giovedì 13 dicembre 2012

Bergson, Henri, L’evoluzione creatrice

a cura di Marinella Acerra, Milano, BUR, 2012, pp. 387, euro 11,90, ISBN 9788817054959

Recensione di Carlo Scognamiglio - 08/06/2012

L’evoluzione creatrice viene pubblicata per la prima volta nel 1907, quando Bergson è ormai persuaso della necessità di replicare al positivismo non solo negando all'intelligenza scientifica la capacità di cogliere il senso del tempo, e cioè di spiegare la vita interiore, ma lasciando esplodere la critica nella direzione di una divaricazione radicale tra conoscenza scientifica e intuizione vitalistica. La conseguenza di questo lavoro è profonda: la scienza, per sua stessa natura, è funzionale, ma del tutto inadeguata a comprendere la natura, che non è statica, ma vitale.

Conserva cioè, in sé, le medesime caratteristiche di fluidità del flusso coscienziale. Bergson non disdegna la scienza, ma la critica con finezza. La scienza ha una naturale inclinazione a isolare sistemi, a pensarli in modo astratto. Tuttavia tale operazione falsificante, in quanto i sistemi isolati non possono, a rigore, esistere, non è sbagliata in sé, altrimenti mai e poi mai ci affideremmo alla ricerca. Il fatto, ritiene di poter dimostrare Bergson con ricchezza di esempi, è che una tendenza all'isolamento nella natura esiste, ma non si completa mai: "se la scienza va fino in fondo e isola completamente, è per comodità di studio" (p. 19). Le "cose" non esistono, sono solidificazioni prodotte dal nostro intelletto. Oggetti, contorni di oggetti, sistemi chiusi, sono nostre fissazioni di tendenze naturali, ma sono inesatte, sono gli schemi del tipo di influenza che noi, con le nostre azioni, saremmo in grado di esercitare su quella materia. Lo stesso dicasi per il concetto di individualità, che neanche per l'uomo si realizza completamente. Ma noi questi concetti continuiamo a usarli. La ragione, ribadisce Bergson, sta nella loro funzionalità, per cui un dato di sistematicità nella natura ci autorizza a parlare di individualità, e la natura sembra tendere a costituire sistemi isolati, per cui pare rafforzare in noi questa tendenza, legittimandola. L'intelligenza galileiana, in realtà, esercita su di noi una forte attrazione perché "soddisfa un'inclinazione innata" (p. 29), ma non si deve equivocarne il senso. La natura ha evolutivamente generato l'intelligenza astraente e oggettivante per tutt'altro motivo che per offrire una via alla spiegazione della vita stessa. Si tratta di un struttura a vocazione pratica, non teorica. 
Un secondo colpo ben assestato è dedicato da Bergson all'approccio finalistico. Egli nega si possa parlare di finalismo immanente, considerato a suo avviso una contraddizione in termini, in quanto il finalismo implica sempre un elemento esterno. Ora, l'estensione dello schema teleologico alla scienza della natura è solo un'indebita estensione della nostra esperienza di attori della nostra vita, su altri campi del mondo. Io agisco perseguendo fini, creo similitudini col passato per anticipare il futuro, ma rispetto alla natura si tratta di  un'antropomorfizzazione. Bergson non accetta il positivismo, ma non vuole neanche ricongiungersi con l'idealismo, sostenendo che il finalismo (immanente o trascendente che sia) non differisce dal meccanicismo nel suo difetto principale: la paura del caso. In realtà, l'evoluzione della natura è del tutto casuale, o meglio, imprevedibile. "In quanto geometri - spiega Bergson - respingiamo l'imprevedibile" (p. 51). Bergson ci esorta a mettere da parte l'intelligenza e a usare il sentimento, nel senso forte della parola: "non appena usciamo dagli schemi in cui il meccanicismo e il finalismo radicale costringono il pensiero, la realtà ci appare come un'esplosione continua di novità" (p. 53), rispetto alla quale meccanicismo e finalismo altro non sarebbero che tendenze all'astrazione e fissazione intellettuale. La causa delle variazioni, nella natura, è una forza chiamata "slancio”.
Con il proseguire dell'analisi, avanza la messa a fuoco dell'intelligenza, capace di mettere in relazione materia a materia, punti spaziali a punti spaziali, ma sempre in maniera estrinseca e superficiale, priva di profondità e di capacità di contatto con la vita. Essa si differenzia dall'istinto, che è pura simpatia, contatto diretto con le operazioni vitali, che procede dunque in direzione opposta rispetto all'intelligenza. Ma esiste poi una terza facoltà, l'intuizione, che ci riporta anch'essa dentro la vita, in modo però disinteressato (contrariamente all'istinto). Se l'intuizione disinteressata è propria dell'esperienza estetica, è sull'impronta dell'arte che dovrebbe costruirsi la nuova filosofia. La filosofia non può accettare di prender per buoni i dati delle scienze e giocare a far da metodologia o da critica dei saperi. Secondo Bergson essa deve dirigersi in senso inverso rispetto all'intelligenza, capace solo di una "verità simbolica". "Il dovere della filosofia sarebbe, dunque, d'intervenire attivamente, di esaminare il vivente senza il secondo fine di un'utilizzazione pratica liberandosi dalle forme e dalle abitudini propriamente intellettuali" (p. 191). Con l'avanzare dell'argomentazione, il panteismo bergsoniano si fa sempre più spinto, fino alla definizione delle anime come "ruscelletti tra i quali si divide il grande fiume della vita" (p. 258), e al collegamento di tutti i sistemi: "tutti i viventi sono collegati, e tutti cedono alla stessa formidabile spinta" (id.).


Indice:

Un’introduzione alla filosofia di Bergson  
Cronologia
Bibliografia
Nota alla traduzione
L’evoluzione creatrice:
Cap. I – L’evoluzione della vita. Meccanismo e finalità
Cap. II – Le direzioni divergenti dell’evoluzione della vita. Torpore, intelligenza, istinto
Cap. III – Significato della vita. L’ordine della natura e la forma dell’intelligenza
Cap. IV – Il meccanismo cinematografico del pensiero e l’illusione meccanicista. Uno sguardo sulla storia dei sistemi. Il divenire reale e il falso evoluzionismo
Guida alla lettura

2 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Le affermazioni che il recensore acclude di H. Bergson provvidenzialmente eccedono le sintesi adoperate da recensore stesso, adoperate perché in realtà esse sono organizzate topologicamente secondo convenzioni che si potrebbero far risalire a circostanze vissute da Platone ma a rigor di logica sono più originarie, modellate cioè sul "senso comune", proprio quello leggendario di Santippe, consorte di Socrate, quando non aveva voglia di sapere e di tacere. Santippe non era apostola di comunanze ma terribile scocciatrice, difatti si tratta di cronache di litigi familiari; diversamente le ostilità che non da stesso mondo greco erano portate contro la saggezza filosofica del disinganno di cui per nulla anacronistico ne è il ricordo perché attualmente proprio le medesime sono state finanche eccessive e ai danni della stessa memoria storica della filosofia greca antica e contro l'intendimento della contemporanea. Santippe diceva "cose" sia per rammentarsi concretezza sia per dare concetto generale astratto, non perché volesse amare la sapienza né per odiarne, ma per litigare... e nessuna cosa pareva esistere per il suo consorte quando pensava alla sua donna e non a tutto il resto attorno. Le ostilità contro la saggezza greca non differivano dai capricci di Santippe ma gli ostili dicevano "cose" per dimenticare le nuove cose. Ugualmente nei nostri tempi gli ostili fanno dire a filosofi, filosofanti, filosofeggianti, per far loro involontariamente o non deliberatamente celare quale sarebbe il nonsenso di stesso dire, che "le cose non esistono"; gli ostili amano far dire questa espressione perché non vogliono capire l'intelligenza naturale a disposizione di qualsiasi essere umano. Quali sarebbero le cose che non esistono? Le cose pensate senza determinazione intuitiva dunque realtà esistente ma non riferita direttamente e descritta per solo rappresentare. Dire dell'universo senza intuizione universale, per esempio di case o vestiti senza intuizione particolare, questo si può rappresentando tutto senza descriverselo in mente. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... Viene in mente l'Opera celebre di Schopenhauer su mondo e rappresentazione ed a ragione perché essa si fonda su idealismo platonico oltre che su critiche kantiane... Ai tempi di Socrate girava gente che temeva case e vestiti dei greci perché non ne intendeva e ne negava le funzioni ed utilizzi. Supponendo questa gente ancora impotenza, ma questa terminata con la fine del mondo pelasgo nella Penisola della Ellade, disdegnando stessa gente i modi suggeriti dai greci, essa medesima si relegava in impotenza in tutto uguale ai suoi tempi andati, trascorsi prima della nascita delle stirpi greco-ellene, perché proprio essa si arrischiava con mari e climi marittimi con oramai... false prudenze! Case e vestiti degli elleni così come pensati da questa gente, non esistevano! Nei nostri tempi non esistono solo le vuote disastrose convenzioni linguistiche e mentali delle masse, la realtà nonostante tutto non è solo quella delle folle, che ottengono senza capire cosa e perché; eppure è di massa, viene imposta dalle folle, minime o massime e anche diradate, la immaginazione di una materialità diveniente... che tutto è e che tutto forma e che sempre è uguale a se stessa... ; ma tale immaginazione non è più di una rappresentazione perché non è riferibile all'universo ed inoltre non è un veritiero rappresentarsi il mondo, ma sorta di teatro, mimesi della morte di gente senza più destino... non di genti, queste determinatamente coi diversi rispettivi destini etnici, non "le genti"; ma di gente, sbandata, confusa, interessata più a morire che a vivere perché delusa dal proprio destino, senza voler provare piacere neppure per i colori del cielo né delle acque né delle terre con flore e faune neppure dei deserti, codesti parendo loro familiari ed invece rivelando loro brama ingiusta di stare in mezzo a ciò che avrebbero voluto sempre uguale ai tempi della sola Asia-Eurasia-non-Europa... E dunque adesso queste moltitudini per dispetto sognano il divenire più tranquillo di un mondo che non esiste e che poteva esistere di nuovo soltanto a prezzo di sciagura immane o per fatalità catastrofica non fato né fatale disastro... Dopo tanti veri inganni dal Sud e maggiori proprio per i sapienti, parendo il clima europeo dominato dall'africano, ora i nuovi segni agli istinti ci sono ed allora c'è la recita di massa più abietta ed estrema, di chi si figura le novità come se fossero dei cambiamenti progressivi. Ma finanche la agricoltura non può funzionare obbedendo a questi dispettosi sogni e neanche la tecnologia, tanto che, faccio un altro esempio, le decisioni necessarie di limitare l'uso dei motori "diesel", che funzionano con gasoli o nafta, cioè prodotti più grezzi della benzina, a causa dei nuovi freddi e soprattutto notturni, si scontrano con disappunti come leggendari, non dico come mitici perché ancor di più sono le distorsioni e negazioni intellettuali di masse di individui per i quali i resti di motori inadeguati, anche quelli di ciclomotori (che non sono motocicli né motociclette) oramai inadatti al clima europeo, "non esistono"... Invece, pur troppo ma vero!, tante brutte cose ed inadeguate esistono ancora! Ma anche tante di più belle di prima se ne sono aggiunte; per esempio di alcune notti i chiarori direttamente artici...
Se non tutto è preda delle semplici folle, che agiscono senza vero scopo, che fanno a vuoto, in apparenza gentili ed invece pericolosissime, la topologia che novera di tali folle gli schemi dovrebbe essere citata con prudenza, attenzione alle possibili incomprensioni anche da parte di chi vuol o vorrebbe capire.

MAURO PASTORE