mercoledì 28 maggio 2014

Duque ,Félix, Il mondo, dall’interno. Ontotecnologia della vita quotidiana

A cura di V. Vitiello, trad. it. di M. Genovese e V. Rocco, riv. da V. Vitiello, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 144, Euro 16, ISBN 978-88-5751-168-9

Recensione di Tiziana Gabrielli -  03/08/2013

Nella prefazione al volume di Duque (Ripensare il nichilismo. Marginalia a El mundo por de dentro), Vitiello rileva come, nella traduzione italiana, Il mondo, dall’interno conservi l’ambiguità voluta dell’originale. L’espressione dall’interno sta a significare che il mondo va osservato solo dall’interno del mondo, non dall’interno dell’anima, o dell’Io, o della Ragione. L’Aperto di Heidegger, quindi, coincide con il mondo stesso. Non c’è più nessuna radura dell’essere. L’indizio principale della vicinanza tra Duque ed Heidegger, 

secondo Vitello, si esprime già nel sottotitolo Ontotecnologia della vita quotidiana. La riflessione dell’autore sul mondo, tutta interna al mondo, apre a un’ontologia che può rintracciarsi solo nella tecnologia.
Il saggio di Duque è articolato in quattro capitoli. Il primo, intitolato Un vuoto che fa pensare, offre una giustificazione filosofica della tesi programmatica secondo cui «viviamo nell’epoca della tecnica assoluta, ovverosia: della tecnica rivelata o della rivelazione della tecnica» (p. 19). La tecnica, rivelata come tale, ha luogo nel compimento della metafisica (Heidegger). La Tecnica non è più intesa come una semplice applicazione, ma come un vero e proprio processo, sempre in espansione e in rimodulazione che trasforma la Tecnica in Tecnologia.
Secondo Duque, il grande contributo di Heidegger al dibattito sulla tecnica, sviluppatosi nel secolo scorso, può concentrarsi in tre punti decisivi: «a) la tecnica non può essere spiegata come un’applicazione neutrale di mezzi rispetto a fini determinati (essendo questi ultimi a decretare la bontà o malvagità della tecnica); b) la tecnica non è un prodotto umano, dovuto al suo arbitrio e desiderio di controllo e dominazione planetari; c) la tecnica apre una regione all’interno della quale si decide dell’uscita dell’ente dall’occulto, ossia: della verità» (p. 39). Se due sono le modulazioni fondamentali dell’accadere della tecnica come Ereignis: «la regione della verità e la regione dell’erranza» (p. 49), molte sono invece le maniere di dire (e fare) il Vuoto. Duque ne ha scelte quattro, tra le più rappresentative: la prima è il movimento da Morte a morte, o dal Nulla al nulla, interpretato nell’erranza come automovimento. Esso si identifica con l’automobile. La seconda è il difficile abitare presso l’ente, in cui si nega alla Natura la totalità dell’ente in favore dell’uomo e della sua consapevolezza. La terza maniera è l’artefatto stesso inteso come uno strumento per le finalità umane, o come il luogo in cui si realizza la manifestazione del Mondo. La quarta è l’eroe in persona: l’uomo chiuso nei propri pensieri, siano essi di natura poetica o letteraria o di natura scientifica (p. 50).
Nel secondo capitolo, intitolato “Le maniere del vuoto”, Duque afferma come il poeta mente captus sia il «limes o frontiera in cui si aduna il Mondo, accordando, temperando gli opposti» (p. 86). Solo i de-menti, secondo il filosofo, nel tempo dell’avvento della tecnica assoluta, «lasciano intravedere, sorgendo da “neri minuti di follia”, la mortalità del nostro soggiorno nel mondo: nella stella errante» (p. 87).
In questo schizzo di fenomenologia della tecnica quel che interessa a Duque è in realtà la costante hermeneusis della tecnica: «questi – egli scrive – il problema e la sfida che, a mio parere, la nostra epoca ha di fronte: la sua contemporaneità con tutte le epoche anteriori. (…). Un problema che esige una metánoia, un mutamento di mentalità. E lo esige perché, nel presentarsi come “problema”, lascia intravedere il mistero – invece di ostacolarlo e nasconderlo, come la metafisica e il suo compimento cibernetico hanno finora cercato di fare» (pp. 82-83).
Come queste “maniere del vuoto” si correlino alla “passione del saggio” e alla “passione della terra” è la domanda centrale intorno a cui si sviluppa l’argomentazione del terzo capitolo. L’ansia della libertà e di dominio, da un lato, e della realizzazione sessuale e dello spirito di vendetta dall’altro, sono contraddittorie e conducono l’individuo alla perdita della sua identità. L’unico rimedio a questo è distruggere simbolicamente l’individuo stesso, creando un’identità fittizia, egalitaria, di cui lo Stato moderno sia il garante, come del resto Hegel ha ampiamente teorizzato e la Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen (26 agosto 1789) ha poi incarnato sul piano giuridico. «Nella macchina dello Stato, in effetti, la passione per la libertà diventa diritto alla vita, all’educazione e all’espressione (cioè: diritto a tutto ciò che ci allontana dalla natura). L’ansia di ricchezze è a sua volta moderata, regolata dal diritto di proprietà. L’ansia del buon nome, di fama, viene garantita costituzionalmente dal diritto alla propria reputazione, mentre il dominio dell’individuo sugli altri diventa obbedienza ed uguaglianza di fronte alla legge, attraverso l’accettazione dell’auctoritas statale: l’unico Potere (Gewalt, lo chiama Hegel) legittimo» (pp. 95-96). Anche l’altro lato delle passioni, quelle periferiche, vengono sancite dallo stato: la passione sessuale diventa diritto al matrimonio, l’odio e la vendetta si convertono nel processo giuridico. Il saggio converte, così, le sue passioni alla ragion di stato, detentore dell’unica parola regolatrice (p. 96).
Tutto questo crea un progressivo distacco da quella più ampia passione della terra, in ragione di una sorta di spiritualizzazione della realtà concreta. Duque, infatti, sostiene che l’Occidente si sia andato configurando attraverso «un progressivo ripudio, sino all’esclusione, di tutto ciò che appartiene puramente alla terra (terreus)» (p. 100). Innanzitutto il filosofo spagnolo mette in guardia da chi pensa che il concetto di “terra” sia generico e neutrale. La terra è il luogo dell’invisibile per eccellenza, mette insieme tutti gli aspetti della vita. Essere partecipi della terra, vuol dire pure prendere coscienza del limite, della mortalità di ognuno, sentirsi mortali, in quanto figli della terra (p. 104).
Ma allora: «dobbiamo occuparci degli averi della terra, o pretendere, semplicemente, di occuparla?» (p. 105). Questa è la questione fondamentale del quarto capitolo, dedicato alla Terra. Duque mette in chiaro che «la città degli uomini non è una donazione degli dei o del Dio, bensì un atto di ribellione contro di essi (...): un atto tecnico, che ha bisogno della connivenza segreta della forza sostenitrice della terra (disprezzata in primis da parte del Signore giustamente nei frutti e nei doni di Caino, il primo agricoltore). La Città non prolunga il Giardino: si erge contro di esso e alla fine lo inghiottisce nel suo seno, degradandolo a parco pubblico comunale» (p. 106). 
In Genesi (4, 16-17), infatti, si dice che Caino, «lontano dalla presenza  del Signore» fa un figlio e fonda la prima città, a cui diede il nome di Enoc, suo figlio. E così Caino, l’uomo civilizzato, stabilisce la sua dimora contro la terra che, secondo la maledizione divina, gli avrebbe negato i frutti, e contro il cielo ostile. D’altronde la prima città è stata edificata per separarsi dal cielo, costruendo case con tetti che potessero costituire una difesa contro di esso. Ma la città si separa anche dalla terra con mura difensive, essa diventa soltanto una risorsa da sfruttare (pp. 106-107).
Da questa verticalità scaturiscono tre riflessioni: la prima riguarda la terra che, ripiegata su se stessa e contro se stessa, apre alla differenza tra città e campagna e, più ontologicamente, alla contrapposizione tra natura, cultura e storia, la quale, a sua volta, rinvia alla distinzione tra il naturale e l’artificiale. La seconda riflessione riguarda l’uomo: «se ogni individuo naturale deve morire, le stirpi invece si vogliono immortali come la città che costruiscono. (…). Ma l’assoggettamento continuo della natura da parte della cultura e della storia umana (ovvero, il predominio della linea evolutiva della perfezione contro il tempo ciclico delle stagioni), porterà al sogno della Città cosmica (Cosmópolis), abitata da un’Umanità unificata» (p. 107). La terza riflessione concerne l’argomento principale: «l’abitante della città non abita la terra. Anzi, al contrario, crede di rinnegarla. (...). Abitare nella città implica violentare la terra» (ibidem). Nel tempo della negoziazione e della lottizzazione, l’abitazione umana sorge in mezzo all’Unheimlich (lo spaesante, che è fuori da ogni paese e da ogni passaggio), e tuttavia l’uomo, essendo animale di terra (Adamo da Eden) cela dentro di sé la nostalgia di qualcosa che ha da sempre perduto: l’affermazione pura. Oggi questa nostalgia si è scissa in due ambiti cosmici: da una parte il ritorno ad una natura vergine, ma costruita artificialmente; dall’altra la costruzione di un organismo cittadino sempre in movimento, la metropoli. 
Nell’epoca attuale, contraddistinta dalla mescolanza di stili e culture, fra il minimalismo funzionalistico dell’International Style e il simbolismo ornamentale della postmodernità, avverte Duque, «non bisognerebbe dire, (…) che abitiamo nelle città, ma piuttosto che le consumiamo: consumiamo non-luoghi» (p. 116). Il senso dell’abitare, per il filosofo, è soprattutto quello di «radunarsi, sentirsi partecipe di qualcosa che accomuna ed eleva. In questo modo, la terra è elevata all’aperto. Elevare si dice in greco anatíthemi, “mettere in alto”, e per derivazione “consacrare”» (p. 140). 
Se Heidegger si concentra in alcune pagine mirabili dell’Ursprung des Kunstwerkes sulla descrizione del Tempio greco, Duque, in particolare, nel quarto capitolo del volume si sofferma sull’architettura moderna e contemporanea. Come ha sottolineato Vitiello, questa differenza ci consente di cogliere la cifra distintiva della ricerca del filosofo spagnolo: «trovare nel fango del mondo non la perla gnostica – se per assurdo la trovasse, la ridurrebbe in polvere per rimescolarla nel fango senza possibilità alcuna di separarla ancora – ma solo un riflesso di luce, prossimo all’inganno, di Madre Terra. All’inganno, come i colori dell’arcobaleno che non appaiono che all’occhio degli umani» (Prefazione, p. 13).
«Duque – conclude Vitiello – non ama il linguaggio puro della mente, ama il linguaggio che ha fame di corpo, che sa di Terra: nella poesia come nelle arti della visione, come nella musica. Perciò gode della musica di Mahler, come de La verbena de la Paloma (La sagra della Colomba), la zarzuela di Tomás Bretón sul libretto di Ricardo de la Vega. Perciò commentando Ein Winterabend di Trakl – Auf dem Tisch Brot und Wein – può citare insieme il verso di Boito del Falstaff verdiano: “Oste! Un’altra bottiglia / di Xeres”. Una giara di buon vino dà al linguaggio quella corpulenza che “sa di Terra”. Alle lacrymae rerum la levità d’un sorriso» (ibidem).


Indice

PREFAZIONE: RIPENSARE IL NICHILISMO
(MARGINALIA A EL MUNDO POR DE DENTRO)
di Vincenzo VItiello

Nota editoriale

I.   UN VUOTO CHE FA PENSARE

      § 1   L’epoca della rivelazione della Tecnica

                  a) Quando la modernità si mette a raccontare storie
                  b) Una leggenda sul limitare delle rovine

§ 2   Dell’impercettibilità della cosa

1. La fucina della presenza
2. La salvezza attraverso l’annichilimento

§ 3    La morte di Dio e l’apertura di Mondo

1. Albeggiare del Vuoto
2. Questione di buone maniere

§  4    La tecnica come metafisica compiuta (ed esaurita)

§ 5    Heidegger, ovvero l’abilità di distruggere le illusioni

1. La presunta neutralità strumentale della tecnica
2. La tecnica come invio di un destino
3. La tecnica come apertura di una regione della verità

II.  LE MANIERE DEL VUOTO

§ 1   L’automobile: dal Dio alla Macchina
§ 2   Una casa non è un focolare
§ 3   Una giara di buon vino
§ 4   La contrada del de-mente (mente captus)

III. LA PASSIONE DEL SAGGIO E LA PASSIONE DELLA TERRA

§ 1  Un linguaggio affamato di corpi
§ 2  La modernità: una calcolatrice di passioni
§ 3  Il canto della Terra

IV. TERRA
     
§ 1  Programmazione urbanistica e astuzia di Terra
§ 2  Una lingua che sa di Terra 

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