mercoledì 30 marzo 2016

Lavazza, Andrea, Filosofia della mente

Brescia, La Scuola, pp. 214, Euro 12,50, ISBN 978-88-350-4029-3

Recensione di Tiziana Gabrielli - 20/05/2015


Per chiarire la complessità dello statuto epistemologico della “filosofia della mente” (philosophy of mind), definita «una disciplina centrale dai confini aperti», Andrea Lavazza cita un passaggio tratto da una fondamentale opera di John Searle, dal titolo Mind. A Brief Introduction (Oxford University Press, New York  2004): «Il mondo in cui opera la mente – consciamente e inconsciamente, in maniera libera e non libera, nella percezione, nell’azione e nel pensiero, nelle sensazioni, nelle emozioni, nella riflessione e nella memoria, e in tutti gli altri suoi aspetti – non è semplicemente una parte della nostra vita,


ma è, in un certo senso, la nostra vita» (Introduzione, p. 5). 
Lavazza precisa che la filosofia della mente, nella forma presentata nel suo volume, è emersa intorno alla metà del Novecento grazie a Wittgenstein, Russell e Ryle, «con il chiaro delinearsi del suo problema centrale a livello metafisico, ovvero esattamente il rapporto tra mente e cervello, tra il mentale (mental; mentality) e il fisico. Ma ciò è avvenuto proprio quando la prospettiva dualistica cartesiana era nella sua parabola discendente. Il focus della filosofia della mente per decenni è stato principalmente un tentativo di superare tale dualismo e di trovare nuove declinazioni del rapporto mente-cervello, fino alle identificazioni e alle eliminazioni» (p. 10). 
Il merito del volume di Lavazza sta quindi nel proporre un’agile, tecnica ed utile introduzione sulla filosofia della mente, fornendo un panorama sintetico ma rigoroso delle questioni messe in campo da alcuni tra i maggiori contributi delle scienze cognitive di area anglo-americana. 
Nel primo capitolo, dal titolo “La mente e il mentale”, lo studioso, sulla scorta della lezione di Lowe e non solo, specifica il rapporto tra filosofia della mente e metafisica, sostenendo che la prima, occupandosi dello «statuto ontologico dei soggetti di esperienza», «presuppone una cornice metafisica al cui interno interpretare i propri dati sperimentali, implica cioè una coerente concezione generale della realtà per unire teorie e osservazioni» (p. 21). 
Dopo un rapido ma efficace excursus sui fenomeni mentali, distinti nei loro aspetti qualitativo-fenomenologici ed intenzionali, e sugli aspetti qualitativi o fenomenici dell’esperienza cosciente (qualia), Lavazza si sofferma sul concetto di “intenzionalità”, nella rilevante definizione per la filosofia della mente che ne diede Brentano (1884), secondo cui «la cosiddetta inesistenza intenzionale costituisce la vera caratteristica peculiare di tutti gli stati mentali» (p. 33). In altri termini, gli stati mentali devono essere o coscienti o intenzionali. Secondo Husserl e oggi, tra gli altri, Strawson, è la coscienza fenomenica il marchio del mentale. Se invece si sostiene, in modo controverso, che tutta la coscienza sia rappresentazionabile, allora, come propone Crane, è l’intenzionalità il marchio unitario del mentale (pp. 36-37). 
Riguardo allo statuto ontologico del mentale e il funzionamento della mente sono state avanzate differenti teorie, tra loro incompatibili ma non equivalenti, Nel secondo capitolo, dedicato infatti al tema “Contenuto mentale, percezione e coscienza”, Lavazza rileva che, se per molti filosofi, l’intenzionalità è un fenomeno primario, irriducibile, numerose teorie naturalistiche cercano invece di giustificare l’intenzionalità in base a relazioni o stati fisico-biologici basilari dell’organismo. Tra esse, possono essere contemplate la teoria dell’interpretazione (Quine e Davidson), secondo cui sono rilevanti tre variabili: il comportamento, la credenza e il significato; le teorie del ruolo concettuale (Searle), per le quali la rete degli stati mentali intenzionali si basa su uno sfondo di capacità non intenzionali, ovvero inconsce, di cui siamo dotati per manipolare il reale; le teorie causali (Fodor e Dretske), che cercano di superare i problemi irrisolti delle teorie del ruolo concettuale, richiamandosi alle relazioni causali che gli stati mentali hanno con il mondo esterno; le teorie biologiche (ad esempio, la biosemantica di Garrett Millikan), secondo cui l’intenzionalità è una pura funzione naturale; e le teorie strumentaliste (Dennett), che usano l’intenzionalità solo come “strumento” per spiegare ed interpretare il comportamento di sistemi fisici complessi, compresi gli esseri umani (pp. 41-48). La «spiegazione dei contenuti intenzionali – scrive Lavazza – rimane uno dei maggiori problemi all’interno della filosofia della mente. Questo accade perché elementi fisici che manifestano intenzionalità, come parole o disegni, non paiono possedere un’intenzionalità propria, ma soltanto un’intenzionalità legata agli interessi o agli scopi degli interpreti umani» (p. 49).  
Uno spazio rilevante viene riservato alla coscienza, che costituisce un aspetto centrale del mentale. Pur nella diversità di posizioni e definizioni, oggi assistiamo ad un certo consenso nel considerare la coscienza una proprietà di alcuni stati mentali, piuttosto che una sostanza. James sosteneva che la coscienza scompare quando dormiamo e ricompare quando ci svegliamo. Prima di lui, Locke riteneva che la coscienza era la «“percezione di ciò che passa nella nostra mente”» (p. 64). Punto di riferimento per l’attuale dibattito filosofico sulla coscienza è stato un articolo di Nagel (1974), nel quale viene dimostrato che la coscienza è soggettiva, mentre gli stati fisici, compresi quelli cerebrali, non possiedono questo carattere. Pertanto non vi può essere riduzione della coscienza al cervello. Grazie a Block, si è soliti oggi distinguere tra “coscienza fenomenica” (phenomenal consciousness) e “coscienza d’accesso” (acces consciousness). La prima comprende stati ed eventi mentali sensoriali (es. vedere una banana gialla, provare dolore a un polso), mentre la seconda include i contenuti portati dai nostri stati coscienti (es. vedo che c’è il sole e penso di indossare occhiali scuri) (p. 70). 
Strettamente connesso al tema della coscienza è quello dell’autocoscienza (self-consciousness). L’autocoscienza ha in sé due componenti fondamentali: il riconoscimento di sé e il ragionamento riflessivo. Questi due elementi possono anche entrare in contrasto, dimostrando, secondo gli scienziati cognitivi (fra cui Metzinger), che l’Io di cui si ha autocoscienza non sia una sostanza, ma un’illusione del cervello, costruita ad arte forse per ragioni evoluzionistiche. D’altro canto, la teoria psicologica è portata a postulare che «coscienza e autocoscienza non siano soltanto fenomeni mentali indubitabili, ma anche stati stabili che vanno a costituire il soggetto stesso» (p. 74). 
Il terzo capitolo, intitolato “Dualismo e teorie non fisicaliste”, prende in esame le varie tipologie di dualismo mente/corpo, mentale/fisico, mente/cervello, a partire da quello cartesiano, mostrando gli argomenti pro e contro il dualismo, con un richiamo finale alle teorie del “doppio attributo”. Nel Discorso sul metodo di Cartesio troviamo la premessa epistemologica dell’argomento del Cogito, fondato sulla consapevolezza che il pensiero costituisce la proprietà essenziale dell’uomo, che è prima di tutto res cogitans. Di qui Cartesio può dedurre che mente e corpo (res extensa) sono sostanze ontologicamente diverse e distinte, dando luogo al celeberrimo dualismo (Sesta meditazione). Lavazza ricorda, tuttavia, che il concetto di dualismo risale all’idea platonica di un’anima immortale che transita nel corpo corruttibile: gli esseri umani sono anime immateriali (Leggi).  
Nonostante l’attuale declino del dualismo mente-corpo, a causa dei progressi della conoscenza fisica e medica, la prospettiva cartesiana continua a fornire argomenti a favore del dualismo: dall’argomento dell’indivisibilità  alla concepibilità della distinzione mente-corpo, sostenuta da Robinson, all’argomento dello “spettro invertito” (spectrum inversion) o dei “qualia invertiti” (inverted qualia), originariamente concepito da Locke e ripreso oggi, tra gli altri, anche da Chalmers. Si tratta di argomenti forti ai quali i fiscalisti hanno reagito con diverse strategie. Ma la domanda chiave a cui Cartesio non seppe rispondere è la seguente: come fa la mente non fisica a interagire con il mondo fisico? Alla questione, prospettatagli già da Elisabetta di Boemia in una famosa lettera, Cartesio rispose che «l’unione di mente e corpo è un concetto primitivo, un dato fondamentale, di per sé intelligibile e non spiegabile in termini di altre nozioni più basilari, dunque la causazione mente-corpo e corpo-mente dipende da questa unione essenziale» (p. 88). 
Il quarto capitolo verte sul tema “Il fiscalismo riduzionistico ed eliminativistico”. Il fisicalismo si fonda sulla tesi secondo cui la scienza è il metodo più affidabile per comprendere il mondo. Nell’ambito della filosofia della mente, il fiscalismo può essere suddiviso in fiscalismo riduzionistico (reductive), per il quale il discorso psicologico corrisponde direttamente alle categorie della teoria fisica; fiscalismo non riduzionistico (nonreductive), secondo cui le scienze speciali non sono riducibili alla fisica; e fiscalismo eliminativistico (eliminative), per il quale il discorso psicologico non è né descrittivo né esplicativo, ma semplicemente falso (p. 100). 
Da questa tripartizione Lavazza passa a considerare le teorie più rilevanti fino al secolo scorso per quanto concerne il rapporto tra fiscalismo riduzionistico e filosofia della mente. A partire dal comportamentismo o behaviorismo, una tra le prime alternative al dualismo mente/corpo, che ha come retroterra il monismo materialistico di Democrito, passando per Lucrezio, Hobbes e La Mettrrie. Il comportamentismo ha un versante filosofico sulla natura della mente e il significato dei termini mentalistici (l’assunto chiave della teoria è che il comportamento è costitutivo del mentale), e uno psicologico, legato al metodo da adottare. Per Watson, uno dei padri fondatori del comportamentismo, «la psicologia è una branca puramente oggettiva e sperimentale della scienza naturale, il cui obiettivo teorico è la previsione e il controllo del comportamento» (p. 111). 
In seguito al declino del comportamentismo, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento, si andava affermando la teoria dell’identità psiconeurale (psychoneural identity theory), dovuta principalmente a Feigl, Place e Smart. «Essa sostiene l’identificazione di processi mentali con processi fisici del cervello» (p. 116). Una teoria, particolarmente controversa, è quella dell’eliminativismo materialistico o fisicalistico (eliminative materialism o physicalism), sostenuta da Quine, Rorty e Churchland, i quali ritengono che «il riferimento a menti e a stati mentali può e deve essere eliminato dalle descrizioni e dalle spiegazioni della natura e del comportamento di tutti gli esseri senzienti» (p. 122). Per arginare il realismo delle teorie sulla mente, la posizione dello strumentalismo (instrumentalism) (Dennet) si articola intorno alla seguenti tesi: «che una creatura abbia una mente dipende solo dal fatto che sia utile considerare tale creatura dotata di mente e trattarla “come uno di noi”. L’atteggiamento intenzionale che così si assume serve per comprendere e predire il comportamento di qualunque organismo» (p. 127). Naturalmente tutte queste teorie presentano argomenti a favore e contro, di cui Lavazza propone un accurato ragguaglio.
La questione del rapporto tra “il fiscalismo e la sopravvenienza” viene approfondita nel quinto capitolo. Secondo Kim, «il funzionalismo può essere considerato una forma più sofisticata di comportamentismo, in quanto utilizza input sensoriali e output comportamentali come propri concetti centrali: stimolo e risposta, in sintesi. Ma la differenza fondamentale e decisiva è che per i funzionalismi gli stati mentali sono reali stati interni di un organismo, dotati di poteri causali, capaci in normali circostanze di provocare alcuni tipi specifici di comportamento sotto certe precise condizioni di input » (p. 137). 
Nell’originaria formulazione di Putnam, il funzionalismo si richiama alle caratteristiche postulate dalle macchine di Türing, ed è perciò chiamato funzionalismo della macchina (machine funzionalism) o teoria computazionale della mente (computationalism). La tesi filosofica avanzata, sulla base di questa prospettiva, è che l’importanza di avere un cervello sta nel fatto che esso è una macchina computazionale. Questa teoria computazional-rappresentazionale della mente (computational-representational theory of thought), è stata elaborata da Fodor (1975). Come i computer, le menti sono “motori semantici” (semantic engine) che «possono manipolare gli enunciati sulla base delle loro caratteristiche strutturali o formali (la sintassi) senza considerare il significato (meaning), cioè la semantica, e ciononostante produrre un comportamento che appare intelligente» (p. 155). Tra le obiezioni più note a questa teoria vi è l’argomento della stanza cinese di Block (1978), secondo cui non si può generare la semantica a partire dalla sintassi, in quanto serve un contatto con il mondo per generare significati e intenzionalità (p. 157).
Un’altra via per la prospettiva materialistico-fisicalistica non riduzionistica è quella della “sopravvenienza” (supervenience), teoria in base alla quale non si dà alcuna differenza mentale senza la presenza di una differenza fisica. E la stessa psicologia può essere realizzata da sistemi fisici differenti. I problemi della sopravvenienza sono legati alle sue molteplici versioni e che ciascuna è più o meno soddisfacente per il fiscalista non riduzionista. 
Il sesto ed ultimo capitolo si occupa delle altre teorie sul mentale, che vantano una lunga tradizione, riattualizzata alla luce elle nuove conoscenze scientifiche. Un esempio è costituito dall’idealismo ontologico (ontological idealism), di matrice berkeleyana, secondo cui tutto è mentale, e gli oggetti ordinari coincidono con le idee e le esperienze: non esistono tavoli o montagne indipendenti dalla mente (p. 174). Un’altra teoria è il monismo neutrale (neutral monism), per il quale tutto è neutro. La pretesa di sussumere dentro una sostanza neutra che può essere descritta sia in termini fisici sia in termini mentali, la distinzione mentale/fisico, costituiscono, secondo Russell -  il suo promotore più influente -, il principale argomento a favore del monismo neutrale, sebbene esso appaia anche “non dimostrabile” (p. 177).  L’ilemorfismo (hylomorphism), di origine aristotelica, è la dottrina della costituzione metafisica dei corpi naturali, fatti di materia prima e forma sostanziale, i quali sono principi sostanziali e fattori ultimi. Nonostante sia stato superato dalla scienza baconiana moderna, l’ilemorfismo sembra ritrovare forza in riferimento alla biologia contemporanea, la quale mostra come l’elemento di distinzione tra gli esseri viventi e il loro comportamento dagli oggetti inanimati è proprio il modo in cui i materiali che li compongono sono organizzati. Malgrado i limiti e le critiche che gli interpreti muovono a questa posizione, la teoria ilemorfistica della mente promette di superare il dualismo tra il mentale e il fisico, dando anche una spiegazione della causazione mentale che fa spazio senza contraddizioni alle nostre intuizioni, che vedono nella causazione plurima un dato evidente ed ineliminabile (pp. 179-185). 
Tra scienze cognitive e filosofia della mente si trova poi il modello della mente estesa (extended mind), proposto da Clark e Chalmers (1998). Questo modello prevede che i processi cognitivi e gli stati mentali non siano limitati nei confini del sistema centrale e del corpo. Esistono infatti elementi dell’ambiente che possono fungere da veicoli attivi dei fenomeni mentali e sono parte integrante dei soggetti in questione. Le critiche al modello della mente estesa, tuttavia, si basano proprio sui criteri di individuazione del mentale e del cognitivo (mark of the cognitive) (pp. 187-189).
La filosofia della mente ha un ruolo significativo e riconosciuto nell’analisi concettuale ed interpretativa dei dati sperimentali afferenti alle nuove scienze cognitive ed alle teorie neurocognitive della coscienza.  Quando invece si occupa delle neuroscienze, «molta filosofia della mente» - avverte Lavazza -  «finisce con l’essere pregiudizialmente emarginata, a meno che non faccia proprio un paradigma di fiscalismo riduzionistico semplificato per lo scopo specifico. Ciò comporta che il filosofo della mente non possa ignorare l’esteso settore delle scienze cognitive, sapendo però mantenere il suo specifico approccio» (p. 196). «La filosofia della mente – conclude – sembra destinata a un futuro ancora lungo e ricco di feconde controversie» (p. 197). 


Indice

Introduzione

Una disciplina centrale dai confini aperti

I. La mente e il mentale

II. Contenuto mentale, percezione e coscienza

III. Dualismo e teorie non fisicalistiche

IV. Il fisicalismo riduzionistico ed eliminativistico

V. Il funzionalismo e la sopravvivenza

VI. Altre teorie sul mentale

Bibliografia

Indice dei nomi

Indice analitico

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