venerdì 27 maggio 2016

Centrone, Bruno, Prima lezione di filosofia antica

Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 204, euro 14, ISBN 978-88-581-1726-2

Recensione di Alessandro Pizzo – 04/05/2015

Centrone non si propone di presentare la storia della filosofia antica, ma di indicare le condizioni di «nascita della filosofia» (p. 3), vale a dire mostrare i momenti salienti di fissazione «di un lessico specializzato» (p. 4). Dunque, non si desidera offrire una sintesi generale «di filosofia antica» (p. 4), ma «una semplice prefazione» (p. 4).
A questa finalità, l’autore dedica l’intero volume che si condensa nel descrivere l’evoluzione di «cosa significa essere


filosofo nell’antichità» (pp. 8 – 9). Centrone scorre la cultura greca dai primordi omerici sino a Platone ed Aristotele. Il leit – motiv seguito è la «capacità di astrazione» (p. 18) che, attraverso i secoli, perviene alla costruzione «del lessico fondamentale della filosofia antica» (p. 28), alla cui analisi dei termini principali è dedicato appunto il volume.
La prima questione affrontata è il termine philosophia. Centrone ne definisce i contorni semantici attorno al significato di filosofare, ossia «amare la sapienza» (p. 32). Precisa, tuttavia, come ‘filosofo’ sia «un termine che agli inizi connota, piuttosto che denotare» (p. 32). La sapienza è «conoscenza e contemplazione disinteressata della natura» (p. 37) mentre il filosofo «è colui che ama questa sapienza» (p. 37). Pertanto, la sapienza mostra il suo volto non strumentale, «viene amata di per sé e non in vista d’altro» (p. 37). Allora, il termine philosophia consente due interpretazioni differenti: «desiderio di un sapere che non si possiede» (p. 46) e «amore disinteressato per un sapere che si può arrivare a possedere» (p. 46).
La seconda questione verte sulla controversia tra i sophistès e la condanna platonica. La diatriba tra i sophistès i philosophoi mette capo ad una distinzione che appare chiara ai nostri occhi, ma che così non era per i contemporanei. Il problema è dato dalla etimologia di sophìzesthai che significa escogitare stratagemmi. È evidente «lo scivolamento al negativo» (p. 49) del termine stesso. Il sofista è, dunque, colui che escogita stratagemmi, vale a dire colui che adopera «argomenti capziosi» (p. 49). Platone cerca di precisarne i contorni, anche al fine di smarcarsene. Vi riesce solo in parte perché i sofisti e i filosofi condividono un patrimonio lessicale, e, dunque, culturale, in comune. Nel Sofista, Platone descrive il metodo dialettico dei sofisti, ma concede pure qualcosa all’agonismo della contesa polemica così come al procedimento dell’èlenchos che «ricorda le pratiche refutatorie tipiche dei sofisti» (p. 52). La storia della contesa tra i sophistès  e Platone è, sotto molti punti di vista, istruttiva perché mostra un processo di «trasformazione semantica» (p. 55) di termini preesistenti in nuove costruzioni e nuovi significati.
La terza questione, connessa alle operazioni di risemantizzazione di concetti e conoscenze pre - esistenti, è l’essere. La questione ontologica nasce quando «si passa a domandare in che consista per le cose il loro essere» (p. 56). Dalle riflessioni dei primi naturalisti sull’essere delle cose discende l’interrogazione «sui possibili diversi sensi in cui si dice che qualcosa “è”» (p. 57). La questione, pertanto, consiste nell’esplorazione dei «significati dell’essere» (p. 57). A dispetto delle attese, il problema ontologico è assente in Parmenide ove l’essere viene inteso nei termini di hèn e synechès, ossia «le cose che sono costituiscono un’unica totalità ininterrotta» (p. 62). Piuttosto, è in Platone che la questione raggiunge una sua individuazione e precisazione. Egli, infatti, introduce per primo «una definizione (hòros) dell’essere che può essere considerata una risposta […] al problema di fondo» (p. 65). E ciò viene fatto in relazione alla sistemazione linguistica del termine usìa che esprime «l’esserci delle cose» (p. 68), vale a dire l’essenza di queste ultime, e, dunque, «la nominalizzazione della domanda “che cos’è X?”» (p. 69) Usìa è tanto il predicato di una cosa, ossia ciò che una cosa è, quanto il soggetto di una cosa, ossia la sostanza di una cosa. Il duplice significato regge l’ambiguità del discorrere socratico così come lo slittamento successivo in due termini differenti e distinti, vale a dire substantia ed essentia. Questo passaggio, tuttavia, indica un superamento della filosofia aristotelica per la quale l’usìa «è sostrato ontologico delle proprietà e soggetto logico» (p. 76).
La quarta questione è la semantizzazione del termine alètheia, vale a dire la verità. Il momento iniziale di tale processo è la contrapposizione tra la verità da un lato e la falsità dall’altro lato, che spinge nella ricerca di una definizione compiuta. Così, è «solo in Platone e Aristotele» (p. 81) che si «ha la formulazione di una teoria» (p. 81). Già in Omero è presente l’espressione tèn alethèin lègein «per “dire la verità”» (p. 83). In Platone, alètheia «non è una verità logico-proposizionale» (p. 89), consistente in una sorta di conformità del discorso alla realtà, «ma una verità ontologica» (p. 89). Nell’economia del discorso platonico, vero significa reale. E questa concezione ontologica della alètheia «convive in Platone con la prima formulazione di una teoria della verità come corrispondenza» (p. 92). È, però, in Aristotele che «si compie la definitiva separazione tra verità ontologica e verità logico-proposizionale» (p. 93). Riprendendo, infatti, un possibile uso della lingua greca, nello stagirita l’essere significa l’essere vero, così come il non essere significa il non essere vero. Pertanto, nella Metafisica, «vengono fornite precisazioni definitive» (p. 93), in virtù delle quali il vero e il falso «non sono nelle cose» (p. 93), «ma nel pensiero» (p. 93) e riguardano la connessione, sýntesis, e la divisione, dihàiresis. In altre parole, il vero è «l’affermazione di ciò che è congiunto e la negazione di ciò che è disgiunto» (p. 94). La possibilità contraria identifica il falso. Tuttavia, l’autore ravvisa la presenza di alcuni passi aristotelici che sembrano «rendere meno rigida» (p. 94) tale impostazione.
La quinta questione riguarda la conoscenza. Nelle fonti greche viene incorporato il «modello della vista sensibile» (p. 97), e, di conseguenza, il «pensare è vedere qualcosa con la mente» (p. 97). I protagonisti della conoscenza sono «il soggetto e l’oggetto» (p. 98). Tuttavia, si tratta di «uno sviluppo tardivo» (p. 98). In Omero nùs sembra designare ancora «un organo fisico» (p. 101) mentre in altre fonti «ha già un significato astratto» (p. 101). In Empedocle, invece, il noèin «è sempre relativo a un oggetto di pensiero» (p. 102). Il processo di riconoscimento dell’attività noetica farà «emergere progressivamente la potenziale autonomia del nùs» (p. 102). In Aristotele si assiste ad una vera e propria stabilizzazione del «significato di osservazione o contemplazione» (p. 105). Dalla metafora visiva si giunge, pertanto, alla theorìa, categoria fondamentale per l’intera storia della filosofia. Ma, accanto alle metafore visive, giocano un certo ruolo anche le metafore tattili le quali consentono di codificare la categoria di epistème che «designa sia il fenomeno della conoscenza nella sua processualità, sia una disposizione dell’anima, sia una modalità stabile del sapere» (p. 107). Nella polemica con i sofisti, Platone lega la conoscenza alla capacità oratoria dei sophistès. Con Aristotele si assiste alla sua definitiva sistemazione concettuale.
La sesta questione riguarda il bene. Al riguardo, è utile osservare come si tratti di «una definizione formale delle nozioni fondamentali» (p. 121), le quali talvolta si configurano nei termini di «nuove semantizzazioni» (p. 121). Dei vari significati originari, Aristotele contribuisce «stabilendo che bello in quest’ambito è ciò che è oggetto di lode, in quanto degno di essere scelto di per sé» (p. 137). Nella cultura greca, infatti, è attivo il collegamento tra bellezza esteriore e bellezza interiore. Tuttavia, l’originalità della riflessione filosofica «consiste nell’aver elaborato, per la prima volta, un criterio fondamentale di moralità dell’azione, quello dell’intenzionalità dell’agente» (p. 148).
La settima questione riguarda l’anima. Tradizionalmente, il suo significato è di essere «un principio costitutivo dell’uomo» (p. 150). L’anima viene, così, intesa nei termini di «sede delle facoltà razionali» (p. 150). Non a caso, l’etimologia ravvisa un collegamento tra il termine, psychè, e il verbo psýchein. Tuttavia, bisogna evitare il facile scivolamento nella traduzione latina di animus come «centro coordinatore sia delle funzioni vitali di base che della vita intellettuale ed emotiva» (p. 151), cosa che non avverrà prima di Platone. Più correttamente, si deve riconoscere un’affinità di psychè con respirare. La morte è cessazione del respiro. Eppure, nella cultura greca è presente una concezione secondo la quale la psychè sopravvive comunque alla cessazione del respiro corporeo, anche se si tratta di una sopravvivenza poco nobile perché la gloria dei defunti è inferiore a quella dei mortali. Platone «elabora per la prima volta una teoria in cui la psychè diviene il centro coordinatore delle varie funzioni sino ad allora separate da organi differenti» (pp. 164 – 5). Ne consegue, pertanto, che essendo la psychè «ciò che apporta la vita» (p. 165), «non potrà mai partecipare del suo contrario, la morte, e dunque sarà immortale» (p. 165). L’anima diviene progressivamente, allora, «il vero soggetto del percepire» (p. 166), «il soggetto della vita morale» (p. 167). L’evoluzione del concetto giunge così alla sua sistemazione definitiva come avente «una sua consistenza sostanziale» (p. 168), una «sua esistenza separata» (p. 168). In Platone, infatti, l’anima è «il complesso integrato […] che fornisce una base teorica adatta a risolvere la tensione tra l’unità dell’anima […] e la molteplicità di funzioni» (p. 168). Aristotele, invece, rovescia la sedimentazione secolare al riguardo, considerando la psychè «solo come attualità di un corpo» (pp. 168 – 9), negandole, dunque, l’immortalità.
L’ottava questione affrontata è il lògos, «il termine più variegato del lessico filosofico» (p. 170) che indica «un modo specifico di parlare che obbedisce a certe regole» (p. 171). Per Aristotele, nei filosofi precedenti è mancata la dialettica, vale a dire la «ricerca della definizione» (p. 172). In altri termini, le indagini precedenti difettavano di ricerca della «essenza delle cose» (p. 172). Con Platone registriamo la svolta, la dottrina delle idee. Socrate andava in cerca di una definizione delle cose, ossia della «causa formale» (p. 174) delle cose, chiedeva ragione delle cose. Ora, dare «ragione di qualcosa […] significa fornire il discorso che esprime ciò che una cosa è, la sua usìa o essenza» (p. 175). Il lògos, pertanto, è la definizione, o «ragione formale» (p. 175), di qualcosa di cui si chiede conto. Spiegare perché «una cosa è in un certo modo» (p. 176), e non in un altro, «significa anche stabilire che è bene per quella cosa essere in quel modo» (p. 176). Pertanto, la «scoperta della causa formale porta con sé quella della finalità, e causa formale e finale vengono per molti aspetti a coincidere» (p. 176).
A conclusione del volume, Centrone scrive un breve epilogo che ha la funzione di rendere conto dell’importanza contemporanea della filosofia antica. Quest’ultima può essere «oggetto di studio» (p. 182) come vestigia di un lontano passato. Ma ciò non può esser fatto con cognizione di causa nel caso della filosofia antica. Infatti, essa ha una «posizione particolare» (p. 182). In anni più vicini, la sua ripresa costante è sia indice di un rinnovato interesse sia una sua partecipazione, più o meno diretta, alle riflessioni coeve.


Indice

Introduzione

Capitolo primo. Il termine philosophìa e la nascita della filosofia
1. Criteri di individuazione della filosofia
2. Sophìa e philosophìa
3. Le origini della filosofia secondo gli antichi
4. Philosophìa in Platone
5. Philosophìa in Isocrate e Aristotele

Capitolo secondo. Sophistès e la condanna platonica
1. Sophistès e sophìzesthai
2. Definire il sofista

Capitolo terzo. Essere
1. La nascita del problema ontologico
2. L’eòn (=òn) di Parmenide
3. Una definizione dell’essere nel Sofista di Platone
4. Usìa
5. Da usìa a substantia ed essentia
6. Esistenza
7. L’accidente

Capitolo quarto. Alètheia/verità
1. Verità e realtà
2. Alètheia e l’etimologia di Heidegger
3. La semantica di alètheia e di lanthànein
4. Verità ontologica e verità logica in Platone e Aristotele

Capitolo quinto. Conoscenza
1. Il lessico del conoscere
2. Metafore visive
3. Metafore tattili
4. L’apparenza: phainòmenon e phantasìa
5. Phrènes, phronèin e phrònesis: pensiero e saggezza pratica

Capitolo sesto. Bene
1. Èthos/ethikòs
2. Agathòn
3. Kalòn: il bello morale
4. Aretè e virtù
5. Eudaimonìa e felicità
6. Un nuovo criterio di moralità

Capitolo settimo. Anima
1. Psychè e anima
2. Psychè e thymòs nei poemi omerici
3. La metempsicosi: brevi cenni
4. Psychè in Eraclito
5. Psychè in Platone

Capitolo ottavo. Lògos, idèa, èidos: la filosofia come indagine formale
1. Lògos
2. La “fuga” di Socrate nei lògoi. Aristotele e il Fedone
3. Lògoi e dialettica. La svolta secondo Aristotele

Epilogo. Che interesse ha oggi la filosofia antica

Riferimenti bibliografici
Sigle e abbreviazioni
Indice dei nomi antichi
Indice dei nomi moderni
Indice del volume

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