lunedì 17 novembre 2014

Weigel, Sigrid, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini

Trad. it. di Maria Teresa Costa, Macerata, Quodlibet, 2014, pp. 300, euro 24, ISBN 978-88-7462-582-6
[Edizione originale Walter Benjamin. Die Kreatur, das Heilige, die Bilder, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag GmbH, 2008]

Recensione di Silvia Baglini - 15/10/2014

Nella traduzione di Maria Teresa Costa appare in italiano, a quasi sei anni dalla pubblicazione in lingua originale, il testo di Sigrid Weigel che promette di offrire un rilevante, 

acuto contributo agli studi sull’opera e il pensiero di Walter Benjamin.
Categoria centrale di questa analisi è la «dialettica della secolarizzazione», espressione con la quale l’autrice, non nuova alla frequentazione del filosofo, definisce un movimento di pensiero che vede all’opera fin dagli scritti giovanili – dal saggio Sulla lingua in generale e sulle lingue degli uomini del 1916 – per giungere alle ultime, assai citate ma forse non altrettanto comprese, Tesi sul concetto di storia del 1940. Il tema della dialettica della secolarizzazione illumina la modalità di lettura della storia (e della storiografia) propria di Benjamin, tutta intrisa della separazione radicale tra il piano della creazione e quello della vicenda terrena, ma anche della tensione insuperabile introdotta dalla ricerca umana della felicità, con il suo riferimento agli oltre-umani concetti di giustizia e salvezza. 
Dalla Caduta ha inizio, per Benjamin, la storia del genere umano: una storia che, se la guardiamo disegnarsi al modo della monade di leibniziana memoria rivisitata nel Dramma barocco e fino agli appunti consegnatici nel Passagen-werk, sta intera tra la preistoria dell’Eden e la post-storia della Redenzione. Ripensarla in questi termini significa sciogliere la visione cronologica e l’impostazione consequenziale, per pensare a una scrittura della storia che si organizza intorno a punti di tensioni emergenti, ad «attimi di pericolo» che rendono il lavoro dello storico una necessità impellente, un obbligo che chiama – e fa della scrittura una risposta, un nominare-appellare (Anruf), piuttosto che un descrivere o raccontare. 
Della riflessione intorno a cosa significhi “fare storia” è intessuto il testo di Weigel, che potrebbe trovare un suo spazio all’interno di dibattiti attuali come voce che rivendica a Benjamin un ruolo tuttora non del tutto compreso – nonostante la moda delle sue interpretazioni – all’interno del dibattito sulla Modernità e sul nostro presente. In questo senso Weigel prosegue e sviluppa il lavoro avviato da La storia e il suo angelo (originale Der Engel der Geschichte. Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Scholem, trad. italiana Milano 1993) di Stephan Mosès, alla cui memoria il presente volume è dedicato. 
Anzitutto è ad una lettura della Modernità come epoca della secolarizzazione che Benjamin, sulla base di riferimenti puntuali e resi finalmente “evidenti”, viene contrapposto, quale autore di uno smascheramento: la secolarizzazione, come perdita del sacro e ancor più trasferimento sul piano profano e mondano – fino alla pura Natura e alla «nuda vita» – di domande e significati provenienti da un piano religioso, produce una lettura della storia univoca che si sposa tanto con il concetto illuminista, ma ancor più positivista di progresso, quanto con una interpretazione lineare che finisce per giustificare i trionfatori. La teologia nascosta disarma le potenzialità salvifiche dello stesso concetto di rivoluzione, come dimostra la storia della socialdemocrazia tedesca, drammatico riferimento polemico del Benjamin più maturo: il materialismo storico, come recita la prima famosa Tesi sulla storia, ospita, nascosta come si conviene ad ogni buon concetto secolare, la potenza teologica della redenzione ridotta però (tradendo Marx e certamente il Marx di Korsch, del quale Benjamin fu attento lettore) a meccanismo che non scardina, bensì finisce per riproporre la catena mitica di colpa e destino (cfr. p. 143).
Due momenti della storia del Moderno interessano a Benjamin da questo medesimo punto di vista, la critica al concetto invalso di secolarizzazione; due “oggetti”, diversi, dimenticati, che innestano una potenzialità dialettica nell’esperienza dell’uomo comune: l’allegoria barocca e la fotografia, dalle sue origini ottocentesche all’ingresso nel cinema. Tanto la prima che la seconda spezzano la linearità univoca e progressiva del tempo secolarizzato: l’allegoria inchiodando alla caducità del dettaglio, che aprendosi come abisso spezza l’immediatezza della vita rimandando allo stato creaturale (dalla Creazione, cfr. pp. 31-34) inafferrabile dell’essere; la fotografia fissando l’esperienza vissuta dello shock e dell’equiparazione da mercato di tutti i momenti possibili, che negando il valore progressivo del tempo rimandano la speranza (se ancora è sensato pensarla) all’ineffabile dimensione del messianico. Polarizzando, ciascuno a suo modo, la temporalità storica tra Creazione e Salvezza, questi elementi svelano la mistificazione insita in un’accettazione non avvertita (persino ai livelli alti, dotti, di studio e riflessione) del concetto di secolarizzazione e mostrano il loro ruolo reciproco nell’opera di Benjamin come nuclei per una lettura dialettica del proprio presente. Significativamente Weigel concentra la propria lettura degli scritti sulla fotografia non tanto sulla vexata quaestio della riproducibilità dell’opera d’arte – persino l’aura si ritira momentaneamente sullo sfondo – bensì piuttosto sulla struttura della temporalità che la fotografia (e poi il cinema) introducono nell’esperienza degli uomini del loro tempo, fissando e organizzando forme che la catena di montaggio, la prima guerra mondiale, la città abitata dalle masse hanno reso quotidiane. La storia culturale del Moderno letta attraverso la storia dei media (cfr. pp. 259-260) si allontana da un resoconto di progressi tecnici per far emergere le forme della percezione che a questi ultimi si rivolgono e in essi mostrano le inquietudini che la storiografia ufficiale sottace. Fotografia e cinema si fanno allora, per Benjamin, non solo oggetto ma metodo stesso dello studio, rimandando ad una loro “necessità strutturale” chiamata dall’epoca delle masse per un nuovo accesso, ormai impellente anche quando obliato, alla comprensione di quel contemporaneo che da tante parti, con insistenza feroce, mostra di essere situazione di emergenza. Si ricordi che per Benjamin la contemporaneità non si misura sulla linea cronologica ma si sostanzia nell’atto che disegna, nell’attimo del pericolo, la monade storica come scorcio sul mondo intero. Il Moderno può divenire allora «presente» (Jetztzeit) per lo stato di emergenza che si individua tra la prima guerra mondiale e l’emergente nazismo, così come, suggerisce Weigel, nel nostro oggi post-atomico e post-ideologico in cui il sacro e la vita, nel terrorismo fondamentalista che appartiene alla quotidianità – quella del 2008 in cui Weigel scrive, quella del 2014 in cui la leggiamo – tracciano una nuova costellazione ancora da studiare. 
Allegoria e fotografia sono accostate e non per caso per la loro dimensione letteraria (la fotografia è per il XX secolo, ci dice Benjamin, il nuovo alfabeto) e immaginale insieme. Se molti interpreti si sono affannati intorno alla natura dell’«immagine dialettica» benjaminiana, molto pochi sono per converso quelli che hanno dedicato la propria attenzione alle immagini di cui Benjamin parla nei suoi testi. Weigel sceglie invece di soffermarvisi, sia sulle immagini scelte e ricordate – siano quadri, opere di grafica, fotografie appunto – sia sulle immagini letterarie costruite dal filosofo-scrittore (un capitolo del libro è dedicato specificamente alle traduzioni, in particolare a quelle in inglese, e al carattere in fondo “intraducibile” della lingua di Benjamin), sottolineando l’irriducibilità della Bild in quanto oggetto o prodotto del pensiero (Denkbild nel duplice senso) ai tentativi di resa o “versione in prosa”. Le immagini benjaminiane non sono metafore ma grumi, costellazioni, non spostano ma trattengono: spezzano il fluire del discorso e della comunicazione come quello del tempo, quasi porte dalle quali potrebbe – con atto eminentemente nichilistico – entrare il Messia. L’immagine dialettica fa il paio con l’irrappresentabilità della speranza e della salvazione, che condannano ogni tentativo in questo senso alla ricaduta nella mitologia della Natura e della nuda vita (come accade ai personaggi di Goethe ma anche a quelli del Mahagonny di Brecht). La sacralizzazione dell’umano ha bisogno di quell’ordine che sfugge all’espressione, l’ordine teologico di matrice biblica che Benjamin riconosce invece all’opera, sotterranea potenza dialettica, nella necessaria sconfitta dei personaggi kafkiani.
Nessuna politica, a meno di reintrodurre surrettiziamente il teologico nel proprio spazio radicalmente altro, può assumere sulle proprie spalle il carico della Promessa. Né può farlo un’estetica politicizzata, o una politica-estetica. Tanto è incancellabile la domanda di felicità, quanto è innegabile che la risposta non è “di questo mondo”, non è della lingua che si è fatta strumento di descrizione e ha posto a suo criterio la verità (cfr. la critica benjaminiana all’interrogazione socratica, p. 41). La domanda di felicità non trova risposte né nell’epistemologia né nella variante tribunalesca della verità, nel diritto e nel castigo. La domanda è un appello a Colui che solo può rispondere, e la cui risposta sarà una chiamata, la chiamata di tutti e ciascuno con il suo nome, dall’inizio dei tempi. Tra chiamata divina e risposta umana sta lo spazio della sacralizzazione della vita, che sacra non è in quanto «nuda vita» (qui Weigel discute esplicitamente l’interpretazione di Giorgio Agamben) ma in quanto si colloca indefinitamente nella tensione tra due ordini irriducibili. La «nuda vita» non è che un prodotto deteriore di una secolarizzazione adialettica, un’aberrazione (cfr. p. 39) che – insieme alla banalizzazione sempre più corrente dei cosiddetti  “diritti umani”– mantiene gli uomini all’inferno, al di qua della possibilità di un’autentica giustizia. Tanto Benjamin rifiuta l’idea di una teocrazia quanto ogni sua trasfigurazione laica, sotterraneamente animata dall’incarnazione terrena della messianicità. Nella «doppia referenza» cui Weigel rimanda (p. 51) si colloca il luogo della «responsabilità» umana, senza garanzie, né di verità, né di sicurezza da parte di un ordine divino che si è ritirato dalla storia profana. La domanda politica resta aperta e interroga con tanta più forza l’ordine delle attuali istituzioni sociali perché se è vero, con Horkheimer, che i morti restano pur sempre morti, ai vivi è affidato il compito della redenzione intera della storia: non del suo compimento teleologico, ma del suo annichilimento quale condanna. Può la collettività assumere sulle proprie spalle questo ruolo? Le forme d’arte di massa producono un’intellettualità materialistica che sospende momentaneamente la folle corsa infernale offrendone un doppio “a portata”: non della consolazione estetica o moralizzante, ma della radicale destrutturazione dell’esperienza propria del XX secolo. Una consapevole restituzione del nichilismo mediatico come esempio di una politica d’emergenza non ancora esperita.
Quale speranza rimane, se una rimane, per questo mondo radicalmente altro da quello della Creazione, da quale porta sbirciare il possibile – ma assolutamente improbabile, ché non è di un ordine di possibilità matematico o scientifico che si parla qui – arrivo del Messia? Che sia compito infinito della filosofia tenere aperti spiragli, come brecce nel percorso di quell’uomo radicalmente “storico” che è l’uomo moderno? Filo-sofia distinta dall’eros socratico (cfr. p. 242), mossa da amore «melanconico», come la descrive la Premessa al Dramma barocco, toccata dalla bellezza che arde senza mirare alla riduzione in cenere: distinta dall’arte e nemica della sacralizzazione del suo verbo (monito a tante interpretazioni esoteriche di Benjamin), pur senza pretendere, affatto, di dissolvere ogni velo, presa nella tensione tra verità epistemologica e affiorare di ciò che non trova espressione (Ausdrucklose) e in cui l’ordine autentico dell’uomo si lascia, forse, intravedere. Compito di questa filosofia non è indicare una via, ma spezzare un incedere sicuro e inconsapevole – come fa la fotografia quando dalle immagini del camminare dell’uomo fa emergere l’inconscio ottico. In queste brecce stanno la forza e il senso dello «studio»: di un sapere e un atteggiamento radicalmente votati all’insuccesso commerciale e alla perpetua, elettiva incapacità di tenere il tempo del Moderno. 


Indice

Prefazione

Sulla soglia tra creazione e giudizio universale
1. La creatura e il sacro. Il rapporto di Benjamin con la secolarizzazione
2. Il sovrano e il martire. Il dilemma della teologia politica di fronte al ritorno della religione
3. La rinuncia alla norma in casi mostruosi. La Critica della violenza al di là della teoria del diritto e dello «stato di eccezione»

Qualcosa al di là del poeta che irrompe nella parola poetica
4. La poesia come luogo dello sfondamento. Sulla dialettica tra ordine divino e ordine umano nel saggio Sulle Affinità elettive di Goethe
5. Formule di pathos bibliche e inferno terreno. Brecht agli antipodi rispetto al modo di Benjamin di rapportarsi con le Sacre Scritture
6. Il pensiero ebraico in un mondo senza Dio. La lettura benjaminiana di Kafka come come critica ai theologumena cristiano ed ebraico

Dal centro del suo mondo di immagini
7. Traduzione come rapporto provvisorio con l’alterità delle lingue. Sullo scomparire del pensiero per immagini nelle traduzioni delle opere di Benjamin
8. Lo studio delle immagini nello spirito della vera filologia. L’odissea del Dramma barocco tedesco nella Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Warburg
9. I capolavori sconosciuti nella galleria di immagini di Benjamin. Sull’importanza dell’arte per l’epistemologia benjaminiana
10. Dettaglio, immagini fotografiche e filmiche. Sull’importanza della storia dei media per la teoria della cultura di Benjamin

Ringraziamenti
Elenco delle illustrazioni
Bibliografia

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