Recensione di Angelo Bottone - 10/01/2010
Ermeneutica
Il volume di Davide Saraniti è composto di quattro capitoli, i primi due dedicati a Benjamin ed gli altri a Derrida. Non intende essere uno studio sistematico comparato ed infatti solo alla fine l’autore cerca di mettere a confronto i due pensatori. Ciò non toglie che nel corso della lettura emergano gli aspetti condivisi da questi due filosofi, in particolare le questioni della iterabilità e della contaminazione. Sin dall’inizio l’autore specifica che bisogna intendere la traduzione non solo come un passaggio fra le lingue ma soprattutto come l’evento che costituisce ogni nostra esperienza in quanto tradurre significa fare la prova delle differenze, ovunque queste si trovino. Benjamin e Derrida vengono presentati non solo per quanto sostengono a proposito della traduzione ma perché la loro stessa opera è una traduzione, un esercizio in atto. I capitoli I e II analizzano il pensiero di Benjamin sulla traduzione a partire da due scritti giovanili sul linguaggio per poi esaminare la sua produzione più matura. Il capitolo III discute la decostruzione come traduzione, affidandosi alle letture derridiane dei testi di Benjamin. Il capitolo IV è dedicato al messianismo e ad un confronto fra i due filosofi proprio a partire da questa problematica.
Benjamin critica l’idea che il ruolo della traduzione sia quello di restituire il senso originario. Saraniti si concentra su due suoi scritti giovanili: Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916), che tratta della traduzione prima del peccato originale, e Il compito del traduttore, iniziato nel 1921, che considera la traduzione dopo la caduta di Adamo. La teoria della lingua benjaminiana è dominata da una dimensione teologica: egli stabilisce una vera e propria gerarchia linguistica che ha al suo primo posto “il verbo divino, che è creatore; al secondo la lingua pura, perfettamente conoscente ma non creatrice; al terzo la lingua delle cose, che intrattiene una peculiare relazione con quella pura dell’uomo – costituendo, per così dire, la base sulla quale avviene la denominazione. Infine, scopriremo che tutte le possibili lingue sono unite da un quasi invisibile filo che la parola divina ha intessuto, e proprio questo ci darà modo di comprendere il ruolo e il senso della traduzione” (pp. 21-22). Compito della traduzione non è la riproduzione di qualche contenuto serbato nell’originale ma trasportare un livello inferiore di lingua in uno più perfetto. Passare la lingua delle cose in quella del nome. Con il peccato originale, però, l’uomo ha rinunciato alla lingua perfetta e così le molteplici lingue umane hanno intaccato la purezza del nome. La pluralità delle lingue nasce non da Babele ma dalla caduta di Adamo. Ciò comporta che la lingua sia diventata un mezzo, una mediazione; e inoltre il peccato originale ha fatto sorgere il giudizio, ossia l’operazione con la quale si tenta inutilmente di ripristinare l’antica immediatezza del nome, e l’astrazione, ossia la capacità di isolare, di separare. Il triplice effetto differenziante del peccato sulla lingua ne ha intaccato l’originaria purezza; il nome non può più dare voce alle cose ma solo proferire parole imperfette, appartenenti ad una delle ‘cento lingue dell’uomo’. Qual è allora il compito del traduttore? Elevare uno stadio inferiore di linguaggio: analizzando il saggio omonimo Saraniti sottolinea che la traduzione permette la sopravvivenza dei testi e mostra il nesso che accomuna le lingue, insomma è un passo verso la loro integrazione che non si realizza istantaneamente ma attraverso una pratica.
Rispetto al saggio del 1916, ne Il compito del traduttore la confusione babelica delle lingue viene assunta in una prospettiva messianica: la lingua pura non è quella originaria paradisiaca, impossibile da ricostruire effettivamente, ma quella che deve ancora essere realizzata. La traduzione continua a rappresentare la possibilità di innalzare la lingua ad uno stadio più perfetto ma ciò avviene mondanamente. C’è una sola lingua pura ma in “due stadi differenti che corrispondono alle possibilità linguistiche dell’uomo prima e dopo la caduta dal paradiso: prima, la lingua pura era traduzione della lingua delle cose in quella del nome; dopo, diviene qualcosa che si sottrae all’interno della storia e a cui è possibile tendere solamente attraverso la pratica della traduzione” (p. 40). Rimescolando i termini di un antico dibattito, Benjamin sostiene che la traduzione libera è quella che si libera dal senso per essere fedele alla letteralità e quindi al nome. La traduzione ideale allora è quella interlineare, tipica dei testi sacri, dove non il senso o la proposizione ma il nome assume la massima dignità. Il testo si sdoppia in una gerarchia di livelli e la nuova versione non si sovrappone alla originale oscurandola; questa emancipazione dal senso è presente ovunque ma si mostra in maniera completa solo nel testo sacro.
Nel secondo capitolo Saraniti mostra le differenti forme della ripetizione (traduzione, citazione, allegoria) nelle opere di Benjamin. Dio attraverso la parola ha creato il mondo mentre l’uomo, nominando, può solo evocare le cose ma non può dar loro vita; egli ripete il nome che Dio ha dato alle cose, ridestando il potenziale in esse racchiuso. Questo ripetere acquista forme diverse. Una già analizzata è quella della traduzione, una seconda forma è quella della citazione. La citazione è un’astrazione, ossia una separazione dal contesto di origine; questa facoltà sorge come conseguenza del peccato originale sulla lingua, che ne ha intaccato la purezza. La citazione è una forma della ripetizione e, come la traduzione, non è mera copia ma fa sopravvivere il testo e riconduce alla lingua pura. Essa però è anche distruzione, violenza, separazione ed in quanto tale ha un valore rivoluzionario: dissesta tanto l’ordine politico imposto dai potenti che l’ordine letterario imposto dal testo originale. L’allegoria, che qui viene analizzata a partire da Il dramma barocco tedesco (1925), non è un mero elemento di stile ma ha una sua funzione precipua: vivendo di astrazioni essa consuma la significazione fino a distruggerla. Da questa implosione sorge però anche la via della redenzione. L’allegoria, come la traduzione e la citazione, ripetendo trasforma, decontestualizza, va oltre la semplice comunicazione strumentale. Però, mentre l’allegoria conduce all’emancipazione dal senso attraverso la moltiplicazione dei significati, la traduzione opera nella stessa direzione moltiplicando i significanti. L’allegoria disperde i molti sensi possibili mentre la traduzione fa convergere i modi di intendere delle varie lingue (verso la lingua pura e lontano dal senso originario). L’ultima sezione del secondo capitolo è dedicata allo scritto del 1935 L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità della tecnica. La dimensione estetica in Benjamin illumina il ruolo ed il senso del compito del traduttore. L’opera d’arte contemporanea è emancipata da una sua funzionalità e, come la traduzione, dal suo senso originario. La sua riproducibilità ne permette la sopravvivenza ma allo stesso tempo questa moltiplicazione di copie trasforma il senso dell’originale. Ritroviamo in queste riflessioni, così come in quelle riservate al fenomeno del collezionismo, le stesse dinamiche di ripetizione, deconstestualizzazione, separazione già osservate in precedenza.
Nel terzo capitolo di Messianismo e traduzione, che è anche il più ampio e denso, l’autore presenta il pensiero di Jacques Derrida facendo inizialmente riferimento a due sue opere, Des tours de Babel e Forza di legge, nelle quali vengono discussi due saggi di Benjamin (Il compito del traduttore e Per la critica della violenza) e poi agli altri scritti nei quali viene tematizzato il problema della traduzione. La tesi principale di Saraniti è che la traduzione sia solo un altro nome per la decostruzione ed egli cerca di dimostrarla trattando alcuni temi classici della ricca e complessa produzione derridiana. Il filosofo francese rilegge l’episodio biblico di Babele alla luce della categoria di incompiutezza giungendo alle seguenti considerazioni: la traduzione è un’impresa impossibile ma necessaria; essa è una questione di debito, un compito che Dio ha fatto ricadere sull’uomo ma allo stesso tempo un dovere impossibile da assolvere. Inoltre, la difficoltà maggiore sta nel tradurre il nome proprio (come ad esempio Babele che significa sia ‘confusione’ che ‘Dio-Padre’) ma è una difficoltà legata alla lingua stessa. Infine, la traduzione possiede una valenza politica perché ha a che fare con la violenza ma anche con il dono e la promessa, con l’altro in generale. Nel saggio Che cos’è una traduzione rilevante? (1998), secondo Saraniti, si possono scorgere le affinità tra decostruzione e traduzione. Parte di questo saggio è dedicata al commento de Il mercante di Venezia di Shakespeare, che Saraniti propone di leggere come una scena di traduzioni poiché vi troviamo un impegno insostenibile, così come il tema dell’economia e del calcolo e quello di una conversione impossibile tra lettera e segno. Il termine ‘rilevante’, chiave nel pensiero di Derrida, qui si riferisce a quella che potremmo sommariamente indicare come una dialettica hegeliana non riconciliata e non riconciliabile. La traduzione rilevante costituisce il limite del compito del traduttore; in quanto tale non potrà mai essere realizzata poiché la parola vorrebbe ma non riesce a conservare l’insieme dei rimandi possibili da una lingua all’altra, non è possibile restituire immediatamente lo stesso effetto. “Una traduzione che aspiri ad essere rilevante dovrà dunque accogliere questa sfida, dovrà riuscire a contenere al suo interno il maggior numero di rinvii possibile, frutto di altre traduzioni precedenti e future, perfino in altre lingue. Grazie alla traduzione, si mostra come in una sola lingua vi sia già sempre una molteplicità di lingue, anzi ‘più di una parola in una parola’ ” (pp. 132-133).
Nel resto del capitolo Saraniti ripercorre alcune figure presenti nelle opere di Derrida (il fuoco, la cenere, il dono, la moneta falsa, il sacrificio di Isacco, lo spettro), ognuna delle quali è in qualche modo cifra della decostruzione, mostrando come alcune loro caratteristiche siano anche al cuore della traduzione. Ad esempio se, seguendo Benjamin, evitiamo di intendere la traduzione come restituzione nei termini di un contenuto di senso, questa può essere ripensata attraverso la figura del dono e quindi considerata né come pura perdita né come scambio economico. Un’ulteriore somiglianza tra l’analisi derridiana e quella benjaminiana sta nella affinità dei concetti di iterabilità e citazionalità. Ciò che caratterizza la scrittura non è la comprensione o la trasmissione di un messaggio ma la riproducibilità dell’atto di iscrizione. Questa iterabilità rappresenta una esplicita emancipazione dalla restituzione del senso e, nella misura in cui avviene in contesti sempre nuovi, viene anche a mancare un referente preciso, immobile. Le analogie con le riflessioni di Benjamin sulla traduzione sono evidenti. “Per il filosofo tedesco l’idea della traduzione corrispondeva alla citazione, una ripetizione completamente de-contestualizzante, un’astrazione priva di reinserimento. Derrida, invece, pur proponendo una teoria della traduzione davvero molto simile a quella benjaminiana e incentrata sulla questione dell’iterabilità, ritiene impossibile effettuare una citazione pura, integralmente fuori-contesto, dal momento che un sintagma si trova costretto ad essere pur sempre re-innestato in una nuova catena.” (p. 151) Riflettendo poi sul paradosso del monolinguismo, ossia sul fatto che non si parla mai una sola lingua ma è anche vero che non si parla che una sola lingua, Derrida sottolinea come anche ciò che riteniamo più originario, la nostra ‘lingua madre’, è sempre derivato, straniero, alieno. Perciò traduciamo in ogni momento, non tra lingue diverse ma all’interno di ogni lingua, in ogni atto linguistico. Siamo condannati a tradurre, sapendo allo stesso tempo quanto sia impossibile. I limiti e l’imperfezione che sperimentiamo nel tradurre sono i limiti stessi del linguaggio.
Il capitolo finale del lavoro di Saraniti è dedicato al messianismo e vi si sottolinea la matrice ebraica dei due pensatori in questione, con riferimenti a Scholem e alla tradizione rabbinica. “Il mondo messianico professato nei detti rabbinici non descriverebbe nient’altro che la lingua pura, la lingua che Benjamin pone come compito del traduttore, la lingua in cui il senso viene meno, poiché in virtù della sua perfetta unità non vuol-dire più qualcosa” (p. 170). La traduzione è un processo mai completamente realizzato nella storia, come hanno mostrato le diverse forme della ripetizione analizzate nei capitoli precedenti. Similmente, la redenzione avverrà non nella storia ma alla fine di questa, nel senso che il messia non comparirà al compimento di uno sviluppo ma troncherà la serie degli avvenimenti. La lingua pura, evento irraggiungibile nella storia, obbliga il traduttore al difficile compito di purificare tutte le lingue, contaminate dopo Babele. Lingua pura e decostruzione non arrivano mai a destinazione, non c’è alcuna riappropriazione rinviata ad un tempo futuro ma sono entrambi obblighi tanto irrealizzabili quanto inevitabili. C’è da precisare però che per Derrida ogni messianismo religioso tende a predeterminare l’avvenire mentre nella decostruzione non c’è spazio per alcuna teleologia. “Se vi è dunque qualcosa come l’avvenire, per la decostruzione esso assume i tratti di un’evenemenzialità inesauribile ed irriducibile ad ogni pre-figurazione. La dimensione messianica della traduzione-decostruzione non è altro che questa tensione per un’indeterminatezza impossibile da consumare” (p. 179).
Nelle ultime sezioni del libro Benjamin e Derrida vengono messi dettagliatamente a confronto, sottolineando le loro innegabili affinità. Per entrambi la traduzione è un processo de-contestualizzante, fondato su un principio di iterabilità: ripetere lo stesso, altrimenti e altrove. Questo processo muta sia il contesto di partenza che quello di arrivo ma muta anche ciò che viene trasportato e chi trasporta. All’origine c’è la contaminazione: la différance derridiana e l’impurità benjaminiana: se però in Benjamin la traduzione è un processo di purificazione, che ha come orizzonte impossibile la lingua pura, in Derrida non pare esserci questa esigenza. Il suo è un messianismo non ricompositivo ma decostruttivo. Come uno spettro, l’alterità rimane inafferrabile; l’irriducibilità dell’estraneo salva l’ospitalità da ogni tentazione di violenza. Tradurre non è conquistare ma accogliere.
Il libro di Saraniti ha il pregio di mostrare che la traduzione è un problema non solo linguistico o estetico ma anche etico e teologico e da questo punto di vista può essere accostato a lavori simili di ‘filosofia della traduzione’ prodotti ad esempio da Paul Ricoeur o Domenico Jervolino. Tradurre è infatti più che tradurre. Pensare la traduzione, potremmo dire, significa ripensare le categorie classiche della filosofia occidentale: identità, cambiamento, molteplicità. Nel trattare due autori peraltro complessi e di difficile lettura, Saraniti mostra una notevole capacità di sintesi e di confronto. Una esaustiva esposizione del loro pensiero avrebbe richiesto un lavoro a parte eppure, pur concentrandosi sui due temi della traduzione e del messianismo, l’autore tocca il cuore della riflessione benjaminiana e derridiana. Egli mostra una ragguardevole abilità, ancor più encomiabile se si considera la sua giovane età, nel misurarsi con l’ampia letteratura secondaria riguardante i due grandi filosofi. La scrittura è chiara e scorrevole, la divisione in capitoli del testo è ben bilanciata, le tesi interpretative vengono adeguatamente supportate da riferimenti testuali e di critica. Manca purtroppo l’indice dei nomi mentre la numerazione delle note all’interno del testo non sempre corrisponde con quella alla fine. (Derrida avrebbe sicuramente colto lo spunto per una riflessione sulla différance).
Indice
Introduzione
Benjamin e lo spazio della traduzione. Dalla lingua in generale al compito del traduttore
Forme della ripetizione. Traduzione, citazione, allegoria.
Derrida e il debito del traduttore. Decostruire e ripensare la traduzione.
Messianismo e messianismo deserto
Note
Bibliografia
L'autore
Davide Saraniti è nato a Torino nel 1982. Nel febbraio 2008 ha conseguito la laurea specialistica in Filosofia e Storia delle Idee presso l’Università degli Studi di Torino. Attualmente è dottorando presso l’Università di Trieste.
Link
http://philosophyoftranslation.blogspot.com
Blog dedicato alla filosofia della traduzione
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