lunedì 17 febbraio 2014

Paolini Paoletti, Michele, Leibniz e la metafisica dell’esistenza

Villasanta, Limina Mentis, 2013, pp. 334, euro 20, ISBN: 978-88-95881-92-8

Recensione di Osvaldo Ottaviani - 08/06/2013

Il volume di Michele Paolini Paoletti propone un’indagine a tutto campo sulla metafisica leibniziana incentrata sulla nozione di “esistenza”, che, secondo l’autore, è la nozione centrale di ogni sistema metafisico. Volendo rimanere all’interno di un’indagine condotta con i mezzi della sola ragione, non vi è dubbio che il sistema di Leibniz sia il tentativo più coerente e, per certi versi, [a]il più estremo, di penetrare con la pura ragione nel “mistero insondabile” dell’esistenza.

Da qui l’idea di porre come tema generale della ricerca la nozione di esistenza, la cui chiarificazione si articola in una serie di otto domande, cinque delle quali sono proprie di ogni riflessione sull’argomento (quelle relative alla definizione dell’esistenza, all’individuazione del soggetto portatore della stessa, all’esistenza del mondo, e così via[b]), mentre le altre tre appartengono al modo propriamente leibniziano di trattare la questione, e riguardano il rapporto tra l’esistenza e la “realtà” dei puri possibili, il rapporto tra essenza ed esistenza e, soprattutto, quello tra esistenza e perfezione. Con un notevole gusto per la simmetria, alle otto domande poste nell’introduzione l’autore fa seguire una serie [c]un’esposizione divisa in otto capitoli, che, tuttavia, non sono posti in corrispondenza biunivoca con le suddette domande, ma tendono a seguire più da vicino lo sviluppo, anche diacronico, del pensiero leibniziano.
 Il cap. 1 analizza nel dettaglio il primissimo scritto leibniziano, la Disputatio metaphysica de principio individui (1663), nella quale il giovane filosofo prende posizione relativamente al problema, tradizionale nella discussione scolastica, del principio d’individuazione. L’autore espone innanzitutto la struttura dell’opera, quindi si sofferma sulla critica leibniziana dell’existentia come principio d’individuazione, una posizione che Leibniz riprende da Suárez. La tesi suáreziana difesa dal giovane Leibniz asserisce che l’individuazione è posta entitate tota, ossia mediante tutta l’entità dell’ente[d]. Alla radice di questa scelta vi è già la netta preferenza di Leibniz per una soluzione di tipo univocista, volta a rinvenire un principio d’individuazione valido per tutti gli enti. Nonostante questa scelta, Leibniz non si avvicina al partito degli scotisti, anzi critica questi ultimi per il loro realismo estremo nella dottrina degli universali. Per il Leibniz della Dissertatio, infatti, quella tra esistenza ed essenza può essere solo una distinzione di ragione, il che significa che esistenza ed essenza non sono veramente separabili a parte rei ma solo distinguibili a partire dalle operazioni astrattive dell’intelletto. Il rapporto che viene così a stabilirsi tra essenza ed esistenza è analogo a quello tra potenza e atto, col risultato di far coincidere le nozioni di realitas ed existentia (un punto su cui il Leibniz maturo cambierà radicalmente idea)[e]. Tuttavia, più che nel testo in sé, l’interesse della Disputatio risiede nel fatto che vi si possono già trovare delineati tre «orizzonti d’indagine» (p. 46) entro i quali si muoverà la successiva riflessione leibniziana: si tratta del persistere del tema dell’individuazione entitate tota che, una volta che Leibniz avrà sviluppato la sua teoria della verità come inclusione del predicato nel soggetto, troverà sbocco nell’idea del concetto completo, per cui il soggetto è individuato dalla totalità dei suoi predicati; in secondo luogo, del problema della realitas dei puri possibili e, infine, del problema della distinzione tra essenza ed esistenza, che si concentrerà soprattutto intorno alla questione se l’esistenza possa essere considerata una proprietà dell’essenza o una nozione irriducibile alla prima.
La discussione dell’ultimo punto [f]viene portata avanti nel cap. 2, dove si affronta il nodo del rapporto tra esistenza e perfezione. L’autore chiarisce come a partire dagli anni ‘70 Leibniz muti radicalmente la sua dottrina delle essenze, per cui le essenze puramente possibili non sono più pari a nulla ma posseggono ora una certa realitas, di modo che per ens (possibile) si dovrà intendere quod distincte concipi potest (p. 51); dove, però, non è la concepibilità dell’ente che sta alla base della sua possibilità, bensì il contrario, altrimenti non potrebbero esservi essenze senza un soggetto che le pensi. È su questo che Leibniz [g]polemizza con Cartesio e propone la sua revisione dell’argomento ontologico. Prima di discutere l’argomento ontologico leibniziano, però, l’a. si sofferma a spiegare la nozione di perfectio, evidenziando come fino al 1677 Leibniz aderisca all’idea per cui vi è una pluralità di perfezioni, definite come qualità assolute, primitive e semplici, cioè non riducibili ad altre più originarie e non contenenti negazioni ed è sulla base di questa definizione che Leibniz sviluppa la sua dimostrazione di possibilità dell’ens perfectissimum. Tuttavia, l’argomento ontologico si basa pur sempre sull’idea che l’esistenza sia da annoverare tra le perfezioni, il che significa farne un attributo dell’essenza. Leibniz comincia a dubitare di questo a partire dal 1677, come è ben documentato dal carteggio col cartesiano Eckhard. I risultati del carteggio sono essenzialmente due: il primo consiste nel passaggio da una concezione pluralistica delle perfezioni a una concezione della perfezione (al singolare) come quantitas seu gradus realitatis (p. 76), cioè come l’unità di misura della realtà di un’essenza, relativizzando in questo modo la nozione di perfezione. In seguito a questo primo ripensamento, Leibniz arriva a mettere in dubbio anche che l’esistenza possa essere equiparata a una perfezione, fermo restando il problema di capire in che modo l’esistenza, pur non essendo una proprietà, possa aggiungere qualcosa a un ente puramente possibile (p. 81).
Nel cap. 3 la discussione si sposta dall’esistenza di Dio a quella del mondo, e dall’ontologia all’epistemologia. All’esistenza del mondo, infatti, sono connessi due problemi di natura epistemologica, quello del rapporto tra esistenza e sensibilità e quello dell’esistenza del mondo esterno. Mentre nel caso di Dio l’esistenza risulta derivabile dalla sua essenza, in quello di tutti gli altri enti l’unica attestazione della loro esistenza sembra essere fornita dalla sensibilità. Il che non significa che la natura delle cose esistenti venga a coincidere con la sensibilità, bensì che quest’ultima costituisce l’unico criterio di esistenza accessibile per noi. Anche questo è un punto problematico, però, perché se è vero che tutto ciò che è percepito in modo chiaro e distinto esiste, l’inverso (cioè che tutto ciò che esiste è percepito o, meglio, è percepibile) richiede una dimostrazione. È qui che subentra il problema del dubbio cartesiano circa l’esistenza del mondo esterno. L’intento di Leibniz è primariamente quello di individuare uno o più criteri sufficienti a differenziare le sensazioni illusorie da quelle reali. A questo riguardo, la risposta leibniziana al dubbio cartesiano può sembrare sconcertante: gli unici criteri che gli uomini sono in grado di fornire sono quelli basati sulla sensuum congruentia, ossia sulla conformità delle sensazioni tra loro e con i fenomeni passati e (soprattutto) futuri, cioè su una sorta di criterio coerentista in base a cui selezionare i fenomeni reali rispetto a quelli immaginari. Tuttavia, come Leibniz onestamente riconosce, questo argomento non è affatto conclusivo ai fini di una dimostrazione dell’esistenza del mondo esterno, poiché gode solo di una “certezza morale” (‘pragmatica’, diremmo noi) [h]e non di una certezza metafisica.
 Rispetto alla questione dell’esistenza, i capp. 4 e 5 forniscono alcune importanti precisazioni relative a concetti fondamentali quali la ragion sufficiente, intesa come ratio existendi, e il rapporto tra le sostanze individuali (monadi) e il mondo che esse rispecchiano. La nozione centrale da cui l’autore muove è quella di series rerum, che designa l’unità e l’interconnessione degli elementi del mondo già a livello di pura possibilità (in mente Dei). Il fatto che vi siano infinite serie possibili, nessuna delle quali è di per sé necessaria, chiama in causa l’esistenza di un essere necessario che si ponga come ragion sufficiente del passaggio all’atto di una sola di queste serie. È Dio che, soppesando il livello di perfezione e di armonia di ciascuna serie, decide quale sia la più degna di passare all’atto, mentre gli uomini possono comprendere solo a posteriori che quella attuale è la migliore delle serie possibili. L’a. prende in esame i concetti di requisitum e di causa plena, dove il primo è ciò senza di cui una cosa non può essere, mentre la seconda è definita come la ratio di una cosa nell’ordine della produzione, cioè l’insieme dei requisiti sufficienti a far esistere quella cosa. Sorge la questione se l’esistenza siano uno dei “requisiti” ( p. 124), questione cui si dà una risposta negativa dal momento che l’esistenza «non è un requisitum né della res né della series rerum, ma consegue dai requisita della res e della series rerum grazie alla scelta divina» (p. 129). Il criterio in base a cui Dio sceglie una serie per l’esistenza non è intrinseco alla serie stessa, ma si colloca al di fuori di essa ed è determinato dalla comparazione operata da Dio tra tutte le serie possibili.
Il cap. 6 analizza lo statuto dei possibili, tenendo ben distinte le due questioni relative, rispettivamente, alla possibilità e alla realtà dei possibili prima della creazione. Per quanto riguarda la prima, Leibniz riprende da Scoto l’idea che il possibile in quanto tale sia definito come ciò che non è contraddittorio, e, nella prospettiva ‘essenzialista’ adottata da Leibniz, questo significa che a tutto ciò che non è contraddittorio corrisponde un’essenza. Ciò non significa, però, che tutto ciò che è possibile logicamente (cioè ogni essenza) sia anche effettivamente realizzabile. Alla distinzione tra possibilità logica e possibilità esistenziale (o fisica) si affianca quella tra necessità logica, che pertiene all’essenza di tutte le cose in quanto tali, a prescindere del mondo cui appartengono, e necessità fisica, che è una necessità esistenziale, dipendente dall’appartenenza delle cose al mondo attuale. La concezione leibniziana del possibile contiene anche una critica tanto del necessitarismo spinoziano quanto del volontarismo cartesiano. Il problema riguarda lo statuto delle verità e delle essenze prima della creazione e consiste nel provare a conciliare le due opposte esigenze di garantire un qualche essere agli oggetti pensati da Dio (che non possono ridursi a un puro nulla) e, nello stesso tempo, di evitare di sostanzializzare quest’essere fino al punto da renderlo indipendente dall’essere divino. Anche in questo caso la soluzione di Leibniz si muove sulla scia di Scoto: le idee nella mente divina possiedono solo un esse intelligibile che coincide col loro essere conosciute da Dio stesso; ma, si faccia attenzione, questo riguarda la realtà dei possibili, non la loro possibilità, che invece è garantita esclusivamente dall’assenza di contraddizione (p. 209); anche se qui sorgono dei problemi sullo statuto del principio di non-contraddizione)[i]. Infine, la realtà dei possibili prima della creazione non va confusa con l’esistenza in senso proprio, poiché si tratta esclusivamente della loro sussistenza nell’intelletto divino.
Il passaggio dalla realitas all’esistenza vera e propria è al centro del cap. 7. Qui l’autore[j] afferma giustamente che vi è una sorta di primato della realitas sull’esistenza, dal momento che gli enti creati esistono proprio in funzione della loro realitas e della perfezione, che misura la realtà di ogni essenza. Il motivo per cui esistono determinati enti invece di altri risiede nella disparità di perfezione tra le essenze, perché, per assurdo, se tutte le essenze fossero ugualmente perfette, godrebbero tutte dello stesso diritto a esistere e, quindi, esisterebbero tutte quante. Le ragioni dell’esistenza di un determinato gruppo di enti – che formano un “mondo” – sono date dal principio dell’armonia e dalla volontà divina, poiché Dio sceglie di creare esattamente quel mondo che abbia il massimo grado di armonia rispetto a tutti gli altri mondi possibili. Questo legame tra esistenza e armonia viene indagato anche dal punto di vista di ogni singolo ente che, oltre a una certa realitas, contiene in sé anche una tendenza a esistere che è sempre proporzionale al suo grado di realtà o perfezione. Uno dei problemi che l’a. discute a lungo risiede nel capire in che misura Leibniz riesca a distinguere tra l’esistenza in atto e la tendenza a esistere degli enti. In ultima analisi, però, risulta abbastanza chiaramente che l’esistenza viene concepita in primo luogo come una proprietà della series rerum (o mondo) e, solo secondariamente, come una proprietà dei singoli individui. Ragion per cui, se l’esistenza di un ente aggiunge qualcosa alla semplice essenza, si tratterà soltanto della compatibilità di quell’ente con la maggior quantità di enti possibili o, meglio, “compossibili”. Leibniz, quindi, non fornisce una definizione vera e propria di esistenza, ma si limita a indicare la ragione per cui un mondo passa dalla pura possibilità all’esistenza attuale.
Quest’ultimo punto, ovviamente, riguarda solo l’esistenza degli enti finiti e porta con sé il problema della creazione da parte di Dio. Il cap. 8, allora, passa in rassegna le tesi leibniziane relative all’effettiva libertà divina nella creazione del mondo, soffermandosi in modo particolare sulla risoluta negazione che si possa dare una volontà senza oggetto di scelta, dal momento che la volontà è sempre diretta dall’intelletto, cioè dalla conoscenza dell’oggetto voluto.
Infine, nella conclusione, dopo aver riassunto i risultati principali della sua ricerca, l’autore mette a confronto i risultati ottenuti con la critica mossa da Bertrand Russell alla concezione leibniziana dell’esistenza. Il punto di Russell consisteva nel mostrare che Leibniz da un lato ammette che l’esistenza non possa essere una proprietà analitica ma sintetica (ovvero qualcosa che non appartiene al concetto di una cosa) mentre, dall’altro, accettando l’argomento ontologico, deve anche ammettere che l’esistenza è una proprietà analitica, contenuta nel concetto di Dio. In opposizione a Russell, l’a. prova a mostrare come si possa intendere la prova ontologica leibniziana senza ricadere nelle obiezioni di Kant-Russell, per poi argomentare che la distinzione analitico/sintetico non è la più adatta a designare la differenza tra l’esistenza di Dio e quella degli enti creati e, infine, discute se veramente si possa imputare a Leibniz di aver fatto dell’esistenza un predicato. Si tratta di riflessioni estremamente stimolanti (anche per chi le ritenga non del tutto condivisibili)[k], che però meriterebbero una più estesa trattazione a parte. Al netto di saltuari dissensi su alcuni punti specifici, si tratta di un’esposizione esaustiva, rigorosa e sufficientemente chiara di uno dei concetti fondamentali della metafisica leibniziana. L’unico neo che il recensore si sente in dovere di segnalare è dato dalla gran quantità e dalla lunghezza talvolta eccessiva delle citazioni, alcune delle quali, forse, potevano essere discusse agevolmente in nota, tutte presentate nell’originale senza traduzione; il che, oltre a rallentare molto la lettura del testo, rischia di essere uno scoglio insuperabile per il lettore interessato che fosse digiuno[l] di latino.


Indice

Introduzione

Abbreviazioni

I. Esistenza e individuazione
1) La Disputatio del 1663
2) L’existentia come principio di individuazione
3) Suárez sull’existentia e l’individuazione
4) Leibniz, l’individuazione e la distinzione di ragione
5) L’apertura di ampi orizzonti di indagine

II. L’esistenza è una perfezione
1) Ens ed essentia
2) La nozione di perfectio
3) La lettura leibniziana dell’argomento ontologico
4) L’existentia è davvero una perfezione?

III. L’esistenza del mondo esterno
1) Existentia, sensibilità, contingentia e spazio-tempo
2) Esistenza del mondo
3) Due problemi sull’esistenza del mondo esterno
4) Dalla mente, e non dal corpo

IV. La ratio existendi
1) La series rerum 
2) I requisita ad existendum
3) La causa plena
4) Il principio di ragion sufficiente

V. Monadi e mondi
1) La substantia individualis
2) Le tre vie verso la definizione della substantia
3) Le monadi
4) I mondi
5) La monade e il mondo

VI. Lo statuto dei possibili
1) Il tema dei possibili in Leibniz
2) Il necessitarismo di Wycliff, Spinoza e Hobbes
3) Il volontarismo di Descartes e la posizione di Suárez
4) Duns Scoto e la scolastica moderna
5) La realitas dei possibili secondo Leibniz

VII. L’esistenza: esse extra causas
1) Difficoltà nel definire la nozione leibniziana di existentia
2) La perfectio come gradus realitatis
3) La harmonia come perfectio universi
4) Exigentia existentiae
5) Existentia mundi
6) Le proposizioni esistenziali
7) Esse extra causas

VIII. Alle radici dell’esistenza: creazione e libertà divina
1) Possibilità e libertà: Arnauld contra Leibniz
2) La libertà
3) Inclinazione e limite formale dei possibili
4) La creazione
5) Creazione e libertà: due problemi

Conclusioni
Bibliografia

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