sabato 4 dicembre 2010

Paltrinieri, Gian Luigi, Kant e il linguaggio. Autocritica e immaginazione

Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2009, pp. 363, € 15,00, ISBN 9788875432324

Recensione di Lidia Gasperoni - 04/12/2010

Parole chiave: linguaggio, filosofia trascendentale, immaginazione

Qual è l’atteggiamento ermeneutico che il ricercatore dovrebbe assumere rispetto alle questioni filosofiche poste da Kant e, in particolar modo, alla trattazione del tema del linguaggio? Il libro di Paltrinieri si apre con una premessa metodologica importante, concernente la relazione stessa tra l’interprete e le questioni filosofiche interpretate. Il metodo della filologia incorre nel rischio di un riduzionismo quando analizza le questioni filosofiche in modo statico e ripercorre le tracce del passato “evitando per assunzione metodologica di catalizzare una relazione vivificante con gli attuali destinatari (interpreti)” (p. 17). Questa critica, interna alla filologia stessa, non vuole svalutare il ruolo della ricerca filologica bensì distinguerla da una visione statica e meramente “scientifica” dello studio dei testi. Rispetto alle questioni cardinali della filosofia trascendentale questa premessa è estremamente importante affinché l’interprete possa valutare e discutere le possibili aperture della filosofia kantiana dato che, come scrive, “le tre Critiche e gli altri grandi saggi di Kant lo investono con una messe di possibilità che eccede le barriere storiche e teoretiche, le cadute, le chiusure e le miopie” (p. 19). 
Questa premessa assegna al saggio di P. un compito estremamente complesso, ossia quello di una ricostruzione teoretica e dinamica della questione del linguaggio in Kant. Tra i numerosi studi che hanno trattato questa questione P. individua due vie principali: la prima, sviluppata a partire dalle riflessioni di Herder e Hamann, è quella della critica a Kant il quale non avrebbe considerato l’importanza della linguisticità per il pensiero; la seconda via consiste invece nella valorizzazione di quelle trame trascendentali del “discorso mentale” che, seppur con dovute distinzioni, possono indurre a confrontare le posizioni kantiane con quelle di Chomsky. Sull’interrogativo se Kant abbia o no taciuto rispetto alla questione del linguaggio P. intende indagare la “presunta o effettiva incompatibilità” tra il riconoscimento della linguisticità e l’impostazione trascendentale (p. 24). Egli individua nel pensiero kantiano due ramificazioni che determinano la struttura stessa del libro: da un lato una teoria dei segni e dall’altro una teoria dei simboli. Le due ipotesi, tra loro connesse, del libro sono, da un lato, che impostazione trascendentale e riconoscimento della rilevanza della linguisticità, perlomeno di quella simbolica, si richiamino a vicenda; dall’altro che, alla base di una presunta rinuncia kantiana al primato della linguisticità, vi sia la centralità della libertà di giudizio.

La critica rivolta da Hamann a Kant di una triplice purificazione della filosofia kantiana, (ossia quella dalla tradizione, dall’esperienza e dal linguaggio) opposta alla stretta connessione tra linguaggio e ragione – per cui questa non sarebbe pensabile senza il linguaggio – costituiscono la questione centrale del primo capitolo del libro. P. rintraccia nel carattere aprioristico della conoscenza e dei suoi nessi, a partire dal confronto con l’empirismo, la ragione per cui Kant si sarebbe soffermato sulla questione dell’“io penso” tendendo a trascurare la relazione tra segni e concetti. 
P. individua così diversi passaggi in cui Kant avrebbe potuto introdurre una trattazione sistematica e approfondita della linguisticità; egli le definisce delle “occasioni mancate” (cap. 2), riferendosi in particolar modo alla distinzione tra conoscenza discorsiva e conoscenza intuitiva. P. riconosce il senso profondo della discorsività e, paragonando giustamente Kant a Wittgenstein, sottolinea come questa distinzione segni la difesa kantiana dell’impossibilità di un significare privato a scapito però di una dimensione storico-applicativa.  Quello che dunque Kant porrebbe in ombra è “l’analiticità che segni e parole donano al pensiero” (p. 75); ciò implica quella che P. chiama “visione riproduttiva” di Kant in cui i segni sono considerati come guardiani dei concetti, richiamandosi al §38 dell’Antropologia. 
Nel terzo capitolo P. considera la distanza tra Herder e Kant rispetto alla possibilità di elaborare una grammatica del pensiero a partire dal linguaggio e nel quarto capitolo sviluppa un confronto tra Kant e Diderot rispetto alla questione dell’inversione sintattica delle idee esposta nella Lettera sui sordomuti. Se per Diderot tali inversioni manifestano il nesso dinamico tra pensiero e linguaggio, Kant sarebbe invece legato all’ordine naturale dei pensieri. In questa prospettiva “il destino dei segni pare kantianamente tutto ben marcato ed essi possono solo corrispondere o non corrispondere all’ordine e alla determinatezza naturali del pensiero” (p. 91).
La connessione tra sensibilità e linguisticità è trattata da P. da un punto di vista più strettamente antropologico, rispetto alla questione della temporalità storica (cap. 5) e questo per comprendere se la tutela dell’autonomia e libertà dell’“io penso” non induca Kant a considerare il linguaggio come secondario e a compiere una sorta di astrazione da una temporalità, per così dire, radicata nella storia. L’aspetto che rimane più in ombra è però quello della concezione semiotica che Kant ha della relazione tra concetti e parole in riferimento all’udito e al tempo, aspetti cui la prima parte del libro (sulle parole come segni) è dedicata. Questa relazione tra autonomia di giudizio e linguaggio è forse allora meno radicata nella concezione kantiana di una sordità artificiale (cap. 6) di quanto affermi P. a partire dal confronto con il primato herderiano del senso dell’udito come “quell’ascolto che ci rende profondamente relazionati” (p. 137). Individuare, infatti, nell’atteggiamento di colui che si tappa le orecchie per non sentire quello che gli altri dicono, la condizione stessa di questa autonomia mi sembra un’interpretazione forte di alcuni passi della Critica della facoltà di giudizio, che come riconosce lo stesso P. descrivono l’atteggiamento che si può assumere nei giudizi di gusto estetici. 
La traccia più strettamente semiotico-trascendentale rispetto alla questione della relazione tra concetti e parole è dunque la via meno percorsa da P. che pur riconosce il primato kantiano dell’udito rispetto agli altri sensi. Questo aspetto è stato indagato in modo particolare da Capozzi (Pensare, parlare e udire in Kant, in Atti del convegno Scienza e coscienza tra parola e silenzio, Roma 2006, pp. 183-210). Senza la facoltà dell’udito nessun uomo, secondo Kant, potrebbe sviluppare la piena razionalità in quanto la parola, formatasi attraverso il suono, è necessaria per pensare. Senza il suono come mezzo della formazione delle parole l’uomo potrebbe acquisire un sistema linguistico solo attraverso un metodo visivo ma non svilupperebbe pienamente la capacità linguistica. Per questa ragione Kant osserva che coloro che sono sordi dalla nascita non possono giungere alla comprensione autentica dei concetti. Le parole contengono una certa neutralità e questa loro proprietà di designazione proviene dalla facoltà dell’udito. Tale primato dell’udito rispetto alla vista che, come senso, rappresenta figurativamente è molto importante per rilevare un percorso interno alla teoria della conoscenza kantiana ossia quello del rapporto tra i sensi e le forme dell’intuizione, cioè tempo e spazio. Questa via, più strettamente trascendentale, non viene percorsa però da P. nella parte del libro dedicata proprio alle parole come segni: egli considera la temporalità soprattutto a livello storico, aspetto per altro estremamente rilevante.
La libertà dell’io penso e del giudicare è il punto focale del confronto instaurato da P. sia tra Kant e Il nipote di Rameau di Diderot rispetto alla necessità di una comunicazione veridica, sia tra Kant e Fichte in riferimento alla sinonimia. Nel primo caso (cap. 7) P. rileva, a confronto con il parlare schietto e veridico del personaggio di Diderot, come in Kant “veridicità e autenticità stanno sempre assieme a libertà e autonomia, ovvero alla capacità di appropriarsi da liberi legislatori di quanto ricevuto e imparato” (p. 155). Nel secondo caso (cap. 8) rispetto alla questione concernente la possibilità di un’autentica sinonimia, P. individua l’importanza che per Kant ha la ricchezza semantica del pensiero e la sua stretta connessione, in analogia alle considerazioni fichtiane, tra arbitrarietà dei segni ed esercizio della volontà. 
La prima parte del libro si conclude quindi instaurando, attraverso la questione della comunicazione, il passaggio alla trattazione del senso comune sviluppata nella Critica della facoltà di giudizio, analizzata in particolar modo nella seconda parte del libro, in cui P. si sofferma sulla questione del linguaggio metaforico. 
L’immaginazione costituisce il punto di connessione tra le diverse facoltà e determina sia la creatività che la conformità a regole del pensiero. “Al realista trascendentale non resta che fantasticare, solo il realista empirico ha la possibilità di immaginare […], educato secondo l’idealismo trascendentale a usare l’immaginazione anche per leggere la realtà empirica, avrà la possibilità di contribuire ad aprire, qui e ora, nuove condizioni per il pensiero e l’esperienza” (p. 269). È in questa chiave che P. pone la questione dell’immaginazione e la distingue dalla fantasia (cap. 2). L’immaginazione quindi, anche in riferimento alla concezione kantiana del genio, richiama ancora una volta quell’esercizio della nostra libertà che ha luogo tra la conformità a regole e invenzione inaugurante. Analizzare il senso profondo della libertà rispetto al linguaggio significa comprendere i procedimenti alla base del linguaggio metaforico al quale Kant affida “il farsi stesso dei rapporti alla cui sintesi presiede l’immaginazione” (p. 288). In questa prospettiva P. pone in questione il ruolo meramente riproduttivo, associativo della semiotica kantiana a partire dal linguaggio simbolico-metaforico-analogico (cap. 3) e la distinzione tra schematismo oggettivante e schematismo analogico (cap. 4) – distinzione per altro posta da Fortuna, (Il laboratorio del simbolico. Fisiognomica, percezione, linguaggio da Kant a Steinthal, Perugia 2005) in riferimento alla questione della fisiognomica. 
Interessante è la connessione che P. individua tra la concezione del linguaggio come ipotiposi simbolica con la nozione kantiana di limite (Grenze), ossia “una frontiera che ci rapporta a quegli spazi semantici che il libero pensiero umano, le idee della ragione morale e l’immaginazione trascendentale si aprono, pur nell’impossibilità, insieme de facto e de iure, di mettervi i piedi dentro in un senso empirico-oggettivo” (p. 315). Nella nozione di limite come frontiera aperta e, nel contempo, regolante si manifesta il procedimento dell’analogia come esibizione indiretta in cui vengono connesse cose eterogenee senza omogeneizzarle. In questa prospettiva secondo P. (cap. 5), la filosofia kantiana proporrebbe “una radicale riforma dell’atomismo soggettivistico moderno in maniera da sottrarlo a ogni angusto individualismo, ma anche evitando di sussumerlo entro una metafisica ‘trascendentale’ del condiviso, che presuma di realizzare un’interlocuzione ‘valida’ tra gli umani al prezzo dell’annientamento delle loro irreducibili peculiarità”.  La ragione è quindi paragonabile, in senso benjaminiano, alla capacità di tradurre proponendo un tipo di interpretazione che non riduca i suoi interpretati a un unico percorso di senso e a un unico criterio di validità. I diversi aspetti della linguisticità in Kant illuminano allora quella compatibilità tra linguaggio e filosofia trascendentale che è in parte ancora da sviluppare e che Paltrinieri articola sul filo della libertà e dell’autonomia del soggetto, con il merito di considerare la questione della distinzione tra oggettivazione e simbolicità come aperta ad approfondimenti e prospettive sistematiche.

Indice

Introduzione: “Nessun silenzio è mortale”
Note
Parte prima. Le parole come segni
1. Partendo da Hamann: la ragione del linguaggio
2. Occasioni mancate
3. “Grammatica del pensiero”. L’obiezione di Herder
4. L’ordine naturale delle idee: Diderot e l’inversione sintattica
5. Autocritica e teleologica della ragione umana e realismo trascendentale
6. La “deduzione linguistica” di Herder e la sordità trascendentale di Kant
7. La comunicazione veridica e Il nipote di Rameau
8. Sinonimia e segni volontari (Fichte)
9. Comunicabilità e condivisibilità
Note
Parte seconda. Le parole come simboli
1. Più in alto della retorica sta la poesia
2. Immaginazione e fantasia
3. L’immaginazione come facoltà di designare
4. Linguaggio metaforico e ipotiposi simbolica
5. Atomismo e traducibilità
Note
Indice dei nomi


L'autore

Gian Luigi Paltrinieri insegna Ermeneutica Filosofica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tra le sue pubblicazioni si ricordano L’uomo nel mondo. Libertà e cosa in sé nel pensiero di Immanuel Kant (Carocci 2001) La natura come giustificazione. Kant e la fallacia naturalistica di George Edward Moore, (Il Cardo 1997). Coordina la redazione nord-orientale della rivista «Filosofia e Teologia».

Link

Società Italiana di Studi Kantiani
www.socstudikantiani.fls.unipi.it

Sito ufficiale dell'Associazione Italiana per gli Studi di Filosofia e Teologia (AISFET) www.filosofiaeteologia.it

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