lunedì 12 dicembre 2016

Valéry, Paul, All’inizio era la favola. Scritti sul mito

A cura di Elio Franzini, Milano, Guerini e Associati, 2016, pp. 108, euro 12,50, ISBN 978-88-6250-621-2.

Recensione di Giovanni Basile – 08/06/2016

Il testo di Paul Valéry, curato da Elio Franzini, mi si perdonerà la battuta, pur trattando di miti e favole non mente! In poche pagine si delinea la riflessione sul mito e sui miti  proposta dal grande pensatore francese. Qui vengono presentati cinque brevi scritti che, attraversando un arco temporale che va dal 1929 al 1946, portano il lettore dentro un ventaglio temporale decisamente ampio. L’introduzione del Franzini (pp. 9-29), in apparenza un po’ lunga, vista la brevità del testo, si dimostra necessaria per


centrare la questione, di non poco conto, del comprendere la natura, il senso ed il valore del mythos. Il Curatore, argomentando sull’etimologia stessa della parola “mito”, espone la difficoltà di proporne un significato univoco, mostrando come questa complessità nominale sia invece la chiave di lettura dello stesso termine mito. Il mito infatti per Valéry è una espressione, ed una esperienza, che non permette univocità. Proprio tale dinamismo linguistico viene qui raccolto e presentato attraversando degli scritti che mostrano, in diversi modi, la mobilità del farsi narrativo del mito. Non prestandosi ad una agile lettura, il volume, abilmente tradotto da Renata Gorgani, necessita di essere letto e meditato avendo sempre presente che “[…] all’inizio era la favola” (p.47 e p.55), e che questa lapidaria affermazione, che da il titolo al presente volume, è il leitmotiv di Valéry. Il “favoleggiamento”, infatti, non è un vizio, ma l’espediente stilistico necessario per condurci, dai margini del mito, dentro il mito stesso. È lo stesso Franzini infatti a sottolineare che “l’intera opera di Valéry è dunque una manifestazione della potenza (e delle potenzialità) del mito, confermata in ogni saggio o poesia” (p. 19) e qui se ne dimostra tutta la portata. 
Entrando con discrezione nel dispiegarsi degli scritti qui scelti, possiamo individuare tre grandi nuclei narrativi, che presentano in modo chiaro il concetto di mito che sottende al pensiero del Valéry. Il primo nucleo è rappresentato dagli scritti Su “Eureka” (pp. 33-48) e Piccola lettera sui miti (pp. 49-56). Eureka è un’opera  dello scrittore americano Edgar Allan Poe nella quale viene presentata una interpretazione cosmologica, sia del mondo materiale sia di quello spirituale. Valéry ne resta affascinato al punto da scriverne un elogio tale da evidenziare, per contrasto, che i suoi studi lo “avevano portato a credere che la scienza non è amore, che i suoi frutti possono anche essere utili ma il suo fogliame è molto spinoso, la sua scorza terribilmente dura” (p. 34). La rappresentazione messa in scena da Poe svela a Valery la bellezza di narrare il mondo in modo affascinate, pur partendo da fondamenti matematici e scientifici. Così facendo si lascia a noi, che di questo mondo siamo una parte essenziale, la capacità di raccontare l’infinito attraversando tutte le nostre finitudini linguistiche e “colorazioni” mitologiche. In piccola lettera sui miti, la penna di Valéry cambia stile facendosi più confidenziale. Valery qui narra di una lettera ricevuta da una sconosciuta signora, la quale, curiosa di conoscere il punto di vista di Valéry in merito ai classici grandi temi della speculazione filosofica, si rivolge a lui per sentire le sue ragioni. Lo scritto si apre rivolgendosi ad una fantomatica “cara amica […]” (p. 49) alla quale racconta le risposte proposte all’oscura signora. In poche battute si dischiude al lettore il modo di intendere il mito per Valéry. La vacuità terminologica, caratteristica stessa del mito, conduce chi legge per le strade linguistiche e stilistiche che il mito ama percorrere. Menzogne, chiacchiere oscure, mostri mitologici e falsità, sono questi i cardini entro cui si muove il dispiegarsi narrativo del mito. Un farsi letterario, e squisitamente scritturale, che si permette di balbettare qualcosa sul tutto a pieno titolo, pur non conoscendo mai pienamente. Il lavoro che la scrittura e la narrazione mettono in atto nel mito, ed attraverso i miti stessi, per Valéry non è altro che il nucleo centrale della capacità che i miti hanno di venire in soccorso a ciò che non esiste: “che cosa saremmo dunque senza il soccorso di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e le nostre menti, senza occupazione, languirebbero se le favole, […], non popolassero di esseri e di immagini senza oggetto le nostre profondità e le nostre tenebre naturali. I miti sono l’anima delle nostre azioni e dei nostri amori”. (p. 55) È l’amore per tutto ciò che ci circonda che diventa il “movente” delle narrazioni mitiche. La pace si raggiunge proprio nell’inquietudine di poter sempre sperare in una parola mai definitiva, mai perentoria e per tanto sempre aperta a nuove invenzioni. 
Il secondo nucleo è rappresentato da L’uomo e la conchiglia (pp. 57-79), lo scritto più lungo qui riproposto. Non a caso infatti questa parentesi, prettamente filosofica, presenta al lettore di questa raccolta la dimostrazione stilistica dell’operare mitologico. Lo sguardo umano, infatti, una volta  rivolto e fissato su una semplice conchiglia, dimessi infine i panni di scienziato ed umanizzatore del tutto, trova nella capacità narrativa e poetica la porta d’accesso per un modo di raccontare il mondo attraversando i grandi dilemmi dell’umanità, quali l’universo, il caso o una possibile Potenza generatrice. Un semplice oggetto, caricato di logiche poetiche e svuotato delle scientifiche svela al Nostro, che propriamente “questa conchiglia […] è servita a eccitare di volta in volta quel che sono, quel che so, quel che ignoro” (p.78-79). Nel pensare poetico si svela un ri-pensare che, facendosi mitico, non offende e non annienta né l’oggetto pensato né il pensante poiché, come sempre, all’ “inizio era la favola” ma, in fondo, anche alla fine “era una favola”. 
A chiudere questa raccolta, si propongono, come se fossero “la quadratura del cerchio” mitico, un melodramma Anfione (pp.81-100) e un soliloquio L’angelo (pp. 101-103). Rappresentato per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1931 e musicato da Arthur Honegger, il melodramma Anfione è espressione mitica piena. Tutti i classici attori mitici e gli agenti linguistici vengono messi in scena  da Valéry per presentare il volto del mito; persino la dedica alla straordinaria ballerina dei balletti russi, Ida Rubinstein, icona assoluta di un mix di arte, mito, spettacolo e narrativa si dimostra essere una dedica mitica. Anfione, uomo reso cantore e narratore della  natura grazie alla lira di Apollo, vive tutto il dramma di questa possibilità d’essere, da una parte voce narrante del tutto ma allo stesso tempo si palesa in lui la tragica consapevolezza di aver cantato delle parole che saranno solo un labile flatus vocis, poiché l’Arte cercherà altri narratori ed altri interpreti per cantare il mondo e le sue infinità. Questa tensione è l’altra faccia del mito. Sapere infatti d’essere una parte di una trama narrante che si perpetuerà attraverso altri narratori, pur essendo una consapevolezza che atterrisce, è garanzia piena che si sta rispettando l’operare mitologico. Giustamente posto alla fine di questa raccolta, il melanconico soliloquio de L’angelo, (che a tratti sembra aver ispirato il personaggio di Damiel, uno degli angeli del film, Il cielo sopra Berlino di W. Wenders del 1987), rivela l’ultimo “sapore” del linguaggio mitico che nasconde in se l’amara delusione di chi «[…] per una eternità, non smise di conoscere e di non comprendere» (p. 103). Questo è infatti il sitz im leben del mito per Valéry, e del mito in generale: conoscere e non comprendere mai pienamente quel che si sta cercando di scrutare. 
Leggendo d’un sol fiato questa bella raccolta, si colgono in breve la profondità stessa dell’ingegno stilistico del nostro Valéry e la sua personale elaborazione del pensare e raccontare il mito. Quel che resta al lettore attento di questo volume è il piacere di aver assistito all’ “incarnarsi” del mito attraverso i  mille volti della parola stessa, che più si fa “favola”, più si presta all’uomo, il quale è chiamato a non dimenticare mai che è la parola al servizio dell’umano e quasi mai il suo contrario. 


Indice

Il mito e l’infinito estetico di Elio Franzini 9

All’inizio era la favola 31

Su «Eureka»         33

Piccola lettera sui miti 49

L’uomo e la conchiglia 57

Anfione 81

L’angelo 101

Nota al testo di Renata Gorgani 105

6 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Era detto non dai soli naviganti ma da chi aveva visitato fondali non comuni: "Paradosso della Conchiglia".
La mimesi realizzata dalla altra vita, extraterrestre, della vita marina, quando questa si incontra con la nostra, non ha da ripetere le favole umane, ma le riecheggia, anche un solo sospiro del racconto, senza dover diventare simulacro di umana arte ma tramite che non è fatto di segni più che semplici orme, poco più raffinati di... graffi, ma fatto di sonorità che reagiscono alla vita terrestre mostrandosi rovesciate e proprio così antropomorfe e niente di più; e così se è oggetto pressoché inerte, anche il solo navigante e più l'ignaro possono ascoltare il racconto sonoro delle potenze misteriose e dominanti della acque universali, mari, oceani... abissi. La mitopoiesi si rivelerebbe così per chiunque una forza psichica che si attiva nella natura dei viventi senza esser i viventi. La filosofia afferma: emozioni dalla Mente universale; la psicologia: frammenti dal Sé universale. Non si tratta di intellettualizzazioni ma di intellezioni! Chi in ciò erra scambia le omologie per le analogie e...:

cercando Cantore tra le pecore non si trova il gioco del lupo ma la morte del baratro.

Certo Esiodo non sarebbe o forse non è un misteriosissimo "Anfione" o perlomeno non ne mostra o non sembra mostrarne recondita altra vita; e tuttavia non è diverso il trovar baratro anziché lupo dal ridurre il mito alla favola che ne consta o che esso contiene o cui esso allude! Chi sa ascoltare echi da conchiglie sa temere il nulla dalla mitologia o sa evitare il tedioso tutto nella mitografia; e non si potrebbe credere che una persona occulta non riservi sorprese meno amare con la propria assenza, che potrebbe esser più dura ad affrontarsi di un baratro celato da pecore matte o savie pure che fossero. Se non sono i monumenti o reperti naturali marini a dire dei Misteri, ma umanità stessa, allora il rischio sarebbe di intellettualizzare troppo poco ed intuire troppo. Per questo motivo chi rifugge dai riferimenti enigmatici delle Saghe si smarrisce in mitologie che recano la gioia dissolvendosi per schiudere ma anche chiudere dopo una comprensione meno misteriosa ma più vitale o più misteriosa dalla Vita stessa, che eternamente tale non ha miti bastanti per dirSi eppure ne suggerisce tanti da dire... ma:

cercando terre promesse o paradisi perduti tra natiche o su fondoschiena non accade di trovarne se si pensa ai miti e non a ciò che si sente o percepisce!

Stante questa verità, va precisato: è il mito del mito il falso mito e i seguaci dei falsi miti ne hanno destino drammatico o futuro terribile...!
Questa è saggezza dei miti, le singole sono in ciascuno d'essi e nessun messaggio vitale e di vita consegna la saggezza del mito né dei miti; non a caso del sogno biblico di tovaglie con oggetti inutili nel cànone della Bibbia se ne associa al nome che indica la fatalità ed irremovibilità dei regni minerali: ed è allegoria della vanità degli angelici messi alle prese con la Natura Creata.
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE: ...

(/) Classicamente il cosiddetto mythos è terminogicamente vacuo e narrativamente antilogico. Ma il mito greco non è una sola mitografia ed i passaggi dalle espressioni ai significati non sono fissi e accadono per interpretazioni anche sovrapposte; ciò parendo inestricabilità od eccesso nullificante in realtà ha un criterio di interpretazione oggettivo nella istintualità secondo varietà etniche e variazioni etnologiche. Tale criterio è uno per molteplici funzioni e non viceversa. Accade nel valutare i miti nelle allegorie di dover restare entro le soli funzioni molteplici da ricondurre queste ad altra unità, soprannaturale cioè non naturale. Questo purtroppo accade anche in ambienti dove si tenta di fare del monismo psicologico un monoteismo a disposizione di inconsapevoli od increduli e quindi in condizioni culturali misere o subalterne o nella subcultura atea. Ma questa aberrazione a volte è suscitata da chi costruisce psicologismi non intendendo umanesimo e non accettando la antropologia e da chi li estremizza con la sottovalutazione antropologica dell'umanesimo o col rifiuto della antropologia condotto dall'umanismo: a tali condizioni mitografia e mitologia sono separate, poco o molto ma separate. Questa separazione pone lo studioso che ne subisce limiti o li accoglie o se li crea in circostanze di razionalismo debole quanto critico cui comunque sfugge il senso dei significati e la stessa pienezza data dal mito che non è la pienezza del mito ma della mitopoiesi o da essa attinta se v'è considerazione della Unità misteriosa nella natura anche non solo della Natura, cosa che accade nella spiritualità monoteista, sia esoterica, cioè pagana od iniziatica, che essoterica cioè comunitaria o comunicativa (questo ultimo il caso dei sistemi religiosi misti, quali l'Induismo o i culti dei Faraoni in Egitto o la diplomazia teocratica degli Etruschi). Sfuggendone senso ma non impressione creativa o di creatività, questa ultima assume parvenza soggettiva di arbitrarietà ed il mito pare poesia soltanto e ridotto ad umana arte, senza poter intendere che esso è una rappresentazione dei fini e dei poteri di eventi naturali, che nel monoteismo sono relazionati dall'accadere del Mistero della vita e del vivere, nel politeismo si rapportano ad Esso senza indicarne né alluderVi...!

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Nel primo messaggio: 'della acque' stia per: delle acque. Scrivendo in fretta e furia avevo anche in mente: della... acque universali ', nel senso di:' della entità fatta di acque' .


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Era detto non dai soli naviganti ma da chi aveva visitato fondali non comuni: "Paradosso della Conchiglia".
La mimesi realizzata dalla altra vita, extraterrestre, della vita marina, quando questa si incontra con la nostra, non ha da ripetere le favole umane, ma le riecheggia, anche un solo sospiro del racconto, senza dover diventare simulacro di umana arte ma tramite che non è fatto di segni più che semplici orme, poco più raffinati di... graffi, ma fatto di sonorità che reagiscono alla vita terrestre mostrandosi rovesciate e proprio così antropomorfe e niente di più; e così se è oggetto pressoché inerte, anche il solo navigante e più l'ignaro possono ascoltare il racconto sonoro delle potenze misteriose e dominanti della entità e delle entità di acque universali, mari, oceani... abissi. La mitopoiesi si rivelerebbe così per chiunque una forza psichica che si attiva nella natura dei viventi senza esser i viventi. La filosofia afferma: emozioni dalla Mente universale; la psicologia: frammenti dal Sé universale. Non si tratta di intellettualizzazioni ma di intellezioni! Chi in ciò erra scambia le omologie per le analogie e...:

cercando Cantore tra le pecore non si trova il gioco del lupo ma la morte del baratro.

Certo Esiodo non sarebbe o forse non è un misteriosissimo "Anfione" o perlomeno non ne mostra o non sembra mostrarne recondita altra vita; e tuttavia non è diverso il trovar baratro anziché lupo dal ridurre il mito alla favola che ne consta o che esso contiene o cui esso allude! Chi sa ascoltare echi da conchiglie sa temere il nulla dalla mitologia o sa evitare il tedioso tutto nella mitografia; e non si potrebbe credere che una persona occulta non riservi sorprese meno amare con la propria assenza, che potrebbe esser più dura ad affrontarsi di un baratro celato da pecore matte o savie pure che fossero. Se non sono i monumenti o reperti naturali marini a dire dei Misteri, ma umanità stessa, allora il rischio sarebbe di intellettualizzare troppo poco ed intuire troppo. Per questo motivo chi rifugge dai riferimenti enigmatici delle Saghe si smarrisce in mitologie che recano la gioia dissolvendosi per schiudere ma anche chiudere dopo una comprensione meno misteriosa ma più vitale o più misteriosa dalla Vita stessa, che eternamente tale non ha miti bastanti per dirSi eppure ne suggerisce tanti da dire... ma:

cercando terre promesse o paradisi perduti tra natiche o su fondoschiena non accade di trovarne se si pensa ai miti e non a ciò che si sente o percepisce!

Stante questa verità, va precisato: è il mito del mito il falso mito e i seguaci dei falsi miti ne hanno destino drammatico o futuro terribile...!
Questa è saggezza dei miti, le singole sono in ciascuno d'essi e nessun messaggio vitale e di vita consegna la saggezza del mito né dei miti; non a caso del sogno biblico di tovaglie con oggetti inutili nel cànone della Bibbia se ne associa al nome che indica la fatalità ed irremovibilità dei regni minerali: ed è allegoria della vanità degli angelici messi alle prese con la Natura Creata.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE: ...

(/) Classicamente il cosiddetto mythos è terminologicamente vacuo e narrativamente antilogico. Ma il mito greco non è una sola mitografia ed i passaggi dalle espressioni ai significati non sono fissi e accadono per interpretazioni anche sovrapposte; ciò parendo inestricabilità od eccesso nullificante in realtà ha un criterio di interpretazione oggettivo nella istintualità secondo varietà etniche e variazioni etnologiche. Tale criterio è uno per molteplici funzioni e non viceversa. Accade nel valutare i miti nelle allegorie di dover restare entro le soli funzioni molteplici da ricondurre queste ad altra unità, soprannaturale cioè non naturale. Questo purtroppo accade anche in ambienti dove si tenta di fare del monismo psicologico un monoteismo a disposizione di inconsapevoli od increduli e quindi in condizioni culturali misere o subalterne o nella subcultura atea. Ma questa aberrazione a volte è suscitata da chi costruisce psicologismi non intendendo umanesimo e non accettando la antropologia e da chi li estremizza con la sottovalutazione antropologica dell'umanesimo o col rifiuto della antropologia condotto dall'umanismo: a tali condizioni mitografia e mitologia sono separate, poco o molto ma separate. Questa separazione pone lo studioso che ne subisce limiti o li accoglie o se li crea in circostanze di razionalismo debole quanto critico cui comunque sfugge il senso dei significati e la stessa pienezza data dal mito che non è la pienezza del mito ma della mitopoiesi o da essa attinta se v'è considerazione della Unità misteriosa nella natura anche non solo della Natura, cosa che accade nella spiritualità monoteista, sia esoterica, cioè pagana od iniziatica, che essoterica cioè comunitaria o comunicativa (questo ultimo il caso dei sistemi religiosi misti, quali l'Induismo o i culti dei Faraoni in Egitto o la diplomazia teocratica degli Etruschi). Sfuggendone senso ma non impressione creativa o di creatività, questa ultima assume parvenza soggettiva di arbitrarietà ed il mito pare poesia soltanto e ridotto ad umana arte, senza poter intendere che esso è una rappresentazione dei fini e dei poteri di eventi naturali, che nel monoteismo sono relazionati dall'accadere del Mistero della vita e del vivere, nel politeismo si rapportano ad Esso senza indicarne né alluderVi...!

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Ho reinviato messaggio correggendo parola pubblicata con pezzo mancante: 'terminogicamente stava per: terminologicamente.