mercoledì 17 marzo 2010

Lantella, Lelio – Caterina, Raffaele, Se x allora y.

Torino, Giappichelli, 2009, pp. 246+126, € 21,50+11,50, ISBN ISBN: 883489619X e 8834884914

Nota di Edoardo Colzani - 17/03/2010

Filosofia del linguaggio

Introduzione: seguire regole.

Nelle Ricerche Filosofiche, Wittgenstein scrive che il seguire una regola è una pratica, un uso, un'abitudine, intellegibile solo sullo sfondo del modo di comportarsi comune agli uomini: non si può seguire una regola 'privatim'- scrive Wittgenstein- altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, [1953] trad. it. Torino, Einaudi 1967, § 202).
In primo luogo, sostiene Wittgenstein, non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta nella sua vita (§ 199: seguire una regola, al pari di fare una comunicazione o di dare un ordine è una abitudine).
In secondo luogo, occorre che le regole siano proiettate in un contesto sociale: deve essere possibile, almeno in linea di principio, che altre persone siano in grado di afferrare le regole che ogni individuo segue e valutare se esse siano o meno seguite correttamente. La distinzione tra il seguire una regola e il credere di seguire una regola è centrale nell'opera di Wittgenstein: secondo il filosofo, il semplice fatto che le azioni di un uomo potrebbero essere interpretate come applicazione di una data regola non garantisce affatto che egli stia realmente applicando quella regola. Secondo Wittgenstein, seguire una regola presuppone un addestramento, attraverso il quale ciascuno impara ad applicare con naturalezza le regole. Tale naturalezza, come notato da Peter Winch in Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, deve essere non soltanto una caratteristica delle persone il cui comportamento si pretende di sussumere sotto la regola, ma anche di chi intende comprendere il comportamento di tali persone; muovendo da tale considerazione, Winch evidenzia come la nozione di seguire una regola sia logicamente inseparabile dalla nozione di fare un errore: infatti, チgse ha senso dire che una certa persona sta seguendo una regola, questo significa che si può anche chiedere se ciò che sta facendo lo sta facendo correttamente o menoチh (P. Winch, Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia [1958], trad. it. Milano, Il Saggiatore 1972, p. 45). .
Secondo Wittgenstein, per capire cosa significa seguire una regola è necessario affrontare il problema della natura del linguaggio. Il linguaggio è, secondo Wittgenstein, un fenomeno governato da regole: inoltre, poiché il linguaggio è un fenomeno pubblico e costituito dall'accordo dei parlanti sull'uso dei segni, non è affatto possibile seguire una regola privatim.

Il contributo di Lelio Lantella e Raffaele Caterina: Se X allora Y.
Le riflessioni di Wittgenstein, ora succintamente esposte, mi permettono di inquadrare meglio i contenuti del contributo in due volumi Se X allora Y, curato da Lelio Lantella e Raffaele Caterina, di cui intendo discutere le tesi filosoficamente pù rilevanti.
Si tratta di un manuale destinato a studenti di Giurisprudenza, che si propone di offrire le competenze e le metodologie per il lavoro di interpretazione: di qui la scelta degli autori di occuparsi principalmente della チgregolaチh, nella sua duplice accezione di strumento per conoscere la realtà e di strumento per modificare la realtà.
Al di là della struttura manualistica, il volume solleva problemi relativi a temi di interesse per la filosofia analitica, in particolare per quel che riguarda la concezione dei rapporti tra regole e linguaggio.
Di seguito, dunque, esporrò i contenuti del manuale, per poi discuterne le tesi filosoficamente più rilevanti.
L'opera si articola in due volumi: il primo, di carattere teorico, è sottotitolato L'universo della regola, il secondo, di taglio applicativo, è sottotitolato Lavorare con le regole.
Il primo volume si propone di caratterizzare il concetto di チgregolaチh: secondo gli autori, la regola è il rapporto di condizionamento tra due fatti; più specificamente la regola è l'informazione enunciabile con una struttura チgse X allora Yチh. Il concetto di チgregolaチh, dunque, viene definito a partire da oggetto e modalità della regola.
La regola è, secondo gli autori, un'informazione strutturata in due parti, le premesse e le conclusioni, tra loro in un rapporto di condizionamento. La premessa è una proposizione di tipo descrittivo, introdotta da un marcatore di premessa (se) e collegata alla conclusione da un marcatore di conclusione (allora); la conclusione è una proposizione che può avere natura sia descrittiva sia direttiva. Il rapporto di condizionamento tra premesse e conclusioni può essere esplicitato per ogni regola attraverso la enunciazione condizionale チgSe X allora Yチh, che costituirebbe la modalità canonica della regola. Tale modalità assicura, secondo gli autori, maggiore trasparenza nella produzione e nella comprensione delle regole, proprio perché, evidenziando le premesse e le conclusioni, consente di percepire il differente modo di relazionarsi tra i fatti collocati entro le regole: tale modo di relazionarsi può infatti essere differente e incidere così sul modo di essere delle regole stesse. In particolare, secondo gli autori, è possibile individuare almeno di 5 tipi di regole: descrittive, espressive, commissive, direttive e costitutive. Tra queste cinque, secondo gli autori, le più rilevanti sarebbero le regole descrittive e le regole direttive.
Il secondo volume contiene una serie di applicazioni pratiche delle teorie esposte nel primo volume: gli autori mettono alla prova le loro teorie, analizzando alcune regole e in particolare alcuni enunciati normativi particolarmente complessi. Mi pare interessante, in particolare, riportare in forma sintetica il caso pratico riguardante la valutazione delle offerte anomale di cui all'art. 86 del d.lgs. 163/2006. Gli autori limitano l'analisi al primo comma della disposizione normativa:
Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media.
La norma in esame, secondo gli autori, presenta una sintassi complessiva che appare linguisticamente contorta e, di riflesso, comunicativamente faticosa. Per renderla più intellegibile, è opportuno secondo gli autori pervenire a una riformulazione della norma mediante la traduzione in modalità canonica. In primo luogo occorre definire la fattispecie チgofferta anomalaチh: se 1) un'offerta ammessa alla gara presenta un ribasso pari o superiore alla media dei soli ribassi che superano la media di tutti i ribassi; 2) le due medie sono calcolate escludendo, dall'elenco delle offerte ammesse, tante offerte, a partire da quella di minore ribasso, quante corrispondono al 10% del totale; 3) le due medie son o calcolate escludendo altresì, dall'elenco delle offerte ammesse, tante offerte, a partire da quella di minore ribasso, quante corrispondono al 10% del totale, allora l'offerta è anomala.
In secondo luogo, occorre istituire la disciplina facendo sorgere, per il caso di offerta anomala, il dovere di valutarne la congruità: se un'offerta è anomala, allora deve effettuarsi la valutazione di congruità.

Diritto, lingua, linguaggio.
Dopo aver presentato i contenuti del manuale, intendo discuterne alcune tesi, talune delle quali solamente accennate ma che, a mio avviso, meritano di essere approfondite.
Intendo in primo luogo evidenziare la concezione circa i rapporti tra diritto, lingua, e linguaggio che mi pare essere sottesa al libro.
A questo proposito, vale la pena ricordare la definizione proposta dagli autori della regola come informazione su un rapporto di condizionamento tra due fatti.
In quanto informazione, la regola generalmente implica un messaggio; tuttavia, sostengono gli autori, in taluni casi è possibile ricavare un'informazione senza che il messaggio venga comunicato, come nel caso di un soggetto che viene a conoscenza di un informazione semplicemente perchè vede qualcosa con i suoi occhi.
Alcune informazioni dunque possono venire trasmesse attraverso la parola, ma talora la verbalizzazione è un aspetto meramente eventuale.
Gli autori distinguono così tra regole verbalizzate e regole non verbalizzate: le regole verbalizzate sono espresse in forma orale oppure in forma scritta, mentre le regole non verbalizzate non sono espresse né in forma orale né in forma scritta. Il riferimento implicito è alle tesi di Rodolfo Sacco, il quale, come noto, ha introdotto il concetto di チgdiritto mutoチh, ossia un diritto non creato mediante la parola e non necessariamente formulato mediante la parola (cfr. R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo a una macrostoria del diritto, il Mulino, Bologna 2007) . La distinzione, dunque, cui alludono gli autori è una distinzione sul piano della lingua: in questo senso l'espressione チgregole verbalizzateチh (dal latino verba) va intesa come riferita a quelle regole formulate attraverso la lingua, ossia attraverso un linguaggio verbale; al contrario le regole non verbalizzate sono quelle regole che sono formalizzate attraverso un linguaggio non verbale. In ogni caso, sembrerebbe pacifico che le regole non possano prescindere dall'esistenza di un linguaggio: tale tesi, peraltro, mi sembra rintracciabile anche in Sacco laddove questi ammette che le culture dell'uomo ancora privo di linguaggio articolato conformarono relazioni giuridiche senza ricorrere alla parola, ma semplicemente dando esecuzione alla relazione giuridica che intendevano eseguire.
Meno convincente mi sembra però il tentativo di illustrare il funzionamento delle regole non verbalizzate attraverso il paragone tra l'esperienza linguistica e l'esperienza giuridica: secondo gli autori, cioè, in entrambi i casi sarebbe possibile applicare delle regole direttive sia pur in modo inconsapevole. A sostegno di tale tesi, gli autori citano il caso dell'analfabeta, o del bambino in età prescolare, che parlano, dando corretta applicazione a regole linguistiche che certamente non saprebbero formulare. Con riguardo all'ambito giuridico, gli autori citano il caso dei consociati che applicano regole giuridiche che non saprebbero formulare compiutamente con parole.
Il paragone tra esperienza giuridica ed esperienza linguistica non è affatto nuovo e si inserisce all'interno di una serie di studi, la cui più esplicita formulazione risale alla Scuola Storica del diritto e in particolare a Friedrich Carl von Savigny (cfr. F. v. Savigny, Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza [1814], trad. it. Napoli, Esi 1982).
La Scuola Storica, e in particolar modo Savigny, concepiva sia il diritto (in particolare il riferimento è al diritto consuetudinario) sia la lingua come formazioni autoctone e spontanee, la cui origine consuetudinaria risiedeva nella comune coscienza del popolo. Lingua e diritto, secondo la scuola storica, sarebbero accomunati da una prima fase di formazione spontanea, cui seguirebbe una seconda fase di elaborazione teoretica, ad opera rispettivamente dei grammatici e dei giuristi. Le regole linguistiche, dunque, al pari delle regole giuridiche si svilupperebbero spontaneamente e la loro verbalizzazione sarebbe successiva e comunque solo eventuale.
Così inquadrata, la tesi degli autori può essere a mio avviso accolta se, ancora una volta, intesa come possibilità di formulare regole senza utilizzare un linguaggio verbale: in questo senso, verrebbe ribadita l'esistenza di fonti del diritto mute all'interno dell'ordinamento giuridico.
Secondo gli autori, in sostanza, la verbalizzazione della regola sarebbe meramente eventuale: richiamandosi alle riflessioni degli ultimi decenni sulla conoscenza tacita, gli autori sostengono che si possa conoscere qualcosa senza essere in grado di verbalizzarlo, e persino senza essere pienamente consapevoli di conoscerlo. Occorre a mio avviso distinguere le due questioni.
Da un lato, infatti, si potrebbe anche ammettere che si possa seguire una regola senza essere in grado di fornire una formulazione della medesima: tale tesi, ad esempio, è stata sostenuta da Peter Winch allorché questi sostiene che チgper controllare se le azioni di un uomo costituiscono l'applicazione di una regola, non bisogna considerare se egli sia in grado di formularla, ma piuttosto se abbia senso distinguere un modo giusto o sbagliato di fare le cose che egli sta facendoチh (Winch, Il concetto di scienza sociale..., cit., p. 75).
Dall'altro lato, una consapevolezza della regola, sia pur minima, non può in ogni caso mancare. La necessità di una tale consapevolezza è sostenuta anche da Winch allorché afferma che imparare a fare qualcosa non significa semplicemente copiare ciò che qualcun altro fa.
A tal proposito, è mio avviso opportuno distinguere il seguire una regola dal seguire una regolarità: il tratto distintivo è dato proprio dalla differente consapevolezza del comportamento che si sta tenendo. Nel caso della regolarità chi tiene un dato comportamento, lo fa semplicemente per mera ripetizione di comportamenti che vengono tenuti generalmente da altri soggetti: talora seguire una regolarità può coincidere col seguire una regola, ma non sempre è così.
Al contrario il seguire una regola comporta, a mio avviso, una consapevolezza di ciò che si sta facendo e una minima conoscenza del contenuto di tale regola.
Si consideri, a titolo esemplificativo, il caso di un marziano che osservi il comportamento degli automobilisti nel pieno centro di Napoli: dalla mera osservazione di tale comportamento egli potrebbe ricavare una mera regolarità (gli automobilisti passano col semaforo rosso), ma tale regolarità non necessariamente coincide con una regola (per la quale gli automobilisti dovrebbero arrestare il veicolo quando il semaforo è rosso).
Fatta questa premessa sui rapporti tra diritto, lingua e linguaggio, intendo vagliare criticamente la tesi della riducibilità di tutte le regole, e in particolare delle regole giuridiche, alla forma canonica Se X allora Y.
Gli autori rivendicano quale merito del loro contributo proprio l'aver individuato una forma canonica che accomuni sia le regole giuridiche sia le regole cosiddette descrittive. Tale questione richiede preliminarmente di chiarire cosa gli autori intendano per regole descrittive.
A tal proposito, ritengo opportuno riportare e discutere la definizione di regola descrittiva fornita dagli autori.
Gli autori definiscono la regola descrittiva come una regola che consente di effettuare una rappresentazione suscettibile di giudizio aletico: tale regola fornisce informazioni circa il rapporto di condizionamento tra due fatti dei quali si può predicare dunque la verità o la falsità. Detti fatti, peraltro, sono tra loro legati da un nesso di causalità. In ambito analitico, in genere, si è soliti distinguere tra enunciati descrittivi ed enunciati normativi, chiamando regole solo i secondi: gli autori sembrano essere consapevoli di ciò, tuttavia individuano almeno due ragioni per cui abbia senso parlare di regole descrittive. In primo luogo, l'uso linguistico più recente tende ormai a porre sullo stesso piano l'accezione descrittiva e quella direttiva, tanto che in alcuni dizionari la regola viene addirittura definita come チgmodo costante di svolgimento che si riscontra in una data serie di fattiチh. In secondo luogo, considerando sia l'aspetto descrittivo sia l'aspetto direttivo, è possibile giungere a un modello generale, corrispondente appunto alla struttura チgSe X allora Yチh: mediante tale forma canonica della regola sarebbe così possibile, secondo gli autori, sostenere la priorità della dimensione descrittiva in teoria generale del diritto. Secondo gli autori, anteponendo l'analisi della regola in senso descrittivo, è possibile valorizzare il modello dei rapporti causali che sarebbe di sicura utilità per la comprensione delle regole prescrittive: il modello causa di stampo descrittivo sarebbe, secondo gli autori, alla base della formulazione, dell'interpretazione e dell'applicazione degli artefatti direttivi in genere.
Tale tesi solleva a mio avviso almeno due ordini di problemi.
In primo luogo ci si deve chiedere se sia possibile applicare sempre il modello causale alle regole giuridiche; in secondo luogo, ci si deve chiedere se la struttura Se X allora Y sia idonea a spiegare i diversi tipi di regole presenti nell'ordinamento giuridico.
Con riguardo al primo problema, si segnala il tentativo di superare la concezione kelseniana, rifuggendo dall'idea per cui tutte le regole avrebbero carattere sanzionatorio e sarebbero dunque riconducibili al rapporto tra un illecito e la sanzione corrispondente. La struttura delle norme primarie proposta da Kelsen (cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto [1934], trad. it. Torino, Einaudi 1952), non sarebbe in grado di rendere conto di regole giuridiche non direttive, come ad esempio le regole costitutive. Gli autori sembrano dunque discostarsi dal modello dell'imputazione, delineato da Kelsen, riproponendo il classico modello causale. In realtà, essi precisano, il ricorso all'immagine della causazione, non implica che vi sia identità tra relazioni causali (e tra relativi modelli elaborati in discipline diverse), potendosi ben ammettere una differenza significativa tra la nozione di causa in ambito giuridico e la nozione di causa in ambito naturale.
Con riguardo al secondo problema, gli stessi autori riconoscono che il rapporto causale in questione si riscontra nella maggior parte delle norme giuridiche, ma non in tutte, in particolare non si applica ad esempio alle norme definitorie.
Dopo aver delineato i principali problemi sollevati dalla forma canonica delle regole e in particolare dalla nozione di causalità, vorrei brevemente soffermarmi brevemente sulla tipologia delle regole giuridiche delineata nel volume.
Secondo gli autori, le regole giuridiche sono essenzialmente direttive, ma accanto ad esse con funzione ausiliaria si possono trovare altre regole con funzione integratrice tra cui rientrerebbero le regole costitutive, il cui ruolo sarebbe così meramente ancillare rispetto alle regole costitutive. Permane negli autori la concezione dell'ordinamento giuridico come ordinamento direttivo, il cui tratto principale è quello di indirizzare il comportamento dei consociati. Una tale visione dell'ordinamento giuridico è stata a mio avviso da lungo tempo oramai superata: del resto, già Hart (cfr. L. A. Hart, Il concetto di diritto [1961], trad. it. Torino, Einaudi 1965) delineava un ordinamento giuridico costituito sia da norme primarie sia da norme secondarie, all'interno delle quali per esempio ricadono le regole costitutive.
Con riguardo alla funzione e struttura delle regole costitutive gli autori, pur tenendo conto della letteratura tradizionale in materia, non motivano a mio avviso adeguatamente le ragioni per cui anche per le regole costitutive sia preferibile il ricorso alla forma canonica piuttosto che alla forma standard individuata da John Searle (cfr. J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale [1995], trad. it. Torino, Einaudi 2006) X conta come Y nel contesto C: in particolare, anche in questo caso, applicando il modello causale non si dà adeguatamente conto del ruolo dell'intenzionalità collettiva nella creazione di attività disciplinate dalle regole costitutive stesse.
Peraltro, viene citata come esempio paradigmatico di norma costitutiva la norma definitoria di チgcontrattoチh di cui all'articolo 1321 del codice civile in base alla quale チgIl contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimonialeチh.
E' interessante sottolineare a questo proposito che il medesimo articolo 1321 veniva indicato quale esempio di definizione stipulativa in un contributo del 1979, intitolato Definizioni giuridiche e ideologie, tra i cui curatori figurava lo stesso Lantella (cfr. A. Belvedere-L. Lantella-M. Jori, Definizioni giuridiche e ideologie, Giuffrè, Milano, 1979). L'esempio in questione richiederebbe un'analisi approfondita, al fine di determinare se definizioni stipulative e regole costitutive possano tra loro coincidere o costituiscano fenomeni ben distinti: non intendo in questa sede approfondire la questione, ma attraverso l'esempio ora proposto vorrei evidenziare una contraddizione all'interno della teoria di Lantella e Caterina. S'è detto in precedenza che il rapporto causale si riscontra nelle norme costitutive ma non nelle norme definitorie: il caso dell'art. 1321, proposto dagli autori, si rivela dunque infelice e inadatto proprio per la dubbia natura del medesimo.
Peraltro, una tale sovrapposizione è, a mio parere, erronea poiché tende a minimizzare la forza creativa propria delle regole costitutive che vengono così ridotte a un mero fenomeno linguistico, privo di conseguenze ulteriori sulla realtà: al contrario, ritengo che le regole costitutive non si limitino a definire, cioè limitare i confini di un qualcosa già esistente, ma permettano la creazione di nuovi oggetti sociali all'interno della realtà. Così la norma definitoria di cui all'art. 1321 definisce il termine 'contratto' mentre le norme sui singoli contratti tipici, contenute nel codice civile, creano all'interno dell'ordinamento giuridico delle nuove figure contrattuali da cui discendono diritti e obblighi.
Resta, infine, da considerare il ruolo assunto dalle cosiddette regole tecniche, cui gli autori dedicano il paragrafo 3.2. all'interno del capitolo VI dedicato alle modalità. Anche per questo tipo di regole valgono i rilievi già fatti circa l'applicabilità della stessa forma canonica delle regole prescrittive.
Rispetto alle regole costitutive mi pare che il ruolo ancillare delle regole tecniche rispetto alle norme direttive sia ulteriormente accentuato. Addirittura le sole regole tecniche degne di essere considerate giuridiche sembrerebbero essere le regole tecniche di formulazione, ossia quell'insieme di regole che hanno come scopo la buona redazione dei testi normativi. Fuori di questo caso, gli operatori del diritto generalmente attingono a regole tecniche non giuridiche. In particolare, si danno due casi: il caso in cui delle regole giuridiche siano poste al servizio di regole tecniche extragiuridiche e il caso in cui norme giuridiche rinviino a norme tecniche. Apparentemente sembrerebbe che il primo caso attribuisca ruolo primario alle regole tecniche, ma in realtà anche in questo caso viene riconfermato il carattere direttivo dell'ordinamento giuridico e dunque il ruolo preminente delle regole giuridiche: le regole tecniche cioè indicano dei rapporti fattuali tra mezzi e fini cui le norme giuridiche farebbero necessariamente riferimento. Per chiarire con un esempio (proposto dagli stessi autori): il legislatore, quando stabilisce che 'commettendo il fatto x si è puniti con dieci anni di reclusione', istituisce tale norma ispirandosi alla regola tecnica (di senso comune) secondo la quale, se si vuole scoraggiare una determinata condotta, uno dei mezzi consiste nell'associare, a tale condotta, una conseguenza spiacevole.
Con riguardo al secondo caso, il diritto, per valutare la condotta dei consociati, rinvia ad altri sistemi di regole (ad esempio alle regole morali).
Gli autori, poi, ripropongono il dibattito circa la possibilità di concepire il diritto come un insieme di regole tecniche. Sul punto gli autori, pur riconoscendo la sostenibilità di una simile tesi dal punto di vista logico, tuttavia non la approvano in quanto non dà conto della funzione direttiva del diritto: al contrario, in base a tale teoria, l'ordinamento si limiterebbe a informare i consociati circa l'esistenza di un nesso di causalità tra determinate fattispecie e determinate conseguenze. In realtà, mi pare che Gianmarco Gometz, nel suo recente contributo sul tema delle regole tecniche, abbia dimostrato come, in una prospettiva kelseniana, sia possibile concepire il diritto come un insieme di regole tecniche volte ad evitare una sanzione (cfr. G. Gometz, Le regole tecniche. Una guida refutabile, Ets, Pisa, 2008).
Concludendo, mi pare che il manuale abbia il merito di aver cercato di superare i problemi connessi alla tradizionale concezione delle regole giuridiche come regole direttive sanzionatorie; la struttura manualistica, tuttavia, ha costretto gli autori a rinunciare ad una analisi approfondita dei pregi del modello e dei punti di differenza rispetto ad esempio al modello kelseniano di regola giuridica. Sarebbe, infine, stata auspicabile una più approfondita disamina anche dal punto di vista filosofico, esplicitando maggiormente le concezioni di diritto e linguaggio sottese al volume.

Indice

Volume I
Presentazione. – 1. Profili semantici. – 2. Soggetti. – 3. Oggetti. – 4. Forme: i significanti. – 5. Forme: le strutture. – 6. Forme: le modalità. – 7. Funzioni: attività di regole. – 8. Funzioni: attività su regole. 246. – Se X allora Y (I: l’universo della regola). – 245. – Indice. Volume II
I. Per un approccio topico alle regole. – II. Accostarsi alle regole. – III. Esercitarsi con le regole.


L'autore

Lelio Lantella è Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Romano presso la facoltà di Giurisprudenza di Torino.Tra i suoi contributi si segnalano Profili diacronici di diritto romano (Giappichelli 2005), Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico (Giappichelli 2004). Tra le curatele si segnala Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzione (Giuffrè, 2005).
Raffaele Caterina è Professore Ordinario di Diritto Privato all'Università di Torino. Presso il medesimo Ateneo ricopre dal 2007 l'incarico di Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Torino. Tra le sue recenti pubblicazioni si segnalano Usufrutto, uso, abitazione, superficie (Utet, 2009) e I fondamenti cognitivi del diritto. Percezioni, rappresentazioni, comportamenti (Mondadori, 2008). Ha curato altresì La dimensione tacita del diritto (ESI 2009).

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