venerdì 10 dicembre 2010

Salvatore, Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Maria Zambrano e Jean-Luc Nancy.

Padova, Il Poligrafo, 2009, pp. 231, 23 €, ISBN 978-88-7115-640-8.

Recensione di Daniela Bandiera – 10/12/2010

L’ultimo libro di Salvatore Piromalli propone un’ipotesi di lettura sulle tracce di ciò che Maria Zambrano e Jean-Luc Nancy hanno pensato del vuoto e sulle conseguenze esistenziali, politiche e simboliche che ne hanno tratto.

È innegabile che la tradizione occidentale abbia sempre considerato il vuoto in termini difettivi e privativi, in opposizione all’essere parmenideo: a questa tradizione si sono sottratti sia Zambrano che Nancy, i quali hanno saputo entrambi assumere l’esperienza del vuoto come condizione generativa dell’esistenza, possibilità d’inaugurazione di una nuova e più autentica relazione con sé, il mondo e gli altri, in un riscatto della condizione umana.

Il libro si divide in due parti, ciascuna composta di tre capitoli: nei primi tre è esposto il pensiero di Zambrano, mentre negli ultimi tre viene dapprima presentato il pensiero di Nancy e poi tentato un confronto con la filosofa andalusa.

Il primo capitolo si interroga sul tema caro a Zambrano del rapporto interrotto tra meraviglia e filosofia.

La meraviglia, lo stupore, tradizionalmente presentati come atteggiamento originario della ricerca filosofica, si ritrovano, nella riflessione di Zambrano, in una nuova prospettiva, come sguardo nuovo su ciò che ci sta dinanzi, come momento dove l’essere della realtà si rivela sino al punto estremo in cui ciò che è più familiare diventa inquietante, tanto da costituire un’aporia, un’impossibilità di procedere oltre, in cui il soggetto è costretto a stare passivamente davanti-a, a subire un vuoto di conoscenza e orientamento. Lo stupore diviene quindi ciò che apre all’esperienza della passività, del patire, della sospensione del senso, in cui il soggetto rinuncia al protagonismo della volontà e dell’azione e diviene in grado di condurre il vuoto-sbalordimento fino alla vertigine estrema, accettando ed elevando questo vuoto come libera offerta di sé affinché qualcosa si riveli, inaspettatamente.

Emerge così un’esperienza del vuoto come trascendenza, attesa, come provocazione che sfida ed inquieta il soggetto, il quale può mantenere aperta questa pro-tensione rimanendo in ascolto di sé e del mondo, oppure può distaccarsene e fuggire: è qui che i destini del filosofo e del poeta, originatesi da una medesima origine, si separano. Nella tragicità di questo strappo, di questa violenza con la quale avviene il fallimento dell’estasi originaria, si apre anche la condanna e la negazione della poesia: il poeta viene esiliato nel nome della dittatura del logos filosofico, il quale ha trovato come più alto esito la scoperta del Soggetto e l’assolutizzazione del voler essere dell’epoca moderna.

Ma c’è qualcuno che sulla strada dei filosofi non ha voluto camminare: pellegrini, esiliati, poeti, figure di dissidenti, i quali hanno optato per la molteplicità dell’essere, per una verità democratica e per un’etica della donazione di sé. L’atteggiamento del poeta appare così come profondamente religioso, nel senso di un legame con un’origine della quale si patisce la distanza, nella coscienza della propria condizione di abbandono, dove si sperimenta un radicale spaesamento, che insegna l’esercizio di un vuoto vissuto attivamente, non come privazione, ma come riscatto; un vero e proprio vuoto-epoché, luogo inaugurale di una metamorfosi attraverso la quale recuperare lo stupore originario, lenendo la ferita dell’originaria violenza e conducendo all’estremo la passività dell’essere gettati nel tempo dell’esistenza, trasformandola in passività attiva, efficace, protesa verso una nuova ragione poetica, volta a stabilire con le cose una relazione dinamica in cui si apre uno spazio, una distanza, un vuoto, creato dall’arretramento del soggetto che ha imparato a farsi concavo per accogliere ed ospitare.

Nel secondo capitolo Piromalli si sofferma sulla figura dell’esiliato, centrale nel pensiero di Zambrano, in quanto simbolo della condizione di orfanità e estraneità presenti in ogni uomo.

L’esiliato è emblema del patimento radicale del vuoto, poiché non può trovare accoglienza in nessun dove, ma è disperso tra il non-più dell’origine e il non-mai di una meta, in un’alterazione del tempo che lo rende incapace di vivere come di morire, in un processo di progressivo svuotamento e decentramento, definito da Zambrano come desnascer, dis-nascita, esperienza estrema del disfacimento del sé.

Figure-simbolo del desnascer sono l’idiota, Antigone, l’internato e il mistico, in quanto esseri che hanno saputo accogliere il vuoto, giungere alle più recondite profondità di se stessi, rinascendo ad una passività attiva, nella quale si ritrova un’innocenza originaria, caratterizzata da un’umiltà che permette di ricreare con la terra un legame più autentico e profondo. Nel vuoto del desnascer si comprende che non si è mai del tutto nati a se stessi, ma che l’intera esistenza è il luogo e il tempo in cui continuare a nascere, in un processo incessante e sofferto di auto-trascendimento che porta fuori dall’asfissia di essere soltanto se stessi e conduce alla rivelazione della vera patria, che è farsi patria a se stessi rimanendo aperti all’altro. La vera patria è così sempre in atto di nascere e il destino dell’uomo è quello “di un nomadismo esistenziale, di patire un’inquietudine costitutiva che ci rende stranieri a noi stessi” (p. 83).

Il terzo capitolo riprende un tema a lungo equivocato nella storia della filosofia, quello della pietà, la quale, relegata alla dimensione interiore e soggettiva, ha smarrito l’originario significato del “fare spazio”, che deve essere recuperato, al fine di riscoprire nella pietà il sentimento più ampio e profondo, la matrice originaria della vita del sentire e del comprendere. La pietà è stata esiliata dalla storia della filosofia a causa della cecità del metodo filosofico, il quale tende ad eliminare ciò che non può penetrare e possedere per intero ed è incapace di sottoporsi ad un esercizio di vuoto, di sospensione dei consueti dispositivi conoscitivi, poiché “saper fare vuoto” significa proprio imparare ad accogliere ciò che è inedito nella sua autenticità, senza incanalarlo nel già detto e nel già pensato.

La pietà zambraniana si delinea come una vera e propria provocazione al sapere occidentale e propone una via alternativa, fondata sulla sapienza della pietà, la quale può insegnare a fare vuoto in se stessi, vivere il mondo meravigliandosi; una sapienza antica e pre-filosofica, che ha saputo trovare percorsi differenti da quelli del logos, come la tragedia greca, la poesia e il romanzo.

Di questo riscatto della pietà è necessario cogliere non solo le implicazioni filosofiche, ma anche quelle politiche. La pietà ci impone infatti di abbandonare il processo di negazione e omologazione dell’alterità, per imparare a saper trattare con l’altro da sé, rivelandosi come esigenza urgente, necessità politica ineludibile, non confinabile a sentimenti privati, ma da intendersi, invece, come il movimento catalizzatore della convivenza democratica.

Con il quarto capitolo inizia la seconda parte del libro, dedicata al pensiero di Jean-Luc Nancy. In particolare, il capitolo è riservato alla figura dell’essere abbandonato e si apre con la riflessione di Nancy sull’eredità nietszchiana: la morte di Dio come nuovo inizio, che conduce oltre il Dio della metafisica e il decadimento morale, inaugurando una condizione di vuoto fecondo, nella quale sia possibile sottrarsi ad ogni tentazione di oltrepassamento metafisico della condizione umana, ripartendo invece dall’accettazione della finitudine e dell’abbandono.

Questa impossibilità di ricomposizione delle garanzie metafisiche guida ad un nuovo atteggiamento esistenziale, in grado di elaborare la condizione di bisogno metafisico, non più per reiterarla in una nuova ricerca di senso, ma per inaugurare un nuovo modo di vivere, facendo dell’esistenza stessa il senso, il luogo d’apparizione di qualsiasi possibilità e libertà. Il compito della filosofia diviene così quello di saper riconoscere e pensare l’essere abbandonati ed esposti al limite, al vuoto di senso e al senso di vuoto, accogliendo con stupore ciò che si presenta, in una passività che implica un farsi attraversare dal vuoto e un rendersi passibili al senso.

Anche in Nancy il vuoto è quindi presenza pulsante e intima, forza generativa e produttiva, punto di partenza per cogliere la radicalità della riflessione sull’abbandono, la quale si origina dalla Gelassenheit heideggeriana e trova significative corrispondenze nella riflessione zambraniana sull’esilio.

Tutto il senso è in abbandono, l’abbandono permane come unica possibile categoria dell’essere, ma ciò non indica affatto una caduta nel nichilismo, bensì un’apertura all’abbondanza, nella quale l’essere si sottrae all’univocità del senso, alla logica dell’unità e dell’identità e si apre alla dispersione, alla disseminazione di briciole ontologiche. In questo orizzonte aperto dall’ontologia dell’abbandono abita l’uomo, il quale conduce un’esistenza abbandonata, interstizio, luogo vuoto, tanto che lo spazio dell’esistenza non è più progressione lineare verso la realizzazione di un senso, ma diviene danza, ripetizione, spirale, sottrazione di movimento e possibilità di movimento insieme, permettendo la variazione all’infinito della prospettiva sulla realtà. L’uomo viene “ridotto al nucleo incandescente della sua esistenza” (p. 138) e può, partendo da questa radicale esperienza di disidentificazione, ricominciare ad esistere.

Il capitolo si conclude con un confronto tra il pensiero di Nancy e quello di Zambrano, accomunati dal fatto che sia l’uomo abbandonato che quello esiliato vivono la medesima condizione di gettatezza, di mancanza di senso e certezze, la quale si rivela però per entrambe vuoto inaugurale, apertura verso una possibile rinascita ad un’esistenza più autentica. Tra i due filosofi esistono nondimeno anche evidenti differenze, non solo a livello linguistico, ma anche nell’atteggiamento verso l’esperienza stessa del vuoto; infatti se per Nancy la condizione dell’abbandono è già protesa verso la possibilità d’esistenza, in un atteggiamento attivo, progettuale, liberatorio, in Zambrano invece l’esilio non è né immediatamente, né necessariamente un’esperienza di trasformazione positiva, ma può divenirlo solo dopo la dolorosa esperienza del desnascer, in un atteggiamento di passività mai eliminabile.

Il quinto capitolo è riservato al tema della libertà, momento centrale della riflessione filosofica di Nancy.

Al limite estremo del vuoto metafisico appare una nuova inaugurazione, la possibilità dell’esperienza della libertà, la quale si dona a colui che ha saputo fare vuoto in sé stesso, in un movimento di dis-identificazione, che rende disponibili all’alterazione e alla modificazione, ad una consapevolezza non più dominata dai criteri cartesiani, ma da quelli olistici, con i quali si colgono le infinite differenze della realtà, in un intreccio dinamico, in una mediazione aperta che non fuoriesce dall’immanenza del mondo, senza però rinunciare alla sua trascendenza. Questa fioritura alla libertà a partire dalla condizione di abbandono rappresenta un forte punto di contatto con il pensiero di Zambrano, poiché, come nel pensiero della filosofa andalusa la disponibilità ad aprirsi al vuoto e alla meraviglia era il primo passo verso il dis-nascere e la rinascita, così anche in Nancy la libertà può apparire solo grazie alla generosità dell’inedito che sorprende continuamente l’esistenza.

La libertà, in una ripresa della tradizione heideggeriana, si delinea come qualcosa che non può essere definito, ma solo esperito, come qualcosa che ci accade, ci sconvolge e ci trasforma, “come un evento del tutto fuori dalle categorie, schemi, definizioni e valori con cui la filosofia, il diritto, la politica hanno cercato di rinchiuderla e di comprenderla, quasi sempre all’interno di un impostazione soggettivistica e volontaristica: come se la libertà fosse un diritto, una qualità, una proprietà dell’individuo, qualcosa che l’individuo ha, possiede, e non invece qualcosa che l’individuo è” (pp. 160-161).

La libertà è azione di pirateria, poiché il pirata è colui che sfida i limiti consentiti, li viola, trasformando il vuoto in spazio dell’esistenza, in un movimento inaugurale dell’esistenza stessa che è sempre ancora da rifare, sorpresa, libero evento di sé, eccedenza.

Sono chiare allora le differenze tra la concezione anarchica e attiva della libertà di Nancy e quella zambraniana, nella quale la libertà non può mai essere assoluta, fine a se stessa, ma deve sempre riconoscere una dipendenza, deve sempre mantenere in se stessa un elemento di passione e di passività. Ciò non implica che i pensieri della libertà di questi due filosofi siano totalmente estranei l’uno all’altro, poiché entrambi condividono il tentativo di porsi fuori e oltre i limiti della tradizione metafisica, trovando nuovi spazi e possibilità per il pensiero e per l’esistenza.

Nel sesto capitolo Piromalli presenta il tema del nesso libertà-comunità, il quale necessita una contestualizzazione nella più ampia riflessione teorica di Nancy sull’essere singolare plurale, svolta attraverso l’analisi di tre saggi del filosofo francese.

Il primo è La partizione delle voci. Verso una comunità senza fondamenti, nel quale Nancy esprime la necessità di liberare l’ermeneutica dalle ipoteche teoriche che l’hanno ricondotta al circolo ermeneutico, criticando l’idea che debba sempre esserci un senso originario o finale al quale si debba far ritorno. Nancy si focalizza su tre precisi momenti filosofici: la critica heideggeriana al circolo ermeneutico (Essere e Tempo), le riflessioni heideggeriane sul significato del termine “ermeneutica” (Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio) e, infine, il concetto di catena ermeneutica dell’annuncio, rintracciabile nello Ione platonico, dal quale emergono le considerazioni sul pluralismo delle voci che compartecipano all’esplicitazione sonora e vocale del senso, introducendo il concetto di partizione delle voci, basilare per la riflessione ontologico-politica; con tale concetto si giunge, infatti, alla conclusione che il senso si manifesta nella pluralizzazione delle voci, dei generi, delle lingue, anzi, esso viene a consistere di questa stessa partizione, di questa articolazione del singolare nel molteplice.

Il secondo saggio esaminato è La comunità inoperosa, nel quale si rivendica l’esigenza di affrancarsi da una concezione arcaica e romantica della comunità, intesa come co-appartenenza integrale delle singolarità, e di criticare, attraverso il concetto di comunità inoperosa, l’operosità che la politica attua verso la realizzazione di una comunità perfetta, utopica, da sempre fonte di tentazioni totalitarie, nel suo tentativo di costringere la realtà molteplice e mutevole a sottostare ad un rigido ordine. Ad unire i membri di una comunità non è una proprietà in comune, bensì un debito, un dono da dare, tanto che il soggetto si trasforma in un essere mancante, donante, aprendo uno spazio vuoto al centro della comunità stessa, in cui è possibile l’incrocio e l’espressione delle singolarità. In tal modo l’idea di comunità si lega a quella di abbandono e l’essere-in-comune si caratterizza come esposizione dell’uno all’altro nella propria incompiutezza, come esperienza più remota e irriflessa, ma che, proprio per questo, rimane la più impensata, celando che la singolarità è costitutivamente esposta all’essere-in-comune, che non c’è identità senza relazione, che prima dell’ego sum pre-esiste l’ego cum. In questo essere-in-comune non si dà un legame sociale stabilito una volta per tutte, ma sempre una relazione possibile, nella quale il singolare si radica nella pluralità dell’essere, senza disperdere la propria singolarità.

L’ontologia dell’essere-in-comune è ampiamente sviluppata in Essere singolare plurale, dove si chiarisce come la molteplicità si situi nel cuore stesso dell’essere, in una “concezione che sovverte il cuore dell’ontologia classica, da sempre attestata sull’idea di un essere unico, esclusivo, identico a sé, immobile” (p. 196).

La priorità della dimensione relazionale, rispetto a quella dell’identità soggettiva, ben si esprime nella metafora dell’annodatura, figura dinamica e incompiuta, sempre in procinto di compiersi o di sciogliersi, la quale ha anche il compito di mettere in luce come le singolarità annodate non siano mai entità astratte, metafisiche, ma esseri materiali, dotati di corpo e voce, tanto che l’ontologia dell’essere viene a coincidere con quella dei corpi e la pluralizzazione dell’essere con quella delle voci.

A partire dalla concezione ontologica dell’essere singolare plurale, si può ora intendere anche il rapporto tra libertà ed essere-in-comune: non condividiamo solo il vuoto dell’abbandono del senso, ma anche la possibilità del riscatto nell’esperienza della libertà, quest’ultima da intendersi come ogni volta singolare e ogni volta annodata all’esperienza dell’altro. Così, anche nel caso della libertà, la concezione classica occidentale è rivoluzionata, poiché la libertà non è più intesa come proprietà del singolo, ma come appartenente alla relazionalità originaria, alla condizione di co-esistenza in cui l’essere si offre. Che la libertà sia rapporto e sia nel rapporto, non vuol dire però ricadere nella concezione individualistica e borghese di una libertà mia che finisce dove inizia quella dell’altro, poiché la libertà di Nancy non trattine a distanza le identità, ma è contatto e intreccio, contaminazione e alterazione.

Ontologia e politica si fondono in una filosofia dal carattere “impolitico”, nel senso che non si dà per il momento politico uno spazio e un orizzonte specifico, tecnico, costruttivo, ma viene piuttosto attuata un’opera di decostruzione radicale della politica tradizionale, la quale avvicina Nancy a Zambrano, anch’ella convinta del fatto che la politica dovrebbe abbandonare il culto assoluto dell’unità, di una forma definitiva che garantisca l’ordine e l’armonia, per avviare un’umanizzazione della storia, della società e della vita personale, per imparare a percorrere il tempo convertendolo in cammino di libertà e di democrazia. Sia Nancy che Zambrano convergono dunque verso la necessità di una pratica radicale della democrazia, nella quale ognuno possa essere sperimentatore di senso e libertà.

Poetico e denso, come i pensieri che prova ad inseguire, questo libro di Salvatore Piromalli è da segnalare come carico d’interesse, poiché propone un’ipotesi di confronto stimolante tra due filosofi che hanno saputo rivoluzionare il pensiero occidentale sul vuoto, ripensandolo nei termini di un’inaugurazione radicale, di un’accoglienza paziente verso ciò che ha da venire, consegnandoci i germogli di una filosofia del vuoto e della passività attiva ancora tutta da pensare.

Indice

Prefazione di Chiara Zamboni

Introduzione

Parte prima: Patire la propria trascendenza: Maria Zambrano
1. Stupore e passività. Logos filosofico e ragione poetica
2. Vuoto dell’esilio e inaugurazione di sé
3. La pietà e l’altro. Ospitalità e democrazia

Parte seconda: L’esistenza tra abbandono e libertà: Jean-Luc Nancy
4. Ecce Homo. Abbandono e decisione di esistenza
5. Fare esperienza della libertà. L’apertura del pensiero e dell’esistenza
6. Essere singolare plurale. Ontologia dell’essere-in-comune.

Conclusioni

Rosa di Jericho

Bibliografia

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L'autore

Salvatore Piromalli si è laureato in Filosofia presso l’Università di Verona, dove svolge attività di ricerca. I suoi interessi sono prevalentemente rivolti agli esiti contemporanei della riflessione filosofica continentale. Da alcuni anni coordina un gruppo di ricerca e pratica filosofica, con seminari annuali su temi legati alla dimensione esistenziale (tempo, identità, memoria), nonché alle sfide e alle contraddizioni del presente. Ha lavorato per molti anni come operatore sociale nel settore penitenziario, interessandosi alle questioni teoriche del lavoro sociale. È co-curatore del volume Tra carcere e territorio (Franco Angeli, 1994). 

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