mercoledì 19 febbraio 2014

Cerrato, Francesco, Un secolo di passioni e politica. Hobbes, Descartes, Spinoza

Roma, DeriveApprodi, 2012, pp. 172, euro 16, ISBN 9788865480649

Recensione di Marco Storni –  02/12/2013

Nella Politica (I, 1253a 7-8), Aristotele definisce l'uomo «un essere socievole (πολιτικὸν ζῷον) molto più di ogni ape e di ogni capo d'armento» (così anche in Etica Nicomachea I, 1169b 18 leggiamo: «l'uomo, infatti, è un essere politico e portato naturalmente alla vita in società»), evidenziando dunque la socievolezza quale tratto connaturato all'uomo come tale. Parecchi secoli dopo, in un'Europa dove «non solo gli assetti politici, religiosi e culturali subiscono profondi rivolgimenti, ma cambia anche l'affettività e la percezione del proprio sé degli individui e dei gruppi sociali» (p. 5),

nuovi intelletti rifletteranno sui caratteri intrinseci all'essere umano e sul rapporto fra questo singolare animale e la sfera politica: l'ultima fatica di Francesco Cerrato indaga appunto tali tematiche in riferimento a tre dei più grandi filosofi secenteschi: Hobbes, Descartes e Spinoza. Lo studio di Cerrato, diviso in tre capitoli, analizza il pensiero di ciascun autore (con riferimento specifico ad alcuni testi chiave, ossia il Leviatano, le Passioni dell'anima e il Trattato politico), strutturando per ognuno un percorso analogo: una presentazione della teoria delle passioni, debitamente contestualizzata nel quadro epistemologico tratteggiato dal filosofo di volta in volta studiato, è seguita da una discussione su «quale tipo di relazione [sussista] tra le modalità attraverso le quali l'uomo entra in rapporto con la propria emotività e i modelli di relazione sociale e di potere politico enunciati, talvolta in forma implicita, nelle opere di questi autori» (p. 7). Il risultato è un testo agile e piacevole, che se da un lato guida il lettore digiuno di filosofia alla scoperta di tre “giganti del pensiero”, presenta d'altro canto allo studioso tesi interpretative di grande interesse.
Il primo capitolo è dedicato a Hobbes, di cui subito si evidenzia lo scarto rispetto alla trattatistica cinquecentesca in materia di affettività: il pensatore di Malmesbury, già negli Elements, rifiuta nettamente una classificazione rigida e definitiva delle passioni, che serva poi d'appoggio a strategie di sublimazione. Per quale motivo? In termini hobbesiani, ogni esperienza affettiva ha natura parziale ed eccezionale, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di universalizzare: le differenze fisiche tra gli uomini, le loro opinioni pregresse, e così via, ridicolizzano qualsiasi tentativo di ricomprendere le sfaccettate passioni dell'anima sotto una teoria coerente e lineare. Ma occorre andare più a fondo. Posto che «per Hobbes le emozioni non sono altro che una serie continua di movimenti del corpo» (p. 17), egli riesce ad individuare per tali moti corporei una matrice fisica comune: il conatus (egli stesso, nel cap. IV del Leviatano, definisce tale concetto come segue: «questi piccoli inizi di movimento all'interno del corpo umano, prima che si manifestino nel camminare, nel parlare, nel percuotere e in altre azioni visibili, sono comunemente detti conatus» (ed. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 41-42)). Il conatus, concepito come una risposta passiva dell'organismo a una stimolazione esterna, è tratto distintivo del singolo, la quale passo passo va a costituirne la peculiarità e unicità: «A seconda degli incontri e delle esperienze di vita, le immagini si susseguono in un flusso continuamente cangiante. […] La vita si dipana nel tempo come flusso continuo di sensazioni, immagini, emozioni e pensieri» (p. 21). Accanto al movimento conativo, bisogna tuttavia annoverare un altro elemento di importanza capitale: il tempo. Per rendersi conto del suo ruolo centrale, basti rivolgersi di nuovo alle parole di Hobbes: leggiamo nel Tractatus Opticus che «tutto è movimento e rapporto di movimento e ogni cambiamento è un movimento» (p. 20) («intendendo con questo termine – precisa Cerrato – non la modificazione di una condizione spaziale, quanto piuttosto il passaggio a un tempo differente» (ibid.)). Chiude il cerchio la facoltà immaginativa, cui compete «la ricostruzione dello sfondo esperienziale all'interno del quale si realizza l'emozione» (p. 22): l'immaginazione, infatti, stende un ponte tra la modificazione del conatus «realizzatasi nell'ambiente» e la disposizione corporea, che poggia su sedimentazioni passate e costantemente guarda al futuro. Conclude dunque Cerrato: «Per questo motivo l'intensità e la peculiarità individuale di ciascuna passione si formano come relazione tra passato presente e futuro. […] Le nuove sensazioni si innestano sempre su un terreno già orientato» (p. 23). Poste così le basi del ragionamento, diviene ora possibile prendere di petto le questioni più urgenti: quale posizione antropologica emerge da tali presupposti? Quale ruolo viene attribuito, in simile contesto, al potere politico? L'uomo di Hobbes «è tragico e diffidente. Vive ricercando il piacere, vinto dall'ansia e dalla diffidenza verso il prossimo» (p. 16). La felicità medesima, che i filosofi spesso hanno descritto in modo così ingenuo, altro non è che (citando ancora dal Leviatano, ed. cit., p. 51) «il continuo successo nell'ottenere quelle cose che di volta in volta si desiderano […]. Mi riferisco alla felicità di questa vita, perché finché viviamo quaggiù non esiste nulla di simile ad una perpetua tranquillità di spirito. La vita stessa, infatti, non è altro che movimento e non può mai essere senza desiderio o senza timore, non più di quanto possa essere senza sensazione». Interessante è notare come Cerrato tenga a enfatizzare la componente temporale nella teoria hobbesiana: scrive egli, ad esempio, che «la mente può spostare in avanti ed estendere le emozioni su uno spettro di possibilità tendenzialmente infinito. Essa ha la capacità di prefigurare il tempo a venire. Le passioni si formano non solo in ragione di ciò che sentiamo e di ciò che abbiamo vissuto, ma anche in relazione a come si pensa e si immagina ciò che accadrà» (p. 32). Non abbiamo più dunque l'uomo come πολιτικὸν ζῷον o come ζῷον λὸγον ἔχων, ma piuttosto come «l'unico animale che ha la forza mentale di produrre un'idea di futuro» (ibid.). Si noti, però, come da tale protensione verso l'avvenire derivi all'uomo pure la consapevolezza che egli non può conoscere o prevedere le cause degli eventi che lo circondano, né tanto meno influenzarle: l'ἄνθρωπον hobbesiano vive perciò una perpetua “età dell'ansia”, che sul piano sociale si traduce nella costante minaccia di un bellum omnium contra omnes. Lo spettro della guerra permanente e della morte violenta aleggiano perciò sull'uomo di Hobbes, il quale non può trovare altro rifugio ai suoi timori che consociarsi e creare uno Stato. Non che, beninteso, le limitazioni pulsionali imposte dalle leggi positive non stiano strette all'esplicazione dei singoli conati: tuttavia, soltanto l'affidare tutti insieme la propria vita a un sovrano artificialmente istituito, il “Leviatano” appunto, può garantire pace e stabilità. È questa perciò l'unica scelta da farsi razionalmente. Ma come arrivare a tale logica conclusione, se il buon funzionamento del meccanismo di computazione razionale (la ragione, infatti, è per Hobbes un «meccanismo puramente formale: la nostra “natura di esseri ragionevoli” [consiste nell'essere] in grado di calcolare le nostre possibilità di autoconservazione» (A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, Roma-Bari, 1971, p. 44)) è impedito dalle troppe passioni? La risposta è semplice: il Leviatano stesso sfrutta alcune passioni «che rispetto ad altre favoriscono la scoperta dell'oggettività razionale della legge naturale. […] Speranza nel futuro e paura della morte sono emozioni favorevoli al mantenimento della pace» (p. 51). In definitiva, Hobbes si oppone all'idea scolastica (ma in seguito anche cartesiana) della possibilità di un controllo autonomo delle emozioni, e ne così delega ogni limitazione al potere politico.
Il secondo capitolo è dedicato a Descartes, pensatore che non si cimentò mai, perlomeno expressis verbis, nell'elaborazione di una teoria politica: obiettivo di Cerrato è quello tuttavia di «andare, con Descartes, oltre Descartes, forse attuando una forzatura ermeneutica non priva di spregiudicatezza. Ciò sarà fatto però nella convinzione che la rilevanza sociale e politica della riflessione cartesiana stia proprio nell'esplicito tentativo di presentarsi come non politica» (p. 71). Tale operazione parrebbe essere legittimata quantomeno dalla «influenza nella storia successiva della riflessione politica» (ibid.) di cui godettero i principi posti dall'autore delle Passioni dell'anima. Punto di avvio della disamina di Cerrato è il ben noto dualismo cartesiano, che rende il pensiero una res totalmente disincarnata: l'anima tuttavia, pur essendo realmente scissa dal mondo corporeo, «non è esente da condizionamenti naturali. Gli oggetti esterni, appresi attraverso i sensi, sono all'origine di una serie di rappresentazioni sensibili nella mente» (p. 75). Nel novero di tali rappresentazioni stanno anche le passioni: esse sono, per così dire, “pensiero passivo”, ovvero la ricezione nella mens (tramite il medium della ghiandola pineale) di un'attività estranea e che sfugge al controllo stabile della volontà. Descartes stabilisce così tra attività interne (mentali) ed esterne (fisiche) una intrinseca reciprocità: «ciò che nell'anima è azione, nel corpo è passione e, viceversa, ciò che nel corpo è azione nell'anima sarà passione» (p. 81). Attraverso un confronto con la teoria degli affetti proposta da Tommaso (con particolare riferimento alla nozione di “desiderio”), Cerrato mostra poi come Descartes, a differenza dell'Aquinate, ponga decisamente l'accento sulla componente soggettiva e intenzionale della relazione mente-mondo: non è la “condizione ambientale”, bensì la disposizione emotiva del soggetto a decidere la Bestimmung (cioè la “tonalità emotiva”, così come Heidegger la chiamava) che il desiderio viene ad assumere volta per volta. Allo stesso modo, le passioni non sono di per sé stesse mendaci o dannose (notiamo qui, di scorcio, tutto l'ottimismo antropologico cartesiano, che fa da contraltare al pessimismo hobbesiano): il soggetto può essere ingannato e spinto al peggio da un'apprensione inadeguata o imperfetta delle passioni stesse. Come ovviare a tale inconveniente? Descartes propone una soluzione che tiene significativamente conto dell'eredità tomistica: «il cogito non agisce direttamente sulle passioni. […] è  necessario che il pensiero razionale “utilizzi” l'immaginazione producendo rappresentazioni positive destinate a contrastare le “informazioni” negative originate dalla sofferenza del corpo» (pp. 96-97). Si tratta dunque di un calcolo costi-benefici: l'ego cogito di Descartes deve saper comprendere quando è possibile perseguire un dato obiettivo e quando invece non lo è, orientando di conseguenza la sua azione. Ma occorre a questo punto domandarsi: qual è il risultato, quale il frutto di un calcolo ben fatto? Risponderebbe il filosofo di La Haye: il valore altissimo della générosité, ossia l'attitudine di quell'uomo che (nelle parole stesse di Cartesio) «riconosce che niente gli appartiene veramente se non questa libera disposizione dei suoi atti volontari, né il motivo per il quale egli dev'essere lodato o biasimato, se non per averne usato bene o male; e in parte nel fatto che sente in se stesso un fermo e costante proposito di farne buon uso, cioè di non mancare mai della volontà, per intraprendere ed eseguire tutte le cose ch'esso giudicherà migliori. E questo è seguire perfettamente la virtù» (Le passioni dell'anima, ed. it. a cura di S. Obinu, Bompiani, Milano, 2006, art. CLIII, pp. 349-351). Resta però da trarre qualche conclusione in merito al rapporto del soggetto così concepito con il potere politico. I riferimenti espliciti al tema nelle opere cartesiane, come peraltro già indicato, sono rari e sfuggenti: l'idea è, in generale, che si debba praticare un atteggiamento conformista rispetto al potere costituito, quel «comportamento ubbidiente, rivendicato nelle pagine del Discorso sul metodo dedicate alla “morale provvisoria”» (p. 115), al fine di aver riconosciute la libertà e l'autonomia necessarie al “lavoro della ragione”. È l'intelletto disincarnato che deve sapere guidare e anzi emendare gli aspetti più dannosi delle passions de l'âme, improntando la propria vita civile ad una razionale sottomissione alle gerarchie naturali (come al sovrano, così anche a Dio). Il legislatore a sua volta, nello svolgere il proprio compito, deve utilizzare prudenza e conservatorismo, riconoscendo «razionalmente i limiti della realtà» (p. 114): il sovrano (inteso qui ancora come persona, e non come mera funzione) deve perciò adoperare nel governo gli stessi principi ben fondati che l'individuo adotta nella condotta privata.
Passiamo ora ad introdurre, sempre seguendo il cammino proposto dall'Autore, i caratteri essenziali della riflessione spinoziana. Il punto di partenza, come nel caso di Hobbes, è il concetto di conatus. Esso, tuttavia, si colloca entro un quadro totalmente differente rispetto a quello proposto dall'Inglese, contesto che Cerrato non esita a definire metafisicamente più complesso, e nel contempo maggiormente produttivo. «Il reale si produce in infiniti modi: in pensieri, corpi e probabilmente in una molteplicità di altri modi che l'uomo non può conoscere. Ciascun corpo definisce la propria essenza come perseveranza nell'essere» (p. 127). Il conatus diviene però in Spinoza solo una forza tra le tante che agiscono in natura, la quale trova origine nell'incontro tra un corpo e il mondo ad esso esterno, determinando il germogliare dei vari affetti all'interno del singolo. Rimarca l'Autore con chiarezza come la formazione delle passioni sia un processo «regolato sempre secondo una logica necessaria» (p. 131), il cui funzionamento complessivo è fotografato da ciò che Spinoza chiama “legge di natura”. Leggiamo nel capitolo IV del Trattato teologico-politico che «la legge che dipende dalla necessità della natura consegue necessariamente dalla natura stessa o definizione di una cosa» (in B. Spinoza, Opere, ed. it. a cura di F. Mignini, Mondadori, Milano, 2007, p. 493). Cerrato prosegue coll'analizzare le quattro essenziali caratteristiche della legge di natura: essa è universale, eterna, attingibile agli uomini tramite le nozioni comuni e infine (tratto forse più significativo) la sua conoscenza coincide per l'essere umano con il massimo grado possibile di felicità. Non è tuttavia impresa da tutti quella di ottenere un simile sapere, poiché troppo intenso è l'influsso disturbante delle passioni. «Per questa ragione, sarà necessaria l'istituzione della legge positiva che dovrà vincolare la restante parte dell'umanità alla pace» (p. 134). Per comprendere però la ragione di un simile “equivoco” nell'apprensione umana della legge naturale, occorrerà – seguendo il percorso tracciato da Cerrato – soffermarsi sulle strutture fondamentali della conoscenza umana, partendo dalla forma di apprensione più diretta, ossia l'immaginazione. Quest'ultima corrisponde al tipo di conoscenza più passivo e immediato, il cui carattere proprio è il “fraintendimento”. La conoscenza immaginativa, infatti, viene da Spinoza sostanzialmente identificata con le passioni del corpo, alle quali è accomunata da tre fondamentali caratteri: contingenza, immediatezza e carattere sintetico. A proposito di quest'ultimo tratto, è interessante notare come la conoscenza sensibile e immediata non si dia affatto per Spinoza come una riproduzione “oggettiva” del mondo esterno, ma sia piuttosto il frutto di un'opera di mediazione per tramite del corpo proprio di ciascuno. Scrive Cerrato che «quando immagina, l'uomo personalizza la realtà oggettiva; la riconduce e la interpreta esclusivamente attraverso la propria esperienza, rapportandola ai propri desideri e alle proprie paure» (p. 138). Il fatto che però condiziona maggiormente l'agire umano è quella “illusione volontarista” cui Spinoza fa riferimento nella celebre Appendice alla Prima Parte dell'Etica (su cui in questa sede eviteremo di soffermarci). Scrive ancora l'Autore, ben esemplificando l'esito teorico cui conduce la disamina spinoziana: «Per conquistare una condizione di maggior benessere non occorre attuare un “semplice” sforzo della volontà. Quest'ultima è solo la forma che assumono le idee inadeguate» (p. 140). Ma come migliorare la condizione umana in un simile contesto, entro cui nulla sembra lasciato alla libera iniziativa o al controllo dell'uomo? Ciò che Spinoza ha in mente non è, seguendo Descartes, di imporre un controllo della volontà sulle passioni: ciò sarebbe chiaramente impossibile. Si tratta piuttosto, da un lato, di agire sulla conoscenza, di elevarsi cioè dall'ignoranza di sé e del mondo circostante (togliendo una volta per tutte quella “illusione volontarista” cui prima si accennava) e pervenire ad una conoscenza mano a mano più adeguata della realtà. Dall'altro lato, si tratterà invece di lavorare sul versante pratico, attuando – come correttamente scrive Cerrato – «progetti, individuali e collettivi, di liberazione» (p. 141). Ciò significa che bisognerà sforzarsi di far prevalere, nella propria esperienza quotidiana, tonalità emotive gioiose, evitando il più possibile passioni tristi, le quali affliggendo il corpo influenzano negativamente anche il ragionamento. Si sarà così compreso lo stretto legame tra i due versanti della proposta etica spinoziana (pratico e intellettuale), nonché il profondo intreccio che Spinoza suppone esistere fra la mente e il corpo. Cerrato viene poi a considerare le forme di conoscenza adeguate, che cioè si allontanano da quella puramente immediata e passiva, per raggiungere gradi sempre maggiori di perfezione. Ciò che in questa sede interessa soprattutto evidenziare sono alcuni aspetti della proposta etica che Spinoza va plasmando. Essa, spiega l'Autore, più che una classica teoria etica dello scopo, è una teoria dell'effetto: essendo ogni dinamica, anche personale ed emotiva, regolata da leggi necessarie, non sono più in gioco volontà e scopi quando si viene a considerare l'azione, ma solo cause ed effetti. E chi viene quindi a essere l'uomo virtuoso? «L'uomo virtuoso è colui che, in ragione del fatto che conosce la struttura causale e necessaria delle proprie azioni, mediante tale comprensione può appropriarsi della necessità naturale fino a concepirla come del tutto coincidente con la propria libertà» (p. 147). Ciò detto, sembra opportuno volgersi alla portata politica di tali intuizioni spinoziane. Prima di fare ciò, sia consentito richiamare l'attenzione sulla considerazione che Cerrato propone in merito alla novità della proposta di Spinoza rispetto a quelle di Hobbes e Descartes. Cerrato accomuna esplicitamente la struttura delle teorie delle passioni hobbesiana e cartesiana, in ragione del fatto che entrambi i filosofi concepiscono le passioni del corpo in senso puramente negativo, ed entrambi tentano di emendare il pericolo da esse derivante con strumenti di controllo nettamente distinti dal corpo vivo individuale. Abbiamo nell'un caso (il Leviatano di Hobbes) un mezzo di controllo “esterno”, e nell'altro invece (la ragione disincarnata di Descartes) un mezzo “interno”. Spinoza invece «propone un modello di impiego dell'emotività individuale profondamente diverso. Egli pensa il governo degli affetti, a partire dal rifiuto di qualificare la ragione come istanza superiore e separata. La configurazione del rapporto tra emozioni e razionalità, esposta nell'Etica, può essere definita “a carattere integrato”» (p. 123). Prima di abbordare il discorso politico, è opportuno fare un'ulteriore premessa: Spinoza fa entrare anche in gioco il concetto di “passioni collettive”. Esse sono «affetti vissuti simultaneamente da più individui e ordinati secondo le regole dell'associazione immaginativa» (p. 152), ossia secondo un condizionamento che può essere interiore (nelle parole dello stesso Spinoza [Etica III, prop. XVII, ed. cit., p. 913]: «se immaginiamo una cosa, la quale suole suscitare in noi un affetto di tristezza, ha qualcosa di simile a un'altra che suole suscitare in noi un affetto ugualmente grande di gioia, la odieremo e insieme l'ameremo») oppure esteriore, come quando «una passione viene incrementata per il fatto che anche altre persone vivono la medesima condizione» (p. 152). Veniamo finalmente a presentare alcuni tratti dell'acuta disamina spinoziana proposta nella sua ultima grande opera politica, lasciata incompiuta, ossia il Trattato politico. Qui non si ha più, come nel precedente Trattato teologico-politico, la separazione di matrice hobbesiana tra stato di natura e stato civile: scrive infatti Spinoza che «gli uomini […] non possono vivere per natura senza leggi comuni» (in Opere, ed. cit., p. 1108). Essendo  dunque la dimensione politica immediata essa non può non fondarsi, come ben evidenzia Cerrato, sul “gioco degli affetti”. Nel Trattato politico la posta in gioco è rintracciare, per ogni forma di governo, le condizioni e i provvedimenti in grado di garantirne la maggiore stabilità e durata; e se è sulla democrazia che Spinoza sembra riporre le maggiori aspettative, è anche qui che purtroppo la trattazione si interrompe. La democrazia, in ogni caso, sembrerebbe «la modalità maggiormente capace di aggregare le individualità disperse»; essa sarebbe infatti in grado di costruire «un orizzonte condiviso, nel quale gli affetti individuali» potranno essere «integrati nella pratica collettiva della moltitudine» (p. 163). Nonostante perciò i limiti oggettivi che l'analisi incontra, possiamo comunque affermare che proprio la democrazia sia  la realizzazione politica più adatta della proposta filosofica contenuta nell'Etica: essa è la sola, infatti, a consentire una «costruzione di relazioni, private e politiche, nelle quali esprimere le proprie capacità, divenendo causa adeguata di effetti, finalizzati a incrementare il benessere, individuale e sociale» (ibid.).


Indice

Introduzione

Governo della paura e legittimazione del potere in Thomas Hobbes
1. Conatus e immaginazione
2. Piacere e dolore
3. Desiderio e conoscenza tra passato e futuro
4. Potere e società
5. Ansia e conflitto
6. Ricerca del piacere, fiducia nella ragione e paura della morte. Fondazione «passionale» della politica?
7. Potere, terrore e rispetto dei patti
8. Tempo della paura e tempo del potere

Il controllo razionale delle passioni in Descartes
1. Distinzione reale e rappresentazione
2. Le passioni del corpo e dell'anima
3. Fenomenologia delle passioni e la relazione sociale
4. La soluzione cartesiana: autocontrollo rappresentativo e ordine politico
5. Qualificazione del potere politico e relazione con le emozioni

Etica e democrazia: gli affetti come pratica in Spinoza
1. La grammatica delle passioni nell'Etica: conatus e legge di natura
2. Origine del «fraintendimento» passionale: immaginazione e volontà
3. Ragione, intuizione e conoscenza adeguata
4. Grammatica della passioni collettive
5. Dal TTP al TP: i processi di formazione degli affetti politici

Bibliografia
Indice dei nomi

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