giovedì 4 ottobre 2012

Sacchi, Dario, Le ragioni di Abramo. Kierkegaard e la paradossalità del logos

Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 144, euro 19, ISBN 9788856841794 

Recensione di Antonio Giovanni Pesce – 04/05/2012 

Una storia della filosofia dei nostri tempi non potrebbe tralasciare Dario Sacchi, teoreta finissimo, che in quest’opera si confronta con Kierkegaard, avendo già dato saggio del suo pensiero in opere come Libertà e infinito (2002) e Lineamenti di una metafisica di trascendenza (2007). E come in queste, in Le ragioni di Abramo Sacchi non lusinga il suo lettore: non sono libri facili i suoi, perché sono libri scritti da un filosofo per filosofi, e non già per turisti del pensiero.


E i problemi, quando sono davvero tali, non vanno smussati, ma affrontati e vinti (o, almeno, lo si spera).
Il percorso descritto dal filosofo milanese è davvero impegnativo: innanzi tutto, dimostrare che il pensiero kierkegaardiano non cede alla facilità dell’irrazionalismo. Si tratta, semmai, di appropriarsi degli strumenti giusti, per sceverare quell’abisso di senso che i suoi scritti celano. Una razionalità più ricca di quella ‘mostrata’ da una ragione che, come la luce artificiale, appiattisce senza dare profondità: la profondità che solo un corpo, col suo carico di individualità, può dare. 
Il primo capitolo è dedicato ad approfondire proprio questo aspetto, e Sacchi distingue sia il male che il tempo dal concetto di spazio: “eppure a dispetto di tutte queste dottrine, spiritualistiche o addirittura scopertamente idealistiche, e dei loro fittizi ancorché lontani antecedenti aristotelico-scolastici, la verità è che nell’estensione, e quindi nella corporeità, permane un quid positivo che è del tutto assente dallo spirito e che quest’ultimo non potrà mai, per dir così, digerire o assorbire – in termini più dotti, trasfigurare o trasvalutare – in maniera tale da farlo esistere eminenter dentro di sé, così come si dice che nell’animale esiste eminenter la vitalità del vegetale e che nell’uomo si ricapitola tutta la natura subumana” (p. 16).
Proprio questa conquista, che Sacchi sa leggere anche perché con il filosofo danese condivide l’evento dell’Incarnazione, apre a Kierkegaard la possibilità di un immanentismo che non chiude l’uomo nella virtualità di un’operazione mentale, e non gli preclude quella di una trascendenza che non neghi il mondo, vanificando di fatto il senso della Creazione. Dunque, il problema non è la dialettica in sé, ma quella hegeliana: vi è uno squilibrio tra corpo e anima – lo dice per sé lo stesso autore di Timore e Tremore -  con lo spirito che è la “coscienza, particolarmente lucida e vigile” che si ha di questa sproporzione. 
Ciò che io sono, quindi, è conquista, e non già ricordo, ed è per questo che lo spirito è “la seconda volta”, l’immediatezza riconquistata, “matura”. Così, Sacchi apre un capitolo molto denso sul senso della soggettività, che egli può affrontare senza naufragare nella sterile polemica, perché allievo di Bontadini, cioè di quel “metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno”, che seppe capire l’attualismo gentiliano pur partendo da una formazione neoscolastica, tanto da sembrarne, a distanza ormai di più di un sessantennio da quell’incontro, l’interprete migliore. 
 “Ciò che sta a cuore al pensiero soggettivo – scrive Sacchi in un dialogo serrato con Kierkegaard che non è di natura squisitamente storiografica ma speculativa, pur poggiando, all’occorrenza, sulle più attendibili e recenti ricostruzioni filologiche – e che costituisce il suo interesse pratico è l’appropriazione o interiorizzazione che il soggetto deve effettuare di quel che pensa, ossia il significato e il valore che il soggetto deve conferire, in funzione del suo esistere, a ciò che crede di conoscere della realtà” (p. 39). 
La verità, allora, non è una cosa da sapere, ma il modo di essere più autentico, e che dà senso al nostro esistere: “la soggettività è la verità” dice Kierkegaard, ma dietro questa espressione non vi è alcun richiamo relativistico, anzi. Il problema più grave da affrontare, e allo stesso tempo meno intellettualistico, è la propria esistenza: capire chi si è significa diventare ciò che si è sempre stati, anche se in modo immediato. La nostra libertà è questo ritornare bambini, questo accettare il nostro essere. 
Socrate è stato colui che ha “saputo scorgere nella verità eterna qualcosa che si rapporta a un singolo soggetto esistente” (p. 43): che io sia non è questione che si possa derubricare fra le tante, perché dalla risposta ne vale, innanzi tutto, del mio stesso essere. Ecco perché, nel farmi la verità che ho da essere, sono tutto pervaso da “timore e tremore”: credere o non credere, capirsi o non capirsi – un filo sottile come lama distingue verità e inganno. Non abbiamo garanzie, ma proprio il non averne indica che la ricerca è condotta con passione e che il risultato è dettato dalla sincerità. Metodologicamente, significa inoltre non darsi alla quiete del conformismo, né sentirsi mai appagati da una verità che, se è tale, non potrà mai essere vissuta interamente. Solo Gesù fu verità vissuta nella interezza: vero Dio e vero uomo. 
Kierkegaard si sente un po’ il Socrate del cristianesimo, e tuttavia gli muove la critica di aver dato inizio anche ad un’altra via speculativa, quella della reminiscenza: la verità è celata in me, e deve solo riemergere. E riemergerà “nonostante me”; riemergerà nella Storia, “banco da macello” degli individui. Reminiscenza e speculazione hegeliana non tengono conto dell’esistente che specula: del singolo che è spirito, ma anche corpo. Non sappiamo se Kierkegaard (e con lui Sacchi) sarebbe d’accordo, ma l’uomo non è spirito e corpo, ma identità che si dà, solo analiticamente, come spirito e corpo. Questo io ha queste fattezze, ha questo volto, anzi: è questo volto. Perfino l’estremo limite dell’io, la morte, non può essere superato senza portarsi dietro anche questa immagine che abbiamo di noi stessi. Non siamo spirito, ma neppure cadavere. Siamo noi, e il corpo è sempre quello degli altri quando è cadavere: prima, non c’è lo spirito dell’altro e il suo corpo, ma c’è l’altro nella sua interezza (e ogni altra analisi dell’uomo ha condotto agli aberranti esperimenti antropologici che stanno portando l’umanità a spegnersi).  
Si capisce perché sia Socrate che Kierkegaard si appellino al ‘singolo’, e non è uno scadere nel solipsismo, perché qui non c’è indifferenza per l’altro, ma la presa in carico di se stessi, del proprio essere: non un caso che sia proprio il peccato a isolare, come insegnano i grandi romanzi di Dostoevskij, perché “il mio peccato non riguarda nessun altro uomo fuori di me” (p. 63). E non è frutto di ignoranza, come lo stesso Socrate credeva, bensì del disconoscimento, attraverso un atto libero, di ciò che, invece, si deve essere perché si sia quello che già si è. In un passo del Diario, al quale Sacchi dà molto spazio e con buone ragioni, possiamo leggere: “c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non ci può essere questione di scelta e che pure è una scelta”. Scegliere se stessi in modo assoluto non è crearsi alla maniera sartriana, ma scegliersi in quanto orizzonte in cui finito e infinito si toccano, l’istante in cui ci si rapporta con Dio, avendone da questo incontro non già la svalutazione di se stessi (un perdersi in un vago misticismo) o quella del mondo, ma la conquista più salda, dialettica (nel senso kierkegaardiano di mediata) del proprio io – un io, a questo punto, fondato nel suo essere stesso. 
L’angoscia è questo presentimento di poter acquisire un’esistenza che ancora non si riesce a concepire. È l’essere che trasborda l’angustia dello spirito, e lo spirito soffre così “le doglie del parto”. In questo immenso mare di possibilità naviga la piccola navicella umana, e Sartre coglie il nesso tra l’angoscia per la libertà in Kierkegaard e quella per il nulla in Heidegger. Sacchi dedica pagine profonde alla lettura che l’autore di Essere e tempo fa del filosofo danese, riassumibile nell’accusa di essere rimasto legato a posizioni d’indagine pre-filosofica: insomma, un’analisi esistentiva più che esistenziale. “Dal punto di vista heideggeriano questo significa che, qualunque cosa egli possa fare, Kierkegaard non fa fenomenologia e non mira a scoprire le universali strutture ontologiche, gli ‘esistenziali’, come li chiama Heidegger, dell’esistenza umana” (p. 95). Ma questa universalità, che omologa il vissuto di ciascuno, non cade forse sotto la stessa critica che Kierkegaard rivolge ad Hegel? Questi ha ridotto l’uomo ad animale, perché degli animali è più importante il genere che non l’individualità. Ma l’uomo in che modo è l’Uomo? e il mio vissuto in che modo si fa storia conciliandosi con quello di altri miliardi di esseri? 
Sacchi mostra le analogie tra la critica che muove Kierkegaard e quella di  F.A. Trendelenburg (1802-72), ma l’obiezione si fa ancor più interessante quando se ne vedono anche le sfumature antropologiche e politiche. Il sistema hegeliano, allora, diventa l’emblema di un moderno ridotto a ‘buon senso’, a fariseismo, anticipando temi che, pur nella differenza dello scopo, saranno ripresi da Nietzsche: il “dio nato morto” di Ritschl, di Hermann, di von Harnack e di Troeltsch (cfr. Mark Lilla, Il Dio nato morto. Religione, politica e occidente moderno, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2009), di quel “protestantesimo culturale” di fine ‘800, che poi scriverà i discorsi del kaiser Guglielmo II e che pian piano andrà in disfacimento come i Buddenbrook di Mann. 
Kierkegaard, però, a Hegel non si oppone solamente: c’è una certa “aria di famiglia”, per dirla con Wittgenstein, perché “esistere è, in generale, divenire; l’esistenza è per ciò stesso dialettica, unione e disunione di finito e infinito, contatto fra i due che è al tempo stesso conflitto” (p. 112). Questione non nuova nel nostro panorama filosofico, e vissuta sullo sfondo di una tragedia più grande (il secondo conflitto mondiale). Nel 1943, sulle pagine di “Primato”, Gentile dovette difendere il suo attualismo e, con esso, la specificità della cultura nazionale, dall’esistenzialismo che faceva capolino grazie a giovani studiosi. La polemica sarebbe troppo lunga da trattare in questo luogo (cfr. G. Invitto, La presenza di Giovanni Gentile nel dibattito sull'esistenzialismo italiano, “Idee”, n. 28-29, 1995, pp. 175-184), ma anche allora il problema fu sull’esistente: poteva la logica hegeliana, e quella sua particolare riforma che è l’attualismo, dare conto, senza annientarlo, del ‘singolo’? 
La fede è ben altro che l’infinità rassegnazione: questi i termini della questione nel linguaggio del filosofo danese. E se la rassegnazione abbandona il mondo al suo destino di nullità, la fede lo trasmuta e fa emergere il suo vero valore, perché è nella fede che il particolare, in quanto tale, sta in rapporto con l’infinito. Scrive Sacchi: “l’ ‘infinità rassegnazione’ è negazione, la fede vera e propria è affermazione di ciò che prima è stato negato” (p. 125). E Abramo non nega il mondo né è rassegnato a perdere Isacco: egli sa che non perderà nulla, perché ciò che è impossibile all’uomo è possibile in Dio: “rinunciando in nome dell’eterno al temporale il credente ritrova il temporale come dono dell’eterno” (ibid.). Il mondo non è portatore di valore: al mondo bisogna dare valore, e il singolo, per dirla con una metafora, è quel luogo in cui si pesa il mondo con l’unità di misura dell’eterno. 
“Ma se – conclude Sacchi – torniamo a domandarci a quali condizioni possa darsi qualcosa che, non rientrando nei parametri né della filosofia greca né di quella hegeliana, si presenta effettivamente come un assurdo e per l’una e per l’altra, non potremo rispondere se non appellandoci a quella originarietà o intrascendibilità dello spazio (essenzialmente ignota ad entrambe le tradizioni di pensiero suddette) che abbiamo cercato di mettere in luce dall’inizio del presente studio e che si trasmette a, o si riverbera su, ogni individualità nella sua determinissima concretezza. Ecco allora quelle che, nonostante tutto, sono le ‘ragioni’ dell’assurda scelta di Abramo” (p. 130). 


Indice

Introduzione
Corporeità, singolarità, paradosso
La passione infinita
Scelta, peccato, angoscia
I conti con Hegel
Le ragioni di Abramo
Indice dei nomi

11 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Recensione consiste in gran parte di parenesi, cui procedere di tipo parenetico non essendo parenetico in sé, dunque poco trovandosene di filosofico ( a prescindere da afasia solo scritturale o forse intellettuale anche in espressione di essa ("infinità rassegnazione") tale non in sé ma a causa di registro culturale semantico di recensore stesso). Procedere di tipo parenetico cui recensire, non anche par-en-etico, cioè con esigenze di etica ma non etiche ed a considerazione non di mediazione e per causa ultimativa: perciò non soddisfacibili stesse esigenze cui recensore dava adito forse per esporle ad etica contraria, però cui sua stessa recensione di fatto esposta. Tali esigenze recensive e di mondo relazionatone — che non è mio mondo — furono e sono state con filosofia ricerca razionale di una alterità ignota, dunque non logico ricercare ma dialettico, corrispondente ad affermazione emotiva soggettiva di mondanità non universalità, queste finite prima di ricerche e ricerche con filosofia ora terminate ed in filosofia valutate già e non accolte.
Certamente, questo mondo senza più dimora in filosofico, non fu in pace col mondo della Riforma protestante, pensata per prudenza ad ignoto cui nessuna intuizione di Chiesa al riparo da nullificazioni, ignoto invece ricercato da quell'altro mondo, per troppo ottimismo o per ostinazione a lotta contro coincidenze... e questa parte si trovò a mutar destino, da non interessato a istanze religiose, a votatone: in vasta società politica sudamericana, ex marxista. Non così pensiero di recensore, che interpretava, con caparbio anacronismo e fino ad intromettersi in suo lavoro estraneità ad esso, esistentività "sartriana" realisticamente, cioè sofisticamente, non esistentivamente cioè, pretendendo da ciò di valutare non analizzare soltanto e pure supponendo da proprie analisi impossibile esito filosofico. Altresì Sartre avendo agito perché si conciliasse, kierkegaardianamente, singolarismo cui scritto titolato " Timore e tremore" con collettivismo in esso contraddetto non negato... non a sproposito citato da recensore che intendeva però farne distacco, inserto, ma cui parenesi non parenetica non atta. Dunque scrittura in recensione non antietica ma perché irrisolta non irresoluta... Essendo recensione un accadere non indifferente, per quanto individuazione senza identificazione: lavoro (appunto recensito) adduceva, non conduceva, a suo modo a profano 'aut aut', tra coerenza ma verso ingratitudine di destini culturali sociali politici o incoerenza verso destini prossimi non ingrati politicamente ma socialmente rischiosi e comunque culturalmente disastrosi. Cogenza di questa alternativa, non era intesa da recensore e suo mondo culturale, anche perché era pensiero di altro confine, appunto con mondo di cultura cristiana riformata... Ma era davvero, ignorarne prossimità, saggio, per giunta interessandosi agli interessatine, filosoficamente interessatine? I fatti odierni mostrano che non era saggio, che era anzi contro saggezza restare in sola filosofia senza saggezza filosofica, a rifiutare e altro cercare: mentre esistenzialità filosofica attuava ritorno ad interiorità però in unione di stessa vita filosofica, anche interiore – accaduto a favore del quale si era adoperato con successo Kierkegaard per sé e suo mondo, non solo culturale! – invece chi realisticamente criticava o refutava studi, critici o non, su cotal Operato, realisticamente restava senza ulteriori possibilità filosofiche culturali; sia perché filosofie cristiane, nonostante tutto, non sono in reciproca mortale opposizione, sia perché in Modernità - Contemporaneità la esistenzialità non è confinata in esteriore usufruibilità comunicativa e filosofie religiose non son tutte di religione né queste tutte soltanto.
...


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

...
Aveva un senso — durante anni ed accadimenti del fascismo citati in recensione — difendere cultura esistenziale italiana; ma entro i limiti di una saggezza culturale europea, entro la quale era sensato comprendere anche esistenzialità europea non italiana e apprenderne.
Ciò vero... non solo per gli anni e negli anni durante i quali il prof. Gentile difendeva non il Fascismo ma le organizzazioni dai fascisti sfruttate poi bisfrattate -e bistrattate, difesa attuata non opponendosene ma invadendo strutture gerarchiche fasciste, azione cui alcuni altri non fascisti e antifascisti diedero giudizio negativo e cui comunisti si opponevano e stalinisti quindi impegnandosi ad eliminare presenza di principale invasore ...e più vero dopo la caduta del Fascismo e dopo ancora, fino ad evidenza odierna, di verità appunto, in tempi di antifascismo più circostanziato giudiziariamente e di crisi di competenze in Istituzioni statali... Crisi cui avrebbe potuto evitare una vita interiore affatto diversa, cui invece molti troppi fattisi alienare.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Filosofia 0rganica, cui F.A. Trendelenburg (1802-72), era, dialetticamente, uno strumentalismo, anche solo logico. Pensarne, aiuta a intender di pensiero di Kierkegaard intento critico particolare e a capire come, dove! identificare suo pensiero vero, che non era critico contro strumentalità filosofica ma non favorevole a sorti non scelte di esse.


Ciò verso cui vera filosofia di Kierkegaard sarcastica fino a doversi presentare con finzione letteraria, era falso valore morale di fede in Assoluto qual ostacolo a violenza, cui invece attribuibile utilitarismo etico, non etica stessa né morale.
"Timore e tremore", era letteratura che presentava discrasia tra serenità di vera originarietà abramitica, attestante sola palese teatralità e proprio di mezzo gesto, e tragicità drammaticità di ultimo più recente esempio abramitico, dell'Abramo cui pochezza quasi nullità di santità cioè non il gioco non ambiguo ma il pentirsi anche di essersi accinto a gesto cui fede avendo inibito a compimento ma non inibito inizio; cui solo non decadenza adamitica avrebbe impedito del tutto. Teologi del Nuovo Patto di Adamo, ma pure cristianesimo goto, indicavano necessità di un ritorno ad Evento pre-adamitico, entro cui far accadere resto degli eventi storici determinanti; a ciò, in ciò, erano già Umanesimo e Rinascimento, ma con accadere ch'era stato voluto senza sèguito, con grave enigma di posteri; con soluzione che era già in poesia di stesso Rinascimento, alla fine chiusa in sentenze morali cui vero senso non era il dono ma appello a non ignota alterità, data incapacità di uno stesso mondo storico a trovar rimedio a corruzione contro eventualità naturali...
Allora chi sarebbero gli altri, per i quali pentimento di ultimo Abramo incomprensibile erranza ed impossibile destino proprio, cui destino di abramitici pentimenti ritenuto non abbastanza degno ad esistere anche di altri, inviso e giudicato debole?

Erano i goti, i poeti del Rinascimento; era stesso mondo incontrato da S. Kierkegaard, che poneva e faceva porre nel ridicolo criminologico la mezza morale, atea, dell'evitare fine non evitare inizio.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Socrate inoltrando e inoltrandosi dalla sola saggezza alla filosofia disse di verità quale realtà soggettiva, perché la saggezza occidentale cominciasse a porsi su conoscere non aver conosciuto; Kierkegaard non pensava di contraddire questo evento, però non ne scorgeva futuro a causa di altro rapporto ad Assoluto ed a Vita necessario a Modernità del suo mondo, che non traeva sua forza vitale sufficiente da spontaneità intellettuale immediata quale il mondo greco e che non era senza necessità filosofiche tuttavia non dirette né preponderanti.

Trovatosi a risolvere paradossalità non diversa da interrogativo antico, non danese, ma elleno, di salvare capra e cavoli durante tragitto in barca, ne intendeva riferire a intuizioni esistenziali, singolari!, qual cercar alghe per saziar capra, ma pure la soluzione astratta, insegnare a capra attesa diversa da sorti senza umani o senza cose umane pure... Senonché non solo intendeva che erano circostanze degli elleni a muovere quello esempio, anche ricordava bene che suoi dilemmi erano di altri generi di accadimenti, civili e poco vicini a natura e cui contrattempi ostili a naturalità; per esempio convenzioni sociali di fatto sfavorevoli a coincidenze sessuali... Ma in mondo greco solo se intrusioni esterne ciò problema possibile... Non in Danimarca del Secolo Decimo Nono, dove erano illusioni civili potenti ed inganni sociali conseguenti... Perciò per Kierkegaard si trattava di capire altro interrogativo:
'Come amare una donna non ancora data già destinata ad altro, se tutti attorno non ne pensano bisogni presenti e le sottraggono occasioni?'
Risposta sua, fu di dedicarsi a critica filosofica, religiosa e sociale, quale strumento per capire e vincere contrarietà ambientali impeditive. In questa scelta, Egli si trovò a fronte di altro, Dilemma: come esser filosofi in tanto desiderio materiale, senza prima averne soddisfazione e per averne poi?
In mondo greco, invece ponesi diretto domandarsi: quale strategia difensiva usare per difendere obiettivo di materia sessuale, chi sono i nemici?
Il teologo Kierkegaard ne sapeva già, di suoi nemici, ma per difendersene si sarebbe dovuto far uccisore e rapitore, di amici e parenti di quella che amava e con inedita di ella medesima.
Non però lo scrupolo morale per il solo averci pensato lo tormentò, né il pentimento di aver valutato di dare la morte; anzi il pensarne e il non averne fatto gli aveva dato serenità e gioia; ma v'erano altrui attese e convinzioni che lui avesse scrupoli e pentimenti. Questa invenzione sociale, fu descritta con l'opporne altra, una pubblicazione anonima, con inventato stesso Soggetto narrante, cui pensieri rispecchiava altrui condizione, gli incubi assassini di una società tanto distratta fino a genocidio. Per questo, fu detto che letteratura espressionista avesse con filosofia preceduto quadri di espressionismo pittorico...

...


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

...

"Il Soggetto e I suoi pensieri"... da Kierkegaard introdotti in società letteraria, mostravano debolezza di civiltà, intrisa di ateismo e col divieto di dire la Eternità senza prima aver desiderato incontro con incapace sessuale; altresí mostravano la insufficienza — da parte delle filosofie universitarie più delle scolastiche limitate a programmi per esteriorità non conoscitiva ma definitoria — ad identificare  –secondo propria razionalità cui non assieme la decisività propria di ogni vero àmbito filosofico– anche solo i fatti possibili da temere concretamente: omicidi e genocidio.
In ambienti europei di 'post totalitarismo comunista' situazione mortale cui Kierkegaard si oppose è esistita ed esiste uguale, è più grave, non per errori su destini mondani, ma su cose; in particolare circa effetti di sostanze psicoattive... A calcolarne correlati diretti – cioè gli incidenti gravi e mortali a causa di effetti non saputi gestire o a causa di circostanze in cui effetti non gestibili, di sostanze psicoattive– si potrebbe dedurre: più della metà dei morti e feriti e non tanto per strade, in incidenti diretti e indiretti, registrati da burocrazie di Stati Occidentali, e di non registrati forse più che altrettanti casi... Statistiche – di cui io avevo ed ho altra intuizione e di cui non potrei avere intellezione precisa – che furono anche stilate da esperti; e condizioni ritornate uguali o peggiori di quando tali studi statistici... A morire tanti bambini o persone da altri dipendenti, quali ad esempio viaggiatori in bus con autisti ubriachi.


Analogia tra Modi di Socrate e modo di Kierkegaard, non è rappresentabile in comunicazione di messaggi, bensì da saper pensieri ed eventi; riferibili non a veleni (e vinti) ma ad amplessi (e con orgasmi).



MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In penultimo messaggio :

' e con inedita di ella medesima '

Sta per:

e con inedia di ella medesima.


(Espressione con 'inedita' mi era nota da ricerche culturali che avevo svolto durante viaggi turistici, anche in Danimarca. Stava a significare: sceneggiata mortale con scenata non mortale, circa false o vere vittime di stupri o su evenienze rischiose per vita sessuale e vita. Era uso verbale còlto in ambienti nobiliari, uso verbale immediato in ambienti marinari o simili... Dedussi che era noto a stesso Kierkegaard e rappresentava pericolo di non comunicabilità a causa di necessità sociali contrarie a culturali.)

Reinvierò.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Socrate inoltrando e inoltrandosi dalla sola saggezza alla filosofia disse di verità quale realtà soggettiva, perché la saggezza occidentale cominciasse a porsi su conoscere non aver conosciuto; Kierkegaard non pensava di contraddire questo evento, però non ne scorgeva futuro a causa di altro rapporto ad Assoluto ed a Vita necessario a Modernità del suo mondo, che non traeva sua forza vitale sufficiente da spontaneità intellettuale immediata quale il mondo greco e che non era senza necessità filosofiche tuttavia non dirette né preponderanti.

Trovatosi a risolvere paradossalità non diversa da interrogativo antico, non danese, ma elleno, di salvare capra e cavoli durante tragitto in barca, ne intendeva riferire a intuizioni esistenziali, singolari!, qual cercar alghe per saziar capra, ma pure la soluzione astratta, insegnare a capra attesa diversa da sorti senza umani o senza cose umane pure... Senonché non solo intendeva che erano circostanze degli elleni a muovere quello esempio, anche ricordava bene che suoi dilemmi erano di altri generi di accadimenti, civili e poco vicini a natura e cui contrattempi ostili a naturalità; per esempio convenzioni sociali di fatto sfavorevoli a coincidenze sessuali... Ma in mondo greco solo se intrusioni esterne ciò problema possibile... Non in Danimarca del Secolo Decimo Nono, dove erano illusioni civili potenti ed inganni sociali conseguenti... Perciò per Kierkegaard si trattava di capire altro interrogativo:
'Come amare una donna non ancora data già destinata ad altro, se tutti attorno non ne pensano bisogni presenti e le sottraggono occasioni?'
Risposta sua, fu di dedicarsi a critica filosofica, religiosa e sociale, quale strumento per capire e vincere contrarietà ambientali impeditive. In questa scelta, Egli si trovò a fronte di altro, Dilemma: come esser filosofi in tanto desiderio materiale, senza prima averne soddisfazione e per averne poi?
In mondo greco, invece ponesi diretto domandarsi: quale strategia difensiva usare per difendere obiettivo di materia sessuale, chi sono i nemici?
Il teologo Kierkegaard ne sapeva già, di suoi nemici, ma per difendersene si sarebbe dovuto far uccisore e rapitore, di amici e parenti di quella che amava e con inedia di ella medesima (e troppo rischiosa in società a dirsi senza peggior caso).
Non però lo scrupolo morale per il solo averci pensato lo tormentò, né il pentimento di aver valutato di dare la morte; anzi il pensarne e il non averne fatto gli aveva dato serenità e gioia; ma v'erano altrui attese e convinzioni che lui avesse scrupoli e pentimenti. Questa invenzione sociale, fu descritta con l'opporne altra, una pubblicazione anonima, con inventato stesso Soggetto narrante, cui pensieri rispecchiava altrui condizione, gli incubi assassini di una società tanto distratta fino a genocidio. Per questo, fu detto che letteratura espressionista avesse con filosofia preceduto quadri di espressionismo pittorico...

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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

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"Il Soggetto e I suoi pensieri"... da Kierkegaard introdotti in società letteraria, mostravano debolezza di civiltà, intrisa di ateismo e col divieto di dire la Eternità senza prima aver desiderato incontro con incapace sessuale; altresí mostravano la insufficienza — da parte delle filosofie universitarie più delle scolastiche limitate a programmi per esteriorità non conoscitiva ma definitoria — ad identificare –secondo propria razionalità cui non assieme la decisività propria di ogni vero àmbito filosofico– anche solo i fatti possibili da temere concretamente: omicidi e genocidio.
In ambienti europei di 'post totalitarismo comunista' situazione mortale cui Kierkegaard si oppose è esistita ed esiste uguale, è più grave, non per errori su destini mondani, ma su cose; in particolare circa effetti di sostanze psicoattive... A calcolarne correlati diretti – cioè gli incidenti gravi e mortali a causa di effetti non saputi gestire o a causa di circostanze in cui effetti non gestibili, di sostanze psicoattive– si potrebbe dedurre: più della metà dei morti e feriti e non tanto per strade, in incidenti diretti e indiretti, registrati da burocrazie di Stati Occidentali, e di non registrati forse più che altrettanti casi... Statistiche – di cui io avevo ed ho altra intuizione e di cui non potrei avere intellezione precisa – che furono anche stilate da esperti; e condizioni ritornate uguali o peggiori di quando tali studi statistici... A morire tanti bambini o persone da altri dipendenti, quali ad esempio viaggiatori in bus con autisti ubriachi.


Analogia tra Modi di Socrate e modo di Kierkegaard, non è rappresentabile in comunicazione di messaggi, bensì da saper pensieri ed eventi; riferibili non a veleni (e vinti) ma ad amplessi (e con orgasmi).



MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Periodo verbale inviato:

'Allora chi sarebbero gli altri, per i quali pentimento di ultimo Abramo incomprensibile erranza ed impossibile destino proprio, cui destino di abramitici pentimenti ritenuto non abbastanza degno ad esistere anche di altri, inviso e giudicato debole?'

è strutturato da logica naturale cui letture possibili solo quelle non criminali né differenti da pre' adamitiche o proprio tali. Per chi non ne fosse avvezzo, allego spiegazione ed invito a usarne per rileggere quanto avevo già inviato.


'Allora chi sarebbero gli altri, per i quali pentimento di ultimo Abramo - nonostante fosse pentimento - essendo, ugualmente ad iniziarsi di quella azione (non atto), incomprensibile erranza anche se delitto non compiuto, e tutto quanto di ciò essendo impossibile destino proprio, sia di incertezza che di fermarsi dal far il male, cioè destino di abramitici pentimenti ritenuto non abbastanza degno ad esistere anche di altri, inviso e giudicato debole? '


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In mio messaggio precedente,

'pre' adamitiche'

Sta per:

pre-adamitiche .


Reinvierò.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

!
Periodo verbale inviato:

'Allora chi sarebbero gli altri, per i quali pentimento di ultimo Abramo incomprensibile erranza ed impossibile destino proprio, cui destino di abramitici pentimenti ritenuto non abbastanza degno ad esistere anche di altri, inviso e giudicato debole?'

è strutturato da logica naturale cui letture possibili solo quelle non criminali né differenti da pre-adamitiche o proprio tali. Per chi non ne fosse avvezzo, allego spiegazione ed invito a usarne per rileggere quanto avevo già inviato.


'Allora chi sarebbero gli altri, per i quali pentimento di ultimo Abramo - nonostante fosse pentimento - essendo, ugualmente ad iniziarsi di quella azione (non atto), incomprensibile erranza anche se delitto non compiuto, e tutto quanto di ciò essendo impossibile destino proprio, sia di incertezza che di fermarsi dal far il male, cioè destino di abramitici pentimenti ritenuto non abbastanza degno ad esistere anche di altri, inviso e giudicato debole? '


MAURO PASTORE