mercoledì 18 gennaio 2012

Battaglia Fiorella, Il sistema antropologico. La posizione dell’uomo nella filosofia critica di Kant

Pisa, Edizioni Plus – Pisa University Press, 2010, pp. 185, euro 12, ISBN 9788884927477

Recensione di Lidia Gasperoni - 03/10/2011

Che cos’è l’uomo? Questa domanda accompagna lo sviluppo degli altri tre interrogativi fondamentali che Kant pone al centro della propria riflessione filosofica, vale a dire Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è dato sperare? La quarta domanda è alla base della teoria antropologica kantiana ed è oggetto dell’analisi del libro di Fiorella Battaglia la quale intende portare alla luce l’intento sistematico della riflessione antropologica kantiana. Come fa notare la stessa autrice, 



è a Kant che si deve riconoscere il merito di aver fondato un’antropologia filosofica in cui far confluire in modo sistematico le diverse determinazioni dell’uomo, a partire da quella fisiologica fino ad arrivare a quella psicologica e sociale. Battaglia riconosce quella complessa trama di questioni che a volte hanno determinato una certa esclusione delle indagini antropologiche dalla riflessione più strettamente critico-trascendentale. 
L’autrice rintraccia due strategie fondamentali che articolano in parte le argomentazioni del suo saggio, attraverso cui indagare l’antropologia kantiana: la prima consiste nell’analizzare il significato dell’antropologia in quanto tale, riscontrando quella centralità sia temporale sia spaziale che di fatto l’antropologia ha avuto nella produzione kantiana; la seconda strategia concerne invece le relazione tra l’antropologia e la riflessione trascendentale e in generale si occupa di tessere – e in parte di ricucire – la complessa trama della scissione tra ambito speculativo e ambito pratico che spesso ha segnato e segna la critica secondaria. È questa seconda la strategia che Battaglia intende seguire per sviluppare la propria indagine in cui sa ben alternare tra una prospettiva più sistematica e una più filologica, tenendo conto dei diversi punti di vista espressi dalla critica secondaria (con particolare interesse per le riflessioni tra gli altri di Volker Gerhardt e Rudolf Makkreel) rispetto al significato dell’antropologia kantiana nell’ambito della filosofia politica e dell’epistemologia. 
Il volume è articolato in tre parti. La prima parte è dedicata a rilevare il carattere antropologico della filosofia kantiana; la seconda parte si occupa di indagare le relazioni tra la teoria della vita e la concezione dell’uomo e la terza parte è incentrata sul significato della psicologia nella filosofia kantiana.
Nel dettaglio, la prima parte del libro riprende la famosa immagine del ciclope, vale a dire dell’erudito il quale pensa con il solo occhio della scienza per contrapporla a quella dell’uomo ricercatore. Se il ciclope, che in senso metaforico rappresenta per Kant l’“egoista della scienza”, ha un unico occhio ossia un unico parametro di osservazione e conoscenza degli oggetti, risultando quindi sbilanciato e privo dell’attenzione per la dimensione antropologica delle proprie indagini, l’ideale del sapere del ricercatore kantiano, risvegliato da Rousseau, mira al contrario a onorare gli uomini nella loro complessità di aspetti e interessi. Senza trascurare le tante affermazioni kantiane rivolte invece a escludere dall’impresa critica il sapere sulla natura umana, Battaglia offre diversi spunti per considerare l’antropologia e la sua ricezione all’interno della riflessione critica kantiana, soprattutto rispetto alla dimensione sensibile-percettiva e a quella politica. 
La seconda parte del libro intende rilevare in modo sistematico una teoria della vita in Kant “che partendo dalla costituzione biologica dell’organismo arriva a render conto delle sue competenze più eminentemente umane nella dimensione comunicativa e in quella valoriale” (16). Battaglia rintraccia nel concetto di forza viva (lebendige Kraft) l’attenzione di Kant verso un concetto di forza che si manifesta anche nella quiete del corpo e non è riducibile solo alla presenza del movimento, una forza infine non misurabile e che sfugge quindi alla misurazione matematica. Già in questo concetto di forza Battaglia rintraccia l’interesse kantiano per “il problema metodologico della metafisica, ovvero del possesso di ‘una scienza ben fondata’” e per un concetto di vita che “si presenti come oggetto autonomo di interesse, portatore di un carattere così speciale da mettere fuori gioco la matematica e da lanciare la sfida riguardo al modo più appropriato di coglierla e articolarla concettualmente” (63). A partire dal carattere indeterminato della forza viva Battaglia riconosce il primato della riflessione pratica kantiana in cui si realizzano concretamente quei limiti dell’incondizionato, determinati in ambito speculativo in modo solamente problematico, privi di realtà oggettiva, in altre parole i limiti tra conoscenza e pensiero, tra intelletto e ragione. Attraverso l’analisi della nozione di sentimento di vita (Lebensgefühl), e il confronto con Epicuro Battaglia intende mostrare come la dimensione concreta e antropologica sia parte integrante della riflessione kantiana. 
La terza parte del volume è dedicata alla psicologia e alla tassonomia delle facoltà umane. Dal confronto tra le posizioni kantiane e quelle di Baumgarten e Wolff sulla differenza tra la psicologia e all’antropologia, Battaglia rileva quella distanza decisiva tra Kant e la tradizione leibniziano-wolffiana rispetto al ruolo della sensibilità. Kant segna, infatti, una cesura rispetto alla tradizione precedente che riduceva la distinzione tra sensibilità e intelletto a un problema di chiarezza logica. Kant difende invece il carattere peculiare della sensibilità, irriducibile a una questione di chiarezza.  Inoltre, come sottolinea Battaglia, è nella Critica della facoltà di giudizio che trova luogo l’ulteriore specificazione nell’ambito della sensazione. È in quest’opera, infatti, che “Kant cerca di dirimere l’intreccio di significati che fa capo al problema della sensibilità e allo stesso tempo di situare adeguatamente le riflessioni appartenenti all’ambito logico-gnoseologico e a quello estetico, cioè alla prima e alla terza Critica” (117). È qui che Kant distingue più chiaramente, all’interno dell’ambito della sensibilità, tra la sensazione riferita all’oggetto in grado di determinare conoscenza e la sensazione riferita solamente al soggetto, definita come sentimento che deve necessariamente rimanere solamente soggettiva e non può condurre alla rappresentazione di un oggetto. Dall’irriducibilità della sensibilità alla chiarezza dell’intelletto, Battaglia passa dunque ad affrontare la questione del cosiddetto dualismo kantiano e di una possibile radice comune delle due facoltà, questione assai complessa e dibattuta, che nell’analisi di Battaglia è connessa – forse a scapito di un’analisi più strettamente epistemologica che indaghi il processo stesso dello schematismo – a “un carattere specifico della concezione dell’autocoscienza che emerge dal pensiero kantiano”, vale a dire quello dell’impossibilità di un’“assoluta trasparenza a se stesso”. 
Alla base della coscienza non vi sarebbe quindi secondo Kant una forza fondamentale unica che, di fatto, si manifesta solo a tratti nella sua trasparenza. È da questa opacità e finitezza di conoscenze rispetto all’autocoscienza che Battaglia, citando Kant (A 848/B 876-A849/B877), inaugura un’analisi della psicologia che a livello epistemologico non può aspirare a costituire una scienza: “è dunque nient’altro che uno straniero ospitato da tanto, e al quale si concede un soggiorno per qualche tempo, fino a che egli potrà accasarsi da sé in una particolareggiata antropologia (analogo della dottrina empirica della natura) (123)”. 
In questa prospettiva si potrebbe dire che Battaglia, ponendo l’accento sugli aspetti più strettamente antropologici, naturalizzi la psicologia kantiana. Se questa scelta da un lato porta a una certa esclusione della caratterizzazione delle facoltà e della loro interazione dall’ambito di indagine, dall’altro lato ha il merito di rilevare il ruolo che la dimensione corporea riveste nell’elaborazione del pensiero. Seguendo il filo rosso delle relazioni tra dimensione corporea e ragione speculativa, per indagare più in generale la dimensione dello psichico in Kant, Battaglia analizza la distinzione tra senso interno e senso esterno, confronta Kant con le posizioni di Schwedenborg e Sömmering sulla questione della sede dell’anima fino a giungere a evidenziare come per Kant sia impossibile applicare una metodologia definitoria per descrivere la dimensione psicofisica dell’uomo. È allora il paradigma chimico che meglio può descrivere questa condizione come una dimensione dinamica in cui non tutti gli elementi possono essere definiti in maniera esatta. La dimensione umana quindi si caratterizza ancora una volta nella tensione tra soggettivo e oggettivo in cui la finitezza della conoscenza oggettiva induce l’uomo a impiegare principi soggettivi della ragione per orientarsi nel pensiero e nell’interazione con altri individui. In questa dimensione razionale, imprescindibile da quella morale il cui dischiudersi “produce lo sdoppiamento dell’uomo rispetto a se stesso” (163), Battaglia riconosce il punto di partenza dell’antropologia kantiana: “Solo se si intende l’antropologia come antropologica razionale, cioè come un’autointerpretazione che si articola nella dimensione razionale umana allora si può chiamare antropologica la filosofia di Kant” (166).
È infine l’uomo un progetto a più mani? Battaglia nel suo libro mostra sicuramente alcuni dei gesti che formano secondo Kant l’essenza dell’uomo e del suo fare. Di questa dimensione sistematica ancora molto rimane da indagare e il libro di Battaglia mostra ancora una volta l’esigenza di tessere i tanti fili delle riflessioni kantiane e cercare di intenderne gli intrecci e le lacune. 


Indice

Avvertenza
Ringraziamenti
Introduzione
1. Antropologia
2. La teoria della vita
3. Psicologia
Conclusione. L’uomo un progetto a più mani
Bibliografia

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