uelle qqqq
consapevole delle tante difficoltà che la dottrina classica utilitarista deve affrontare, e tuttavia le affronta in maniera coerente senza mai allontanarsi dalla dottrina rigorosa. Ma l’aspetto più significativo della sua opera è, per Rawls, il fatto che essa non sia concepita per sostenere una teoria particolare, ma intende descrivere e valutare le varie dottrine da una posizione il più possibile neutrale ed imparziale. Pur assumendo, tuttavia, che vi sia in via di principio una risposta giusta e migliore su cosa sia moralmente giusto compiere, e che tale risposta sia la stessa per tutte le menti razionali. L’utilitarismo quindi, da questo punto di vista, soddisfa per Sidgwick i criteri di un metodo razionale molto meglio di qualunque altra teoria etica.
Riguardo a Butler, invece, Rawls sottolinea come questi, pur essendo un conservatore, un apologeta della morale e della fede cristiana ragionevole, fosse sempre disponibile ad assumere premesse condivise con i propri oppositori, e difendere la sua fede religiosa e morale su questa base comune. La sua concezione della natura umana, che si discosta soprattutto da Hobbes, in quanto attribuisce ad essa un principio di benevolenza e un sommo principio della coscienza che ci guida verso i valori morali e ci spinge ad agire in base ad essi, sembra colpire in particolar modo Rawls. Infatti, mentre Hobbes dipinge un quadro della natura umana tale per cui gli uomini sono inadatti alla società, per Butler la costituzione della natura umana è adatta alla virtù, la quale a sua volta è costituita da quei comportamenti che rendono gli uomini adatti alla vita quotidiana come membri ragionevoli della società, mettendoli in grado di agire in accordo con le giuste richieste del bene della comunità e del nostro bene privato. La nozione di natura umana di Butler, che costituisce il fulcro della sua dottrina morale, consta di tre parti organizzate gerarchicamente su tre livelli e governate da un principio regolativo supremo: il principio di riflessione o coscienza.
L’autorevolezza dei pronunciamenti della coscienza deriva dal loro essere uguali per qualunque persona normale equanime, imparziale e capace di considerare le questioni a mente fredda. Su tale presupposto si fonda, ad esempio, il paradosso dell’egoismo secondo cui la continua preoccupazione per i nostri interessi può essere rovinosa per la nostra stessa felicità.
L’interpretazione di Butler dimostra così il ruolo centrale dell’idea di “psicologia morale ragionevol” all’interno della concezione rawlsiana della filosofia politica e morale. Una delle idee principali che stanno dietro l’opera di Rawls infatti è che la giustizia e la morale non siano contrarie alla natura umana, anzi, possono essere essenziali al bene umano.
Come già detto, quindi, l’aspetto più interessate delle lezioni di filosofia politica di Rawls, risiede proprio nella possibilità che esse ci offrono, di approfondire e capire meglio le idee e i concetti che fanno da sfondo al grandioso progetto teorico di quello che da molti è considerato il più grande filosofo politico contemporaneo. Queste lezioni, infatti, oltre a chiarire l’origine storica delle idee fondamentali contenute nelle sue opere principali, gettano una luce su molte delle sue concezioni epistemologiche e normative più innovative, scaturite proprio a partire dalla rielaborazione di tali idee. Esse permettono così di avere una visione più nitida e articolata di tutta la complessa costruzione rawlsiana, ponendosi in questo modo come uno strumento indispensabile, non solo per chiunque voglia approfondire lo studio della storia della filosofia politica, ma anche per chi voglia avere un quadro più ampio e completo sulla genesi dei più recenti e importanti sviluppi del pensiero politico contemporaneo.

Indice

Nota all’edizione italiana, di Salvatore Veca
Prefazione del curatore, di Samuel Freeman
INTRODUZIONE: OSSERVAZIONI SULLA FILOSOFIA POLITICA
(1.Quattro domande sulla filosofia politica – 2.I quattro ruoli della filosofia politica – 3.Le idee principali del liberalismo: le sue origini e il suo contenuto – 4.Una tesi centrale del liberalismo – 5.Situazioni iniziali)
HOBBES
La morale secolare di Hobbes e il ruolo del suo contratto sociale
La natura umana e lo stato di natura
La teoria del ragionamento pratico di Hobbes
Il ruolo e i poteri del sovrano
LOCKE
La sua dottrina del diritto naturale
La sua teoria del regime legittimo
La proprietà e lo stato di classe
HUME
“Del contratto originale”
L’utilità, la giustizia, e l’osservatore giudizioso
ROUSSEAU
Il contratto sociale: il suo problema
Il patto sociale: i suoi presupposti e la volontà generale (I)
La volontà generale (II) e la questione della stabilità
MILL
La sua concezione dell’utilità
La sua teoria della giustizia
Il principio di libertà
La sua dottrina nel suo insieme
MARX
La sua idea del capitalismo come sistema sociale
La sua concezione del giusto e della giustizia
Il suo ideale: una società di produttori liberamente associati
Appendici
QUATTRO LEZIONI SU HENRY SIDGWICK
I Metodi dell’etica di Sidgwick
Sidgwick sulla giustizia e sul principio di utilità classico
L’utilitarismo di Sidgwick
Riassunto dell’utilitarismo
CINQUE LEZIONI SU JOSEPH BUTLER
La costituzione morale della natura umana
La natura e l’autorità della coscienza
L’economia delle passioni
L’argomentazione di Butler contro l’egoismo
Presunti conflitti tra coscienza e amor proprio
Schema del corso
Indice analitico


L'autore

Jonh Rawls (1921-2002) ha insegnato ad Harvard dal 1961 al 1991. È stato il maggior filosofo politico americano del ventesimo secolo. Teorico della giustizia sociale, la sua opera è considerata una pietra miliare del pensiero politico. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Una teoria della giustizia (1982- ed. rivista 2008), Liberalismo politico (1994), La giustizia come equità. Saggi 1951-1961 (1995), Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico (2001), Il diritto dei popoli (2001), Giustizia come equità. Una riformulazione (2002), Lezioni di storia della filosofia morale (2004).
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