venerdì 20 settembre 2013

Revelli, Marco, I demoni del potere

Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 97, euro 14, ISBN 978-88-420-1.

Recensione di Antonella Ferraris - 09/12/2012

Il nuovo libro di Marco Revelli presenta una riflessione sul volto nascosto del potere. Nelle nostre società democratiche, la convinzione comune è di poter controllare l’esercizio del potere attraverso le istituzioni e la regolamentazione del consenso. Invece proprio gli aspetti più drammatici della attuale crisi economica in atto, che ha condotto sull’orlo della miseria ampi strati delle popolazioni del cosiddetto occidente evoluto, hanno evidenziato il ritorno del potere nel suo aspetto più rude e barbarico, 

il Kratos, che risale ad una dimensione pre- politica, addirittura pre-olimpica, poiché le divinità della Grecia, per la prima volta hanno rappresentato il volto luminoso e “addomesticabile” dell’autorità, attraverso il Logos (la parola) e il Nomos (la legge). Se il modello greco della gestione della crisi globale ha visto emergere un potere invisibile che si sostituisce o pretende di sostituirsi al “gioco” delle regole democratiche, la riflessione di Revelli sulle immagini demoniache del potere, tutte tratte dal mondo antico, giunge a proposito. 
Nella tradizione occidentale, il modello giusnaturalistico, nato nel Cinquecento e diffusosi sino ai giorni nostri nella forma del contrattualismo, ha sempre contrapposto il potere  della Legge, nato dall’accorto palese tra i contraenti, al potere naturale, razionale ma individuale. Tra i critici dell’ordine giusnaturalistico, Hans Kelsen, il maggiore esponente del positivismo giuridico del Novecento,  scrive nel 1926 che chi si inoltra nell’ignoto al di là della Legge e delle sue espressioni, non potrà che incontrare lo sguardo della Medusa. La metafora, in prima lettura, sta a significare l’aspetto barbarico del potere, ma, secondo Revelli, questo è appunto il primo livello di interpretazione. La forza della Medusa sta nello sguardo, che pietrifica chi si pone frontalmente ad esso: pietrificare significa allontanare da sé, diventare estraneo, una cosa, un animale minacciato. La Medusa rappresenta la minaccia che si nasconde dietro ogni forma di potere, l’aspetto occulto, patologico e dunque anche paranoico: il potere che simula vive nel timore della stessa dissimulazione degli altri.  Revelli sottolinea come l’espressione “aver visto la Gorgone”, in un’accezione simile a quella di Kelsen, venga usata anche da Primo Levi in Se questo è un uomo, per indicare i “mussulmani”, gli uomini che hanno toccato il fondo e sono ormai cadaveri ambulanti, pietrificati, in un certo senso, dall’annullamento di sé che è Auschwitz. Dietro la Gorgone, il Kràtos, quello che secondo  il linguista Emile Benveniste rappresenta la forza nel suo aspetto più totale (e brutale): l’attributo della forza, nel mondo greco, può essere positivo o negativo, ma è più spesso il secondo con la sua ferinità che viene evidenziato; in Esiodo, inoltre, viene personificato come figlio del Titano Pallante e della dea fluviale infernale Stige. E’ un personaggio poco rassicurante, esattamente come il mostro evocato da Thomas Hobbes, il Leviatano. Nonostante la sua origine biblica (il libro di Giobbe, tradizionale epitome dell’origine del male sulla Terra), il mostro evocato da Hobbes appare in epoca moderna, quando il rapporto con il potere si è del tutto  affrancato dall’etica. La concezione machiavelliana, che enfatizza il monopolio della forza da parte del sovrano, separa con decisione il potere dall’ethos e ne fa uno strumento irresistibile. La stessa caratteristica si trova nel Leviatano,  la cui forza, tuttavia, è diventata autofondante  grazie all’artificio dello jus  e del patto sociale: un meccanismo,  come tale artificiale, che viene dagli uomini, per gli uomini, e consente di superare l’aspetto selvaggio della Natura. A questo, probabilmente, si riferiva Kelsen in una sua celebre citazione: il fondamento “naturale” del potere, una volta cessato il freno costituito dallo  jus e dal patto, non si lega alla razionalità, ma precisamente al suo contrario, una natura selvaggia e sfrenata che mostra non il suo volto ordinato, ma al contrario quello più demoniaco. Per tornare  al mito della Medusa, lo stesso scudo di Perseo, l’eroe vincitore, non è altro che un manufatto, cioè un artificio, prodotto della ragione; non a caso Perseo tradizionalmente porta con sé il ruolo di fondatore di città e di redentore.  Negli autori moderni la violenza del Kratos viene messa in secondo piano dalla dialettica contratto - norma, pronta a riemergere come immagine (io direi piuttosto come spettro) nel momento in cui si tratta di far rispettare l’accordo o viene violata la Norma fondamentale (pacta sunt servanda). La violenza si esercita quindi come strumento, come minaccia o come uso legittimato dalla legge: in questo modo il sistema politico occidentale  ha funzionato per alcuni secoli, salvo riemergere nella sua forma più brutale proprio in Germania, uno dei paesi dove Kelsen  ha insegnato. In anni recenti, la globalizzazione ha sfidato il paradigma tradizionale della politica poiché, indebolendo le funzioni sovrane degli stati nazionali, necessita di una nuova definizione dei paradigmi internazionali del governo. In questo contesto fluido la guerra, cioè la violenza usata come soluzione di problemi, è emersa con maggiore frequenza, e in modo sempre meno controllabile dalle forme consuete di negoziazione politica.
Il successivo mito del potere analizzato da Revelli è egualmente molto noto ed è quello di Ulisse e del canto delle Sirene.  Esse vengono cronologicamente subito dopo la Gorgone di Kelsen grazie a Horkheimer e Adorno che ne fanno il simbolo della vittoria della ragione sul mito (e dunque della fine della preistoria). Le Sirene sono predatrici metà uccello e metà donna, che affascinano con il loro canto e per questo vengono associate alle Muse. Vengono citate da numerosi autori antichi (Apollonio Rodio, Strabone, Platone), ma il  testo più antico e alla fine il più famoso è il canto XII dell’ Odissea  di Omero, che ne stabilisce sin da subito la fama e l’importanza. Il canto si trova a metà del poema, segue il viaggio di Ulisse nell’aldilà, dove incontra i compagni d’arme morti a Troia, e precede il ritorno ad Itaca e l’inizio delle vicende relative al ritorno a Itaca,  alla riconquista del proprio regno e della propria donna.
A differenza della Medusa, il potere delle Sirene sta nel canto: che cosa dicono le Sirene ad Ulisse? Che con il loro canto egli trarrà un nuovo piacere e acquisirà un nuovo sapere, dovuto al fatto che loro conoscono le vicende di Troia e dei suoi eroi, delle avventure vissute e dei dolori che hanno patito. A questo punto le interpretazioni sono diverse, dato che ogni verso omerico si presta alla costruzione di immagini e metafore dai molteplici significati. Horkheimer e Adorno, e in anni più recenti anche Jon Elster, hanno evidenziato il potere costruttivo della ragione sulla naturalità rappresentata dal canto delle Sirene.  Ulisse, infatti, si fa legare all’albero maestro della nave, dopo aver tappato le orecchie dei suoi marinai con la cera. Il canto delle Sirene è infatti letale: chi  lo ascolta  naufraga sugli scogli circostanti. Con il suo stratagemma Ulisse può sia ascoltare il canto, sia impedire il naufragio della sua nave. Questa è la ragione tecnico-pratica all’opera, sostengono Horkheimer e Adorno: ha sconfitto il mythos, e allo stesso tempo ha determinato una sorta di gerarchizzazione del suo uso. Solo alcuni hanno il potere di utilizzarlo lasciando gli altri ad una ideologia costruita altrove.  Quello di Ulisse è un artificio, che però, secondo gli  autori della Dialettica dell’Illuminismo, muta il significato storico del linguaggio, rompe il legame mitico magico tra parole e cose (le prime possono agire sulle seconde) e supera anche l’immobilità del destino che per gli antichi era immutabile e già “detto”, cioè predeterminato. A questo si sostituisce il racconto dotato di senso con cui l’uomo  ri-costruisce il suo passato e determina il proprio futuro: è questa l’astuzia della ragione di Ulisse, che porta ordine nelle vicende dell’uomo. Tra le altre, la successiva interpretazione di Elster in Ulisse e le Sirene si fonda su questa proprio per ribadire l’uso tecnico della ragione come fattore di rivendicazione di autonomia del Sé rispetto ai desideri e alle pulsioni naturali (non a caso questo risultato viene ottenuto con uno strumento esterno, ossia le corde che imprigionano Ulisse all’albero maestro) in nome di una decisione presa, anche se è necessario forzare la ragione a mantenersi fedele ad essa.  Secondo Sloterdijk  l’episodio è una tappa fondamentale del lungo e faticoso cammino di Bildung in cui il genere umano acquisisce la sua autonomia e si affaccia all’età adulta separandosi dall’uomo mitico. Il racconto, come il diritto e la legge, mette ordine, in questo caso nella storia; ma anche qui qualcosa ha spezzato questo ordine. Auschwitz rappresenta tanto per Primo Levi, quanto per Elie Wiesel, che sono sopravvissuti, l’indicibile. I testimoni, che sono tornati per raccontare, sono l’eccezione; la regola, per dirlo sempre con le parole di Levi, sono i sommersi, quelli che hanno visto la Gorgone e non sono tornati: di loro nessuno potrà mai veramente raccontare perché dalla morte non si torna: il secolo breve ha ucciso il racconto.
L’ultimo capitolo unisce le due voci differenti in un unico punto di vista, quello della seduzione operata dal potere, ancor più evidente ora che la sovranità, in generale, ha cessato di essere occulta.  Questa seduzione, analoga per molti versi a quella operata dalla pubblicità e dal marketing , è lo storytelling che serve a imporre un comportamento, un’idea, una visione della realtà da parte di chi la propone: un esempio noto è costituito dal ruolo degli spin doctors nelle campagne elettorali americane, dove il racconto, gli aneddoti, le leggende servono ad  orientare il consenso verso il candidato. Questi racconti sono per lo più anonimi, come quelli della pubblicità, almeno per il  destinatario finale. Che questo sia un racconto pietrificante lo dimostra lo scoppio della seconda guerra del Golfo, quando i racconti menzogneri delle autorità americane avvolsero il mondo in una ragnatela di inganni invano contrastati dalle parole della ragione. L’efficacia del racconto postmoderno è stata già evidenziata da Pier Paolo Pasolini. Il suo ultimo film, Salò - Sade, nonostante l’esibizione di varie nudità, non ha nulla della gioiosa passione liberatoria delle sue pellicole precedenti, al contrario: si parta di torture e di morte contemplate (non inflitte direttamente) da quattro personaggi che rappresentano il potere in tutti i suoi vari aspetti (politico, giudiziario, economico e religioso) su giovani e donne assolutamente inermi. La raffigurazione di Pasolini riduce il potere alla sua dimensione di possesso e di esercizio della forza, la sua assoluta arbitrarietà trasformata dalla metafora in legge, dove la parola è servile sottomissione al potere. Il film di Pasolini costituisce la metafora, alla fine degli anni Settanta, di quello che la cronaca di anni recenti  ci ha restituito, gli orrori di Abu Graib, ad esempio, tutti documentati e finiti in rete. Per noi rimane solo il silenzio assordante del linguaggio, intanto la Grecia, che ancora galleggia nella crisi dell’euro, mette a disposizione, in affitto, i suoi tesori.


Indice

Introduzione
Il volto di Medusa, ovvero il potere e lo sguardo
Il canto delle Sirene, ovvero il potere e l’ascolto
Il canto della Gorgone, ovvero le Sirene del potere
Epilogo
Note

Nessun commento: