venerdì 9 maggio 2014

Angelucci, Daniela, Filosofia del cinema

Roma, Carocci, 2013, pp. 186, euro 15, ISBN 978-88-430-7000-8

Recensione di Alessandro Bruzzone - 07/01/2014

Il cinema è una tra le poche forme d’arte di cui, per via delle recenti origini, possiamo conoscere tutta la storia. Un aspetto molto interessante di questa storia è proprio l’insieme delle riflessioni teoriche che hanno permesso al cinema di guadagnarsi tale status, quello cioè di «arte»: il cinematografo, infatti, nato alla fine dell’Ottocento come meraviglia della tecnica e dell’intrattenimento, per molto tempo è stato avversato dalla cultura «ufficiale» poiché mezzo meccanico, incapace in quanto tale

(accusa, questa, condivisa con la fotografia) di produzioni realmente significative per l’espressione dell’umanità contemporanea. 
Se con il senno di poi questo dato può sorprendere, attraverso la riflessione storica diventa del tutto comprensibile: quello di «arte», inteso a lungo essenzialmente come pratica nobile e colta (le «belle arti»), era un concetto legato da secoli a forme espressive come la pittura, la scultura, la musica e la letteratura, accomunate dall’essere intimamente legate all’agire umano (potremmo chiamarlo il «mito della manualità», che resiste tuttora e viene spesso invocato contro realtà ben diverse dal cinema, per esempio l’arte concettuale), e capaci pertanto di dispiegarne la creatività con un’ampiezza di possibilità che a un mezzo meccanico non erano riconosciute. Le produzioni proprie di tali arti, legate inoltre a dimensioni autoriali ormai ben definite, erano oggetto di studio e promozione da parte di comunità di esperti (quelli che Arthur Danto e George Dickie definiscono i «mondi dell’arte») distinte da una lunga e consolidata tradizione, riconosciuta a livello pubblico con la presenza in istituzioni quali università, accademie, musei, biblioteche, conservatori, e altre ancora. 
Pertanto che il cinema, basato su un mezzo espressivo «non ortodosso» come il cinematografo, caratterizzato da una dimensione produttiva che diventerà sempre più collettiva e addirittura industriale, e avviato ad un successo  popolare crescente, venisse osteggiato da buona parte della cultura ufficiale non sorprenderà più: il nuovo medium doveva essere sviluppato e discusso a lungo, prima di guadagnarsi il suo posto nella sfera dell’arte.
Questa è grossomodo la premessa alla base del bel saggio Filosofia del cinema di Daniela Angelucci: una sintetica ma ricca presentazione, opportunamente ragionata e articolata, delle principali teorie che hanno costituito la riflessione filosofica sul cinema. Le teorie discusse da Angelucci derivano da approcci diversi: sono ovviamente presenti molti filosofi, ma i contributi spaziano dalla psicanalisi alla sociologia, dalla critica cinematografica alla semiotica, e un apporto decisivo è quello dei cineasti che furono anche grandi teorici; last but not least, trovano spazio alcune analisi inerenti capolavori del cinema, che ne mettono in luce le innovazioni portate alla «settima arte». 
Il compito dell’autrice non era facile, e la scelta di fonti così ampie problematico. Oggi scrivere una «filosofia del cinema» è complesso come solo le cose ovvie possono esserle: il cinema è ormai ampiamente riconosciuto come arte, ed è normalissimo quindi che la filosofia se ne occupi. Paradossalmente, proprio l’assenza di resistenze può appiattire l’esposizioni delle teorie, privandole di quella vivezza che le ha caratterizzate nel loro farsi storico. Ed è soprattutto in questo senso che il saggio di Angelucci è encomiabile: l’autrice riesce brillantemente a combinare la forza delle argomentazioni di molti autori, particolarmente quelli legati più intimamente al cinema (soprattutto cineasti-teorici e critici militanti), con la disciplina di riflessioni tecniche, desunte dalla filosofia o altre scienze umane, spesso utilizzate – non a caso – per inquadrare il tema del capitolo. Inoltre viene ben reso come lo sviluppo delle teorie sul cinema abbia accompagnato, in reciproco vantaggio, lo sviluppo del cinema stesso. Il risultato è uno studio rigoroso e vivo, istruttivo e appassionante senza mai sfociare nella partigianeria. 
Il saggio si articola in quattro grandi capitoli, ognuno incentrato su una chiave di lettura che si collega, opponendosi o integrandosi, a quelle su cui sono centrati gli altri tre. Un’esposizione non diacronica bensì concettuale (e quindi eminentemente filosofica), che apre a percorsi di studio differenti, pur integrati in un quadro coerente. Per quanto concerne i filosofi trattati, la predilezione dell’autrice va ad alcuni pensatori «continentali», senza mancare tuttavia di affrontare efficacemente diverse filosofie di matrice analitica: anche questo, in una scenario filosofico come quello italiano attuale, dove sempre più spesso ai facili settarismi si oppongono promettenti tentativi di dialogo e integrazione (penso ai lavori di studiosi come Maurizio Ferraris e Paolo D’Angelo), costituisce un aspetto positivo del saggio.
Veniamo ai vari capitoli, di cui sintetizzerò gli aspetti principali: il primo capitolo, Pensiero, sviluppa il tema dell’analogia tra il dispositivo cinematografico e il sistema cognitivo umano. A partire dal concetto di durata sviluppato da Henry Bergson ne L’evoluzione creatrice (1907), buona parte del capitolo si struttura sullo sfondo teorico del pensiero di Gilles Deleuze, con particolare riferimento al saggio L’immagine-movimento (1983): qui l’originaria intuizione bergsoniana, che vede nel cinematografo un doppio illusorio del reale, viene ripresa e rovesciata nel suo opposto, ovvero l’affermazione secondo cui il movimento appartiene al cinema come elemento costitutivo e originario, rendendo di fatto il cinema movimento affrancato e realtà propria in sé; pertanto, secondo la celebre conclusione di Deleuze, «arte bergsoniana per eccellenza». L’esposizione della teoria di Deleuze apre a un confronto con le riflessioni di alcuni importanti teorici del cinema, come Dziga Vertov e Jean Epstein.Un ultimo aspetto interessante del capitolo che citerei è la riscoperta di alcuni scritti giovanili di Sartre dove alcuni temi deleuziani sembrano anticipati.
Il secondo capitolo, Immaginario, tratta una linea interpretativa del cinema per molti versi opposta a quella presentata nel capitolo primo: ovvero il cinema inteso come produzione di un mondo distinto e separato dalla realtà, con analogie al sogno e ai processi interiori, o semplicemente caratterizzato da maggiore libertà rispetto a necessità mimetiche; in questa prospettiva il ruolo della spettatore acquisisce una particolare valorizzazione in senso creativo. Il contenuto del capitolo verte quindi su varie teorie: gli studi pioneristici di psicologia del cinema di Hugo Münstenberg (Film. Uno studio psicologico, 1907), il pensiero di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario, 1956), la teoria sviluppata dal semiologo Christian Metz nel celebre saggio Cinema e psicanalisi (1977), la psicoanalisi di Jacques Lacan, la Feminist film theory (qui rappresentata dal pensiero Laura Mulvey) e la rappresentazione della donna nel cinema, e infine alcune teorie del simulacro, da Michel Foucault a – soprattutto – Gilles Deleuze, di cui è discusso particolarmente il saggio L’immagine-tempo (1989), il secondo libro dedicato al cinema dal filosofo francese. Interessante una critica che Angelucci sviluppa intorno al «paradosso della finzione» trattato in filosofia analitica (in particolare vengono citati Noël Carroll, Kendall Walton, Gregory Currie).
Il terzo capitolo, Reale, sviluppa il tema della realtà nel cinema, in un senso cui ho già accennato sopra: se il cinematografo veniva stigmatizzato da taluni come mero mezzo meccanico, in grado soltanto di registrare la realtà senza permetterne una significativa elaborazione artistica, alcuni importanti teorici hanno invece dimostrato che il cinema fornisce i mezzi per rappresentare la realtà in modo rispettoso eppure del tutto originale, addirittura portando a compimento il percorso che l’arte aveva sviluppato sino ad esso attraverso pittura e scultura prima, e fotografia poi. Il capitolo si costruisce attraverso il pensiero del grande critico francese André Bazin, fondatore dei Cahiers du Cinéma nel 1951 e autore di alcuni saggi fondamentali  quali Ontologia dell’immagine fotografica (1945), e Che cosa è il cinema? (1958): l’analisi del pensiero di Bazin, che prese a modello della sua idea di realismo cinematografico soprattutto il neorealismo italiano, permette ad Angelucci di proseguire il capitolo trattando alcuni importanti film di questo filone (Paisà di Roberto Rossellini, del 1946, e Ladri di Biciclette di Vittorio de Sica, del 1948), nonché le teorie di Cesare Zavattini e altri teorici variamente legati ad esso. Molto interessanti i paragrafi conclusivi sul digitale e la ridefinizione di realismo nel cinema che può derivarne.
Il quarto ed ultimo capitolo, Visione e racconto, sviluppa il tema del «doppio regime di rappresentazione» (l’espressione è tratta da Introduzione alla retorica del cinema di Sandro Bernardi, del 1994) che caratterizza il cinema, ovvero l’aspetto visivo e quello propriamente narrativo. Per quanto, come sottolinea Angelucci, sia impossibile separare nettamente tali due aspetti, vi sono autori che hanno trattato il cinema sottolineandone maggiormente uno a scapito (per così dire) dell’altro. Così, se tra i cineasti i francesi Louis Delluc e Jean Epstein hanno espresso posizioni teoriche che sembrano valorizzare il cinema come realtà visiva, l’opera dell’americano David W. Griffith, nonché gli esperimenti condotti in U.R.S.S. da Lev Kulešov e ripresi poi da Vsevolod I. Pudovkin hanno fatto del montaggio il fondamento di un nuovo tipo di narrazione. A riprova dell’ingenuità di una separazione netta tra il regime visivo e quello narrativo propri del cinema, se già nella trattazione dei cineasti appena menzionati emerge l’impossibilità di ridurne gli approcci a uno solo dei due versanti, è nell’opera di un altro importante maestro del cinema d’avanguardia sovietico, ovvero Sergej Ejzenštejn che essi appaiono necessariamente congiunti per la riuscita di un linguaggio cinematografico davvero efficace. Anche in questo capitolo non mancano i teorici non cineasti citati: va segnalato lo spazio dedicato al pensiero di Jacques Rancière, filosofo francese che riprende, rinnovandoli nettamente, alcuni temi di Deleuze.
In conclusione, Filosofia del cinema è un saggio molto interessante, che sviluppa la complessa connessione tra filosofia e cinema quasi con spontaneità: essendo l’intera vicenda del cinema la storia di un dispositivo che è stato sviluppato, attraverso il pensiero teorico, per generare a sua volta pensiero.


Indice

Premessa

1. Pensiero

«Chiediamo di poter entrare!»
Il cinematografo interiore
Un’estetica della violenza
Una coppia di fatto e di diritto

2. Immaginario

Un altro mondo
«Sì, lo so, ma comunque…»: psicoanalisi e doppia credenza
Lo specchio e lo sguardo
La spettatrice allo specchio
Rêve e rêverie
«Della stessa forma di cui son fatti i sogni»
Simulacri e potenza del falso

3. Reale

Un’impronta digitale dell’universo
Alleati e biciclette
Il paradosso del pedinamento
Ancora in Italia, tra arte e realtà
Tecnica e modernità
La redenzione della materia
Il digitale: la svolta
Il digitale: la continuità

4. Visione e racconto

Fotogenia e pensiero visivo
Fisionomia e senso ottuso
Arte visiva. Oppure no?
Montaggio e narrazione
L’immagine orientata
Vita e morte
Immagine ottica pura e favola contrastata

Note

Bibliografia

2 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Ci si può chiedere: che senso ha, avrebbe, ripetere ancora identificazione-non-identità di scienza e filosofia in relazione al cinema per giunta direttamente senza mediazione di cinematografia? D'un canto, assenza di tramite grafico non assicura perché troppo porre in causa scienza senza catalogazione empirica, d'altro canto proprio rilevante attinenza non garantisce ampiezza filosofica sufficiente tra rarità e sensibilità. A render decisiva questa riflessione è il mancare, in recensione, di esplicitazione del senso di suddetta identificazione: fosse pure binomio di educazione libera per scienze utili, ovvero cultura e prassi filosofica di scienze della educazione, non se ne trova ragione della omissione circa identificazione-non-identità stessa...
Husserl spiegava comunanza di linguaggio a fargli dire di scienza fenomenologica o 'fenomenologia filosofia ovvero scienza' ciononostante era retaggio medioevale che egli chiudeva post hegelianamente, in resto cartesianamente... Allora parrebbero ricezione - produzione - invenzione psicoanalizzate e positivizzate euristicamente a motivare omissione (recensoria) ma altro non ne compare... Par proprio retrovia dei famigerati committenti "delle parrocchie", quelli che bandivano curiosità coi confessionali e selezionavano programmi nei sotterranei adibiti a visioni... cinematiche (sempre sfiorata integrità visiva ne era, non raggiunta tutta... e non risulta finito il triste gioco, forse potenziato da false ricezioni regolative e da tradimenti impositivi giudiziari sospesi per i cineclub "cattolici" soltanto, più gravi pedinamenti ed invenzioni di falsi negozianti di videoapparecchi per "cinema, fatto in casa" e molte case o solo paraggi invase da requisitori-delatori di idiozie pseudoreligiose e crudeltà contro vita e libertà anche verso Assoluto ovvero Dio - m'era ed è necessario accludere tale precisazione per tutela di lettori ingenui e non solamente! )... Di tipo medioevale non ancora distinzione, è la omissione di recensore (forse impaurito da troppo indefinibili futuri semantici sensati? non saprei); che in circostanze odierne di emergenza-incompetenza (non a me appartiene però) non è più arretratezza ma arretramento e impossibile, alla maniera quasi degli scienziati senza scienza di Babilonia, che non avevano nessuno cui comunicare lor profonde ampie teorie, prima di egual sorte di geometri-fisici d'Egitto (non egizi!)...
...


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

...
Indubitabile effetto impertinente di già detta (con mio precedente invio, qui stesso) indistinzione in recensione, oscurantista, non esclude purtroppo uso prepotente di scienze...
Peraltro recensore usa catalogo neoclassico di estetica d'arte menzionando "la settima arte"... Eredità ellenica anzi più ellenista soltanto (non un caso le Ombre Cinesi dietro veli-teli...) che mal s'accorda... dopo chiusura forzosa di sale cinematografiche a motivo d'impossibili -e scioccanti fino a demenza- lotte ai troppi agi dalle minimali influenzali forze biologiche -raffinate e seduttive forse più a danni di stessi estimatori eccessivi d'esse (proprio da luoghi cinesi)- ...a rigorosità estetica epistemologica su cinema ed arte del cinema: non solo fluida (parecchio ovvio) ma non per basica combinatoria data pochezza di macchinario ad esigenze degli artisti (arte in tal senso "dicibile povera" o 'comparabile' ad arti di tauromachie, non corna da scansare-schivare, luminosità da evitare-sfiorare...); e del tutto non sensitivo il discrimine tra possibilitazione tecnologica e possibilità artistica...
Allora in mancanza di sillogismi veri e del contrario, faccio esempio d'artisti famosi, non umani, i leoni della "W.-B." che tanto hanno introdotto di arte cinematografica anche o solo del cinema: contemplandone maestria di metacinema (non solo "8 e mezzo" di Fellini, pieni voti per quei felini) uno ne vidi, a suo modo e di poco bastante 'filosofo' degno del gatto Murr! Che senso ha distinguere Ombre Cinesi da Parvenze di Schermi, tessuti grossi da proiezioni digitali, tenue luce di andro da superficie iper soffondente... E dimenticare che critiche kantiane non erano di estetiche ma estetiche?
Recensore non troverebbe leone 'filosofo' severo quanto me.


MAURO PASTORE