mercoledì 16 marzo 2016

Negro, Matteo, Bene comune e persona

Roma, Studium, 2014, pp. 210, euro 19,50, ISBN 978-88-382-4238-0. 

Recensione di Antonio G. Pesce - 12/10/2015

Il tomismo non sarà mai una filosofia popolare, alla moda. Non lusinga il pensatore, non gli dà la possibilità di inventarsi un mondo, perché va semplicemente alle fondamenta di quello che c’è già, e che gli uomini di buona volontà sanno vivere senza bisogno di filosofare. Alcuni, però, hanno questa vocazione – una vocazione al profondo, al senso del reale. Il tomismo li fa partire dalla stazione più vicina e più comoda, quella dell’ente. «Primo in intellectu cadit ens», scrive Tommaso nel commento alla Metafisica dello Stagirita. E ogni


ente ha intrinsecamente due caratteristiche: è «unicum» e «aliquid». Cioè è se stesso (unicum) e altro (aliquid), diverso da ogni altro ente. Tanto che l’esse commune, cioè l’essere partecipato dagli enti, può essere solamente colto dall’intelletto, non essendo sussistente in se stesso. Sussiste solo l’ente concreto, e il vero e il bene gli sono connaturati. 
Di questa tradizione si sente erede Matteo Negro, come nota Agazzi nella prefazione a questo volume sul bene comune e la persona. Ma tradizione non è certezza di una dimora, ma sicurezza di un viaggio, e Negro si accompagna a Tommaso nel lungo cammino che questi concetti hanno avuto, senza nascondere che la strada è impervia. Quale ente, dunque, appare il più concreto, essendo capace di sussistere per se stesso? Quell’ente che ha autocoscienza, perché solo così ci si può possedere pienamente e mirare al proprio perfezionamento. Non c’è dubbio che la persona è questo ente – un ente che ha la possibilità di perfezionare il proprio essere. Ma se è l’unico ente concreto, ha ragione Negro quando afferma che, durante il suo studio – perché è così che avviene in un’avventura intellettuale che si vuole realista: si parte aprendosi alla meraviglia dell’essere, e non già inscatolandolo nelle proprie preliminari elucubrazioni - «si è prodotto un impulso ulteriore, che ha quasi obbligato a dare una direzione nuova alla trattazione: la percezione dell’incondizionalità della persona» (p.13), propria dell’uomo in quanto tale. «Il bene comune è quindi un bene interno all’uomo e alla sua esperienza», non un accessorio della discussione politica, da tirare in ballo in molte campagne elettorali, quando lo si confonde con il bene totale, cioè con una «sommatoria» nella quale, pur annullando alcuni addendi, la somma rimane identica. Semmai, afferma Negro citando Zamagni, il bene comune è più simile ad una produttoria, perché cinque più zero fa cinque, ma cinque per zero fa zero. Ogni fattore, in una produttoria, è fondamentale. «L’essere della persona non è il prodotto, ma il fondamento, l’anteriore logico e teleologico dell’agire individuale e politico: l’agire razionale lo lascia dilagare e affiorare» (p. 14). 
Questo discorso ha conseguenze politiche di non poco conto. Il fare segue l’essere, afferma Tommaso, e nell’azione l’uomo perfeziona il proprio essere e prende coscienza della propria relazionalità. Non in grandi Moloch che annientano la persona vanificandone ogni azione, ma nei gruppi intermedi, nella società politica possiamo realizzare il nostro e l’altrui bene, in una cooperazione che non alieni la persona non solo dai prodotti del proprio agire, ma dal proprio agire medesimo. 
Delle tre «prospettive» dalle quali si è analizzato il concetto di persona – forma, individualità, personalità - rubricate da Guardini, Negro prospetta una visione sinottica. Possiamo recuperare la concezione formalistica, tipica dell’essenzialismo metafisico e del naturalismo scientifico, ovvero la sussunzione della «persona umana … al piano descrittivo delle qualità categoriali di una determinata classe di genere» (p. 24), ma solo avendo chiaro che « “[p]ersona” non indica … una classe di appartenenza comune a tutti gli individui; al contrario ogni individuo umano si rapporta alla propria classe di appartenenza … come se fosse l’unico elemento di quella classe» (p. 28). È una concezione neoaristotelica, che permette di non soffocare la realtà pulsante della persona nell’astrattismo di una qualsiasi «proprietà sortale», come quando la riduciamo alla mera coscienza: che livello di coscienza si deve mostrare – e mostrare a chi? quando? come? – perché si venga annoverati tra gli esseri umani? 
E se la persona non è riducibile ad una classe, non lo è neppure alla sua natura fisica. Gli uomini sono sempre identici a se stessi, nonostante le mutazioni fisiche cui sono soggetti nel tempo. Aristotele legava il concetto di natura a quello di sostanza, e nella Fisica, dopo aver affermato che la natura è «un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente», concludeva il suo ragionamento affermando che «la natura è sempre in un sostrato». Chiosa Negro: «[L]’autentico punto di svolta della filosofia naturale aristotelica nell’esame dello statuto dell’uomo consiste nell’affermazione del principio vitale e non meccanico degli individui» (p. 32). La situazione cambia con Cartesio, l’identità viene slegata dalla sostanzialità, e il self diventa il mero soggetto psicologico. 
In ultimo, non si può neppure ridurre la persona alla propria autocoscienza. La sola autocoscienza non basta, perché essa è possibile solo perché siamo capaci di autoriferimento. Quando ciascuno di noi dice “io”, è a se stesso che si riferisce senza possibilità di errore. Ed è questa stessa capacità di autoriferimento che io riconosco all’altro, al “tu”. L’autoriferimento è pura relazione denotativa – afferma Negro – fra il segno e la realtà personale, ed è per questo che è possibile anche in casi di immaturità psicologica. Il corpo cambia, lo sappiamo, ma esso è vissuto in ogni istante come corpo dell’io. Per questo «la natura umana non è un’essenza universale o un patrimonio genetico, ma è proprio “quella persona lì”, che è un fine in sé» (p. 52). 
A questo punto, dovremmo chiederci come nasca la società, che non è una «realtà originaria». In realtà, come ha notato la Arendt, ciascuno di noi non è mai solo davvero: la prima società è quella tra sé e se stesso. «Il linguaggio e il pensiero – fa notare Negro – sono le forme espressive di una relazione, che è della persona e che, in quanto originaria, non è appresa né indotta dall’esterno. La relazione con l’esterno, con l’altro, che dal punto di vista della coscienza sembrerebbe precedere quella con il sé, presuppone l’io relazionale … [E] il fatto che l’io sia relazione con sé stesso indica che l’identità dell’io, cioè l’essere identico a sé stesso, include la relazione» (p. 57). Questa relazionalità, se non rettamente intesa, rischia di assorbire la persona nel suo irriducibile essere, e cosa ci rimarrebbe, allora, se non un astrattismo intellettuale? Se non un puro costrutto mentale? La relazione, notava giustamente Aristotele, è accidente della sostanza: seppur il più intimo degli accidenti, non è realtà originaria. 
Non siamo soli, ma non siamo identici. «La pluralità presuppone la singolarità» (p. 69), «[n]ella relazione la persona si apre a sé e agli altri, ma al centro della sua rivelazione si annida qualcosa di unico e incomunicabile, un fattore costitutivo che rende unica, libera e inoggettivabile la comunicazione stessa» (p. 79). 
Negro dedica molto spazio all’analisi di concetti come preferenza, desiderio, scelta. Ovviamente, il problema è serio: quali sono le cause delle azioni umane? Se realtà originaria è la persona, come possiamo arrivare alla societas? Perché ciascuno di noi non dovrebbe agire per il proprio tornaconto? Non è cosa da poco, e qui l’autore si muove su un campo minato. Sarebbe facile declinare tutto in imperativi categorici, facendo leva su una morale rigorista del dovere per il dovere. In realtà, ne varrebbe della concretezza dell’umano, perché Negro non vuole – con lui la tradizione del pensiero filosofico e teologico cattolico – chiudere la persona in se stessa, ma non vuole neppure diluirne l’identità, la carne pulsante di vita in pastrocchi idealistici. L’uomo ha una vocazione a trascendersi, e se ha preferenza per qualcosa, non vuol dire che poi agisca di conseguenza. Può, anzi sente il desiderio di dare ragione di ciò che fa, perché gli è connaturato  ̶  desiderio non inferiore a quello che prova nel soddisfare se stesso. Non è forse vero che davanti a certe scelte individuali inerenti la morale e la stessa sessualità, e la cui discussione ha investito lo spazio pubblico, non se ne chiede più la semplice tolleranza, ma l’accettazione adducendone ragioni? Giustamente nota Negro: «La dimensione pubblica della natura umana coincide con la dimensione discorsiva e razionale, cioè si configura come linguaggio pubblico del e sul soggetto» (p.86), e ancora: «Nella sua genesi il senso dell’azione umana è dato in una relazione, in un’apertura all’altro che è condizione della sua riconoscibilità: l’azione del soggetto si dà per l’altro, non perché sia compiuta in una compagnia fisica, ma perché il suo senso è radicato nella pratica di vita e di linguaggio, cui la vita del soggetto è indissolubilmente legata» (p.88). 
Per questo possiamo dire con Negro che il bene comune non è accordo di preferenze, non viene prima delle scelte, ma ne è fondamento, radicandosi in un self «identico nel tempo, ontologicamente relazionale, ordinato alla ricerca del bene fondamentale e dotato di razionalità deliberativa» (p. 100), e la collaborazione tra persone, prima di essere un’esigenza pratica, «corrisponde ad un’istanza trascendentale, cioè al perfezionamento del sé relazionale» (p. 133). Dunque, «[i]l bene comune costituisce la perfezione della persona e, nello stesso tempo, la fioritura di chi è coinvolto nella relazione comunitaria» (p. 137), e il bene individuale vi appartiene in modo analogico e proporzionale. Certo, «[i] livelli su cui si esercita il perseguimento del bene comune, in un senso pratico, sono molteplici», perché «[o]gni ambito sociale ha un proprio bene comune, benché quello più generale includa il bene dell’ambito più ristretto» (p.179), ma ciò è dovuto all’azione della persona, la realtà originaria, «alla prese con obiettivi che variano di grandezza e forza» (p. 185). 
È facile organizzarsi contro la religione dell’alta finanza, il cui deserto avanza inghiottendo le vite di milioni di esseri concreti, persone ridotte alla fame e senza più alcuna speranza. Quello che Matteo Negro ci mostra, invece, è che questo deserto è figlio di un altro, ben più pericoloso e diffuso: è figlio del deserto che cresce in noi. Questo sì difficile da fermare con un’organizzazione di piazza, in cui tante monadi sperano di trovare un accordo raccattando consensi e contando voti. 



INDICE 
Prefazione di Evandro Agazzi
Introduzione
I. Persone, natura e relazione
II. Persona e personalità
III. Bene comune e società politica
Indice dei nomi 

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