venerdì 16 maggio 2014

Cimatti, Felice, Filosofia dell’animalità

Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 196, euro 12, ISBN 978-88-581-0941-0

Recensione di Salvatore Spina - 30/12/2013

Il testo di Cimatti, come viene chiarito in maniera programmatica nell’introduzione al volume, non ha come oggetto d’indagine l’animalità dell’animale, bensì la nostra animalità, l’animalità umana. Non si tratterà, allora, di verificare «cos’è un gatto, bensì quale animalità è possibile per Homo sapiens» (p. 7).
Attraverso un percorso ampio, eterogeneo e ben strutturato, che si fa carico delle provocazioni provenienti sia dalla filosofia (Heidegger, Derrida, Deleuze e molti altri ancora) sia dalla psicologia (Lacan e Freud),

le pagine di Filosofia dell’animalità presentano l’indagine e la “decostruzione” di un dogma – invero già scandagliato in maniera approfondita da Jacques Derrida in numerosi testi ed interventi – radicato tanto nel pensiero filosofico quanto nell’opinione comune: la separazione netta, gerarchica ed insuperabile tra umanità ed animalità.
D’altro canto il testo di Cimatti non si limita esclusivamente alla pars destruens della questione. Assumendo fino in fondo la lezione deleuziana, presente soprattutto in Mille piani, del divenir-animale, in quanto espressione suprema del «lasciare alle proprie spalle il recinto soffocante e mortale della soggettività e aprirsi alla sperimentazione del vivente» (p. 101), l’opera propone l’immagine di alcune “figure dell’animalità” che prospettano un salto oltre la logica oppositivo-escludente della metafisica occidentale, che ha nella separazione tra uomo ed animale una delle sue espressioni più significative.
Dando per acquisita la lezione heideggeriana della frattura ontologica tra umanità ed animalità, pensata a partire dal concetto di mancanza – l’animale sarebbe l’ente povero di mondo (weltarm), secondo la celebre definizione dei Concetti fondamentali della metafisica (1929/30) –, ma provando, altresì, ad andare oltre questa posizione, Cimatti individua nella “sospensione” della corporeità, in quanto nome puro dell’immanenza, il momento concettuale in cui la filosofia occidentale assegna all’uomo, ed a lui soltanto, la possibilità “privilegiata” di accesso ad un’esistenza al di là della vita biologica, una trascendenza orizzontale al di là della mera animalità: «in questo consiste il momento inaugurale dell’humanitas, bloccare il corpo e rinviare l’azione» (p. 48).
Questa sospensione, nella prospettiva proposta da Filosofia dell’animalità, ha un nome ben preciso e rimanda a quella peculiarità che, come insegna la filosofia occidentale da Aristotele fino a Heidegger, caratterizzerebbe l’umanità dell’umano in quanto tale, e cioè il linguaggio. Esso rappresenta il punto di rottura in cui l’animale-uomo ancora immerso nell’ambiente a lui circostante e ad esso totalmente aderente sospende l’immediatezza dei propri rapporti vitali e si trasforma in un “io”: «ecco la sorpresa, basta parlare e si diventa un “io”» (p. 43).
Nell’interpretazione di Cimatti, che d’altra parte rimane fedele alla lezione lacaniana del linguaggio pensato come “trauma” e “faglia”, «l’antropogenesi è il processo che porta un vivente a dire “io”, ciò che significa uscire da sé, dal flusso del proprio vivere, e vedersi dall’esterno» (p. 41). Il linguaggio è nome della trascendenza: è lo spazio decisivo in cui l’animale uomo, trascendendo la corporeità che lo caratterizza come vivente, supera la propria animalità e si impone in quanto “io”.
Nel gesto antropogenetico, che ha matrice linguistica in quanto porta l’animale-uomo a pronunciare il fatidico “io”, l’autore individua l’atto inaugurale della metafisica della soggettività che trova nella violenza e nel dominio – sembra di sentire gli echi del saggio Violenza e metafisica di Derrida – il suo modo di espressione peculiare; una violenza che presenta un carattere duplice ed in sé complesso. In primo luogo quella perpetrata dall’io è una violenza contro l’animalità: nei riguardi degli animali propriamente detti (un cane, un cavallo e tutti quei viventi che con la loro radicale differenza mettono in crisi l’identità e la “proprietà” dell’io), ma ancor più significativamente contro l’animalità che alberga come fondo oscuro di ogni umanità e la inquieta dall’interno scuotendone ogni certezza: «La posta in gioco in questo processo drammatico, perché letteralmente trasforma e con violenza un vivente in un soggetto, in un “io”, è di stabilire chi comanda e chi è comandato» (p. 124). In seconda battuta, sebbene la cosa non venga trattata in maniera estesa, Cimatti accenna alla violenza che regola il rapporto tra egoità ed ha, nel gioco del riconoscimento reciproco e mai dialetticamente risolvibile tra un “io” ed un “tu”, il proprio luogo d’attuazione: sarà sempre il lacaniano “desiderio dell’Altro” a dare all’io la propria consistenza.
Se il pensiero filosofico, dalla propria prospettiva, ha fallito nel tentativo di considerare l’alterità animale come intrinseca ad ogni pensiero sull’umanità, anche la psicologia, secondo Cimatti, presenta lo stesso “difetto” formale. Partendo da un esempio tratto dal testo di Freud conosciuto come Il caso dell’uomo dei lupi, in cui un paziente racconta il sogno ricorrente di trovarsi di notte sdraiato sul letto e sentirsi osservato attraverso la finestra da alcuni lupi bianchi, l’autore sostiene che «l’animalità psicoanalitica è sempre allegorica» (p. 79). Piuttosto che concentrarsi sull’inquietudine provocata nel paziente dall’incontro dello sguardo animale e dalla “divina indifferenza” che, invece, mostrano i lupi, Freud riconduce la questione del sogno ad una scena di sesso tra i genitori a cui il paziente stesso avrebbe assistito all’età di un anno; l’animale non viene, dunque, considerato nella sua alterità sic et simpliciter, ma ridotto a simbolo di qualcosa che concerne l’inconscio – in questo caso la paura della castrazione. Anche nella psicologia, come nella filosofia, l’animale è il grande assente.
Ripercorrendo la strada intrapresa da Derrida nelle pagine iniziali de L’animale che dunque sono, nelle quali l’autore francese s’interroga sulla natura dello sguardo animale (il suo gatto) e del rapporto con l’alterità totalmente altra che esso rappresenta, e provando, altresì, a superare il determinismo che in qualche modo, a suo dire, caratterizzerebbe il discorso freudiano (ogni “evento” della vita quotidiana sarebbe il simbolo, l’allegoria di qualcosa che afferisce alla sfera della sessualità), Cimatti ritiene che «il problema antropologico che pone lo sguardo dei lupi, allora, non è quello di scioglierli in una interpretazione simbolica, considerarli rappresentanti del padre o della minaccia della castrazione, quanto di considerarli un’occasione per una messa in crisi degli esiti trascendentali della macchina antropogenetica» (p. 84).
Il Deleuze di Mille piani rappresenta, invece, il referente privilegiato della proposta avanzata da Cimatti nei capitoli finali di Filosofia dell’animalità. Se il discorso decostruttivo condotto nella prima parte del testo rimane, anche se per alcuni versi in maniera non del tutto esplicita, squisitamente derridiano, il capitolo in cui Cimatti pensa ad un superamento della separazione netta e gerarchica tra umanità ed animalità ha chiare ed esplicite ascendenze deleuziane – a partire dal titolo Divenire-animale, che rimanda ad alcune pagine decisive dell’opera scritta nel 1980 dal filosofo francese con lo psicoanalista Guattari.
Qui non si tratta di far ritorno ad una condizione del passato, un ipotetico stato di natura in cui l’uomo sarebbe più vicino all’animale e, dunque, più prossimo alla sua essenza di vivente, né tantomeno viene prospettato un mero continuismo biologico tra uomo ed animale; il divenire-animale di cui parla Cimatti è un progetto a-venire, una possibilità per il futuro: esso «è lo spazio pericoloso della contingenza e dell’occasione» (p. 151). Oltre la separazione netta tra umanità ed animalità (che in maniera sfocata viene mantenuta anche da Derrida), al di là del paradigma di “immunizzazione” contro ogni rischio di contagio – qui invero il riferimento al mesmerico testo Immunitas di Roberto Esposito appare, per alcuni versi, arbitrario –, il divenire-animale è l’evento per eccellenza, in quanto sempre singolare ed universale, di ogni sconfinamento e contaminazione, di ogni incontro-scontro; esso è un «aderire al mondo senza residui, è essere il mondo di cui si partecipa» (p. 154).
In breve: il divenire-animale è il nome dell’immanenza pura, lo spazio di un’esistenza “anonima” – in quanto precede ed eccede ogni linguaggio che, dando il nome, trasforma un vivente in un “io”, promettendolo così alla morte –, è una vita che trova in se stessa, nella propria “ecceità”, la pienezza di cui ha bisogno; ricchezza che, invero, già Heidegger, pensandola come uno spazio inaccessibile all’uomo, riconosceva all’animale.
Il capitolo finale del testo è dedicato all’analisi di tre figure dell’animalità: il santo, la corporeità e l’artista. In esse è possibile trovare una concretizzazione del divenire-animale di cui Cimatti aveva tracciato in precedenza le coordinate concettuali. Se la figura del santo è trattata in maniera rapida,  facendo riferimento soprattutto ad un racconto di Flaubert, in cui viene narrata la storia di San Giuliano che da uccisore di animali e uomini scorge la redenzione nella scoperta della propria corporeità e del proprio essere mortale, le figure dell’artista e della corporeità presentano, invece, una più ampia tematizzazione.
Il corpo è il nome della singolarità, dell’individualità; è ciò che inquieta da sempre la filosofia – ed il linguaggio che se ne fa interprete – , in quanto evento mai concettualizzabile, mai catturabile in un universale, qualcosa che, immerso totalmente nell’immanenza, sfugge ad ogni tentativo di irrigidimento trascendente: «non ci sono parole, per dirla, questa assoluta individualità che è mia e solo mia […]. È l’indicibile verità del corpo che ci interessa qui, una verità che il senso, quindi il linguaggio, non può articolare» (p. 172).
Se, come ricorda l’autore facendo riferimento a Corpus di Nancy, «il corpo, per il linguaggio, è indigeribile», in quanto esso «è laddove il senso cede» (p. 173) – basti pensare all’imbarazzo di Heidegger nell’esaminare la questione della corporeità in Essere e tempo –, si tratterà allora non di chiedersi, secondo lo statuto definitorio della metafisica occidentale, “che cos’è un corpo?”, bensì di decentrare la questione sulle possibilità e le capacità intrinseche al corpo stesso e domandarsi, con il Deleuze delle lezioni su Spinoza, “cosa può un corpo?”.
Secondo Cimatti la figura più propria dell’animalità e del divenire-animale è quella dell’artista, ovvero colui che ha fatto della corporeità, in quanto simbolo del residuo e del rifiuto di ogni potere concettuale, il luogo strategico di risemantizzazione delle categorie dell’esistenza. Nell’artista, il nietzscheano distruttore dell’ordine precostituito e, nel contempo, creatore di nuovi valori a partire dalla tabula rasa dell’immanenza, si condensa la possibilità – che è parallelamente un rischio – di pensare il divenire-animale come spazio di superamento della metafisica occidentale, che ha stabilito, tra le altre cose, la separazione netta tra umanità ed animalità: «è questa la meta di questo tragitto, diventare corpo, diventare animale, diventare artista» (p. 189). 


Indice

Introduzione - Gli animali non esistono                  

L’animale è mancante                             
La macchina antropogenetica                            
Rabbia e nostalgia                                  
Farsi vedere                                         
Divenire-umano                                                
Divenire-animale                                            
Figure dell’animalità                                   

Indice dei nomi

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