mercoledì 14 maggio 2014

Barberi, Maria Stella, Il leviatano fuori dal mito. Le pronunce politiche di Hobbes e di Schmitt

Massa, Transeuropa, 2012, pp. 184, euro 15, ISBN 9788875802103

Recensione di Emanuele Antonelli – 21/04/2013

Il volume in analisi si inserisce nell’ormai quasi decennale operazione condotta con dedizione dalla casa editrice Transeuropa in merito alla diffusione dell’opera di René Girard e alla divulgazione della Teoria Mimetica. Con questo saggio il meritorio progetto acquisisce una nuova dimensione. In varie regioni del mondo, a partire da Francia e Stati Uniti, diversi editori e autori, accademici e non, stanno portando avanti con un certo furor iniziative analoghe. Ovunque questo fenomeno si sia manifestato,

il percorso tende a coincidere: ad una serie di operazioni editoriali d’archivio, a cui Transeuropa ha dedicato la serie Studi mimetici, si accosta la pubblicazione di testi di più ampio respiro e variegata intuizione in cui l’ermeneutica mimetica per così dire torna nelle retrovie della metodologia o dell’ispirazione, lasciando spazio a riflessioni di grande originalità. Attraverso il confronto con autori e tradizioni già consolidate, la teoria mimetica viene così diffusa non solo su temi e sentieri già percorsi, ma anche mostrandone le potenzialità euristiche e interpretative in altri campi.
Il testo di Maria Stella Barberi, che si giova tra le altre cose della piena maturità della casa editrice, ormai graditamente precisa nel ripulire le pagine dai non rari refusi che ne avevano funestato precedenti prodotti, partecipa a pieno titolo a questo progetto. Nella quarta di copertina il nome di René Girard gode di una certa centralità grafica ancor prima che contenutistica, ma nel testo i riferimenti all’autore avignonese sono rari e l’uso della teoria mimetica scevro di ogni orpello; nonostante questo l’impronta delle intuizioni fondamentali risulta evidente oltre che essenziale nella costruzione della struttura argomentativa, a partire dall’ipotesi sull’origine del «patto di tutti coloro che rinunziano ad uccidere di nuovo, […] possibile perché un evento, in se stesso incomprensibile, assume pienezza di valore nel rito della collettività che sacralizza la figura del morto» (p. 18).
Maria Stella Barberi porta avanti da anni un lavoro attento e documentato sul pensiero di Carl Schmitt, di cui in questo volume mostra una conoscenza dettagliata e mai banale. Per approfondire la portata della pronuncia politica dell’autore di riferimento, cercando di chiarire con alcuni brevi tratti il contesto in cui Schmitt scrisse il suo Leviatano (1938), Barberi intesse una trama di rimandi con la parabola creativa e a tratti biografica dell’autore del primo controverso e famigerato Leviatano, Thomas Hobbes. Trecento anni non sono pochi e il pericolo dell’incontro con il Potere, che entrambi gli autori hanno a loro modo sperimentato, è nel frattempo grandemente cresciuto. Con alcune digressioni nell’esoterismo schmittiano, Barberi rintraccia nella centralità del sentire barocco l’asse su cui articolare e approfondire il confronto tra i due autori da una parte e lo sviluppo storico della problematica trattata dall’altra.
Carl Schmitt assunse Thomas Hobbes ad alter ego della propria riflessione, facendosi imitatore dissenziente della rappresentazione secentesca, essenziale nella determinazione del paradigma hobbesiano del potere, e della dissimulazione barocca. Muovendosi lungo l’asse  dell’imitazione che spazia dal comico al grottesco, parto mostruoso e necessario del barocco, Barberi cerca di far vivere il tentativo schmittiano di riattivare il progetto hobbesiano: «proteggere dalla paura della morte violenta per sopravvivere nello spazio del pericolo» (p. 160). Il margine nel quale si muove il testo è costituito dallo spazio di questa riattivazione, nel lavorio di precisione necessario non solo a stabilire rimandi e nessi, le identità e le differenze, ma soprattutto a valutare le difficoltà che la realtà del problema pose al primo e poi diversamente al secondo.
Il filo dominante che conduce il lavoro interpretativo su Hobbes si nutre di un’intuizione tipicamente ermeneutica, uno sfalsamento dei piani analitici tradizionali grazie al quale il politico diventa oggetto di analisi, e allo stesso tempo prodotto di una sensibilità, essenzialmente artistica. Dissoltesi l’armonia e la proporzione dei sistemi che ancora permanevano in età rinascimentale, venute meno la permanenza e la stabilità delle leggi interne, il progetto di Hobbes è quello di «ergersi ad artefice del proprio mondo» (p. 33). È così che la modernità si scopre il prodotto di un’operazione in prima istanza artistica: rappresentanza e rappresentazione sono nozioni che trovano la propria origine tanto nel campo dell’arte quanto in quello della politica. Il principio della rappresentanza si trova implicato in una creazione artistica nella quale il sovrano è l’attore di un canovaccio di cui i sudditi sono autori (p. 51). Il Leviatano è persona sovrana, maschera teatrale ed emblema del potere normativistico della rappresentazione: a sostegno di questa tesi, Barberi inserisce un inserto iconografico che punta sull’analisi (artistica) della figura del Leviatano e dalla quale l’autrice coglie, e trasmette, l’impressione di avere a che fare con «l’insolito volto di un clown malinconico, se non addirittura spaurito» (p. 79). L’arte barocca, che più che mai approfondì la riflessione sulla facoltà mimetica, imita la natura in molte cose, «anche nella capacità di produrre un animale artificiale» (p. 109); il progetto hobbesiano si avvale proprio di quegli strumenti dell’arte e della mimesi barocca (p. 130), facendo del Leviatano l’imitazione ingigantita dell’uomo (al quale il filosofo inglese aveva dedicato uno sforzo teorico propedeutico, nosce te ipsum).
Una delle tesi di Barberi è che «il “decisionismo” di Hobbes esaltato da Schmitt, resta di fatto nascosto e come imprigionato nella “piega barocca” del potere-autorità, nel gioco […] delle corrispondenze incrociate del visibile e del leggibile» (p. 58), ovvero potestas e auctoritas vengono a coincidere grazie alla rappresentazione/interpretazione della persona del sovrano. Ma tentare di immanentizzare la trascendenza in un sistema di corrispondenze non è un artificio datato che poté sembrare efficace nel barocco? La potestas directa hobbesiana, che invero già Bellarmino contestava al filosofo inglese, può tenere in un altro tempo?
Schmitt riscopre o semplicemente esalta i tratti del Leviatano hobbesiano in cui più forte è la presenza della problematica relazione tra immanenza e trascendenza, ovvero tra potere e religione, insinuando gli strumenti della teologia politica. Ecco che per esempio, in piena sintonia con il piano girardiano che carsicamente conduce l’operazione di Barberi, ci viene ricordato che per Schmitt «il terrore dello stato di natura fa riunire gli individui pieni di paura, la loro paura sale all’estremo, scocca una scintilla della “ratio” e improvvisamente davanti a noi si erge il nuovo Dio» (p. 54). 
Schmitt è implicato ancora più a fondo di quanto non sia stato Hobbes stesso nel tentativo di «ristabilire l’originaria e naturale unità di politica e religione» (p. 137), ma non può ripercorrere pedestremente la via del modello e alter ego, perché la matrice barocca della rappresentazione, la finzione leviatanica, non contiene più l’autorità dell’idea da rappresentare (p. 138); il simbolo politico è fallito e questo fallimento pone una nuova sfida.


Si tratta di ritornare al principio della questione, ripercorrere l’origine della soluzione e ritrovare l’essenza del problema: se il momento fondamentale del politico è la decisione che distingue tra amico e nemico, se sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione, Barberi ritrova un’analogia formale tra la vittima girardiana e il sovrano schmittiano nel loro essere entrambi «autentico mediatore dell’eccezionale risoluzione di un eccezionale disordine» (p. 147). 
Tutto ciò è ulteriormente complicato dalla grande intuizione mimetica di Schmitt in merito al fatto che «il nemico è la forma della nostra propria questione, egli ci spingerà e noi lo spingeremo verso la stessa fine» (p. 149), il che conduce a riconoscere come interamente umani le ragioni ed il senso di quel taglio che distingue tra amico e nemico.
Il mito letterario di Benito Cereno – personaggio eponimo di un romanzo breve di Melville – a cui Schmitt fece riferimento nell’offrire una copia del proprio Leviatano ad Ernst Jünger, diventa la chiave di volta del ragionamento di Barberi. «Benito Cereno è prigioniero degli schiavi negri che trasporta sulla sua nave, ma a beneficio del mondo esterno deve celare la sua condizione e fingere d’essere ancora al posto di comando» (p. 152); «custode degli arcana e delle ritualità del potere nelle situazioni rischiose dei sistemi di massa, è divenuto una figura del “misconoscimento” del sacro» (p. 153). Ne potrebbe sorgere al lettore il dubbio che in un mondo in cui la decisione sovrana sia smascherata nella sua arbitraria ingiunzione discriminatoria nei confronti di un nemico che «è la forma della nostra propria questione», il sovrano sia ormai un simbolo vuoto, tenuto in piedi a beneficio del mondo esteriore.
Barberi segue ancora il lavoro di Schmitt, al di là del Leviatano, ritrovando proprio nella forma dell’imitazione che separa il comico dal grottesco non solo l’essenza dello stare al mondo degli uomini ma anche uno strumento prezioso per «precisare i tratti che assume la sfida del Leviatano in questa epocale distretta» (p. 162). Seguendo la distinzione di Baudelaire tra «comico significativo» e «grottesco o comico assoluto», Barberi sostiene che «se il comico e il grottesco sono segni di crisi, diversa è tuttavia la crisi che in essi si esprime, poiché nel primo s’inficia l’ordine sacro-sacrificale, nel secondo viene invece meno il moderno ordine rappresentativo (post-sacrificale)» (p. 167). Il sovrano hobbesiano è attore autorizzato e mediatore del desiderio, ovvero una rappresentazione, un’imitazione, che tiene a bada il carattere mimetico e rivalitario che la mimesi tende a assumere per gli uomini. Se l’istanza hobbesiana di sovranità si mostra così dipendente dal comico, ovvero dalla capacità di tenere insieme l’indifferenziato e la differenza, l’impasse della modernità in cui Schmitt si trova invischiato è il fallimento del simbolo politico ovvero il venir meno della figura rappresentativa. E senza questa figura sintetica non è più data la possibilità di imporre un margine all’indifferenziato, una misura che l’arte barocca già mostrava di aver obliterato nel grottesco. «Per Hobbes lettore della Bibbia, una tale mancanza di misura ha bisogno di una legittimazione esterna e di un mediatore sovrano» (p. 174). Ma Schmitt ha da fare con un problema ancora più grande, su cui Barberi chiude la sua riflessione: «Non crediamo più al dominio sciamanico del Leviatano perché crediamo [tutti noi] d’essere diventati l’irresistibile, inimitabile Leviatano» (p. 183).
Libro di lettura non facile e della cui varietà non abbiamo potuto qui dare conto che per cenni essenziali, Il leviatano fuori dal mito non si rivolge ad un lettore digiuno delle nozioni fondamentali e delle coordinate elementari per orientarsi nel pensiero degli autori chiamati a confronto. Ad un testo occasionalmente involuto e oscuro, ma in generale ricco e intenso, si accosta un apparato peritestuale impressionante. Se non letteralmente, certo simbolicamente, si potrebbe dire che il libro sia fatto anche se non in prima istanza delle sue note: in esse Barberi convoglia una quantità ragguardevole di informazioni bibliografiche, tesoro di rimandi e approfondimenti nonché di ispirazione per nuove piste di ricerca.


Indice

I – Il Leviatano di Hobbes
1. La Sospensione dello Stato di Natura
2. L’Architettura dell’Assolutismo Hobbesiano
3. Le Iconografie del Leviatano

Inserto Iconografico 

II – Da un Leviatano all’altro
4. L’Imitazione come Arte Barocca
5. Motivi Mimetici nel Confronto fra Leviatani
6. L’Ultima Sfida del Leviatano: il Comico e il Grottesco

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