mercoledì 22 giugno 2005

Perconti, Pietro, Leggere le menti.

Milano, Bruno Mondadori, 2003, € 20,00, ISBN 88-424-9013-X

Recensione di Carmelo Calì – 22/06/2005

Filosofia della mente, Psicologia (psicologia dei processi cognitivi), Filosofia analitica

Il libro di P. Perconti rappresenta un bell'esempio di analisi concettuale e linguistica che si avvale delle ricerche condotte nell'ambito delle scienze cognitive o dello studio del linguaggio e del comportamento animale, considerate come necessaria integrazione alle tesi filosofiche proposte. Del resto, la tesi principale difesa dall'autore implica conseguenze notevoli sia per l'immagine della mente sia per la natura dei processi cognitivi responsabili della capacità di comprendere e riferirsi agli altri e al mondo circostante: dalla percezione agli atteggiamenti proposizionali, dall'attribuzione di stati intenzionali all'interpretazione del ruolo causale delle credenze di altri agenti rispetto al comportamento, dalla «competenza descrittiva» alla «competenza indicale». 
L'immagine della mente proposta dall'autore presuppone che essa sia dotata di un carattere intenzionale, sebbene egli non consideri tale proprietà in grado di individuare ogni stato mentale, e di strategie cognitive che le permettano di far fronte all'infinità di stimoli e occorrenze che ne caratterizzano l'ambiente, discriminando con efficacia l'evento ambientale rilevante in modo da rispondervi con un comportamento adeguato. La possibilità di assicurare efficacia al comportamento dipende, però, anche dalla capacità di impiegare adeguatamente le proprie credenze non solamente per leggere il mondo ma anche le menti degli altri agenti, al fine di prevederne il comportamento manifesto e di interpretarne le cause e intenzioni. L'autore sostiene quindi che per comprendere adeguatamente tali capacità cognitive della mente sia necessario considerarne la specificità tipicamente umana: il fatto che la cognizione, a qualunque livello la si consideri, sia un insieme di abilità mentali cui contribuisce l'uso del linguaggio o, meglio, l'affinamento di quella competenza indicale che è necessaria per padroneggiare con successo gli enunciati indicali o dimostrativi e che vincola a fissare il referente in funzione del contesto extralinguistico e delle credenze condivise dal parlante con gli interlocutori. 
Dall'immagine della mente presentata dall'AUTORE, emergono quindi un'ipotesi di lavoro e una strategia argomentativautore Quanto all'ipotesi di lavoro, da un lato, è necessario chiedersi «che cosa c'è di speciale nelle lingue naturali che rende caratteristica la mente umana e […] cosa c'è di speciale nella mente degli umani che rende caratteristico il linguaggio» (p. 1). La formulazione stessa della questione attesta che l'autore ritiene di avere individuato un terreno d'indagine situato al di qua della contrapposizione tra mente e linguaggio o, meglio, tra chi sostiene la preminenza della competenza linguistica, inferenziale e semantica, che governa l'uso degli enunciati e che darebbe forma alle altre prestazioni cognitive di genere differente, quali la percezione o l'attribuzione di stati mentali, e chi sostiene invece il carattere non linguistico della mente, che impiegherebbe il linguaggio semplicemente come un mezzo di trasmissione di contenuti organizzati in un formato diverso da quello linguistico e precedentemente al ricorso alla competenza linguisticautore Si accederebbe così a un «terreno nuovo in cui non si avverte più l'esigenza di stabilire se sia più fondamentale la mente o il linguaggio» (p. 105). Dall'altro, la strategia argomentativa dell'autore diventa anche un modello di analisi, di ricerca dei dati e della loro interpretazione: se l'autore impiega l'analisi linguistica per fare emergere un modello delle competenze cognitive della mente che le permettono di riferirsi a qualcosa, di intrattenere e valutare credenze sul mondo, di attribuire stati intenzionali, d'altra parte egli ricorre anche ad evidenze neuroscientifiche, psicologiche, etologiche al fine di individuare la funzione che un eventuale trattamento non linguistico dell'informazione svolgerebbe nell'interazione tra l'organismo, il suo sistema di rappresentazioni e credenze, e l'ambiente. 
Quanto alla strategia argomentativa, l'immagine della mente proposta dall'autore suggerirebbe una via per affrontare certe contrapposizioni, quali quella tra chi sostiene la preminenza di uno o più generi di contenuto mentale non linguistico e chi sostiene invece la versione mentalese del coerentismo o quella che costringe all'accettazione dell'alternativa tra preminenza del dato o dello schema concettuale. A parere dell'autore, tale via consiste nel non ritenersi costretti a una scelta tra le alternative che in ogni caso sarebbe inadeguata a fornire un modello dei processi cognitivi che (i) non prescinda dal contributo dell'uso del linguaggio allo sviluppo di prestazioni non specificamente linguistiche, quali l'attribuzione di stati intenzionali e la valutazione delle credenze altrui; (ii) non implichi che la constatazione di tale contributo divenga una ragione sufficiente per ridurre la competenza delle varie prestazioni cognitive alla competenza linguistica e, in particolare, alla sola competenza descrittiva, a discapito di quella indicale o dimostrativa.
La tesi a dimostrazione della quale l'autore s'impegna sostiene, quindi, che la mente esibisca una sola e stessa competenza cognitiva, che regolerebbe l'uso della funzione referenziale tramite l'impiego degli indicali nel linguaggio e la lettura della mente, tanto da poter qualificare la mente umana come una «mente indicale». Sarebbe proprio tale competenza a consentire sia l'elaborazione delle informazioni dell'ambiente, in vista della risposta adeguata, sia la lettura della mente altrui e l'uso degli indicali linguistici. La ricostruzione degli elementi di tale competenza è, dunque, ripartita dall'autore in due momenti: l'enunciazione del modello referenziale che governa l'uso degli indicali e la proposta del modello di attribuzione di stati mentali e interpretazione del comportamento altrui. Per comodità, manterrò distinti tali momenti, con l'avvertenza che per l'autore essi costituiscono però sempre due versanti della medesima competenza. 
Dato il carattere finito della mente, le prestazioni cognitivo-linguistiche sarebbero assicurate da due strategie complementari, denominate dall'autore «pensiero in assenza» e «pensiero in presenza». Il «pensiero in assenza» è identificato con il modello della categorizzazione e della determinazione del referente di una descrizione definita: l'individuazione di un oggetto che soddisfa le proprietà rilevanti della sorta espressa nella descrizione o della definizione corrispondente al concetto sotto il quale è sussumibile. Tale modello permette il trattamento di oggetti secondo il loro tipo, le cui proprietà rilevanti possono essere espresse da un contenuto descrittivo il cui valore di verità è indipendente dall'occorrere dell'oggetto stesso al momento del proferimento dell'enunciato nel contesto d'emissione. Il «pensiero in presenza» è identificato, invece, con il modello del riferimento indicale a un elemento del contesto percettivo condiviso dai parlanti, senza che per questo sia necessario qualificarlo riconoscendogli una o più proprietà, essendo sufficiente rivolgere o far rivolgere l'attenzione su di esso. Discutendo le teorie sugli indicali e i dimostrativi proposte da Kaplan e Perry, l'autore ricostruisce la competenza indicale alla base del modello del «pensiero in presenza» come un insieme di regole che vincolano il parlante a pesare i differenti fattori che contribuiscono alla fissazione del riferimento: la salienza percettiva, l'occorrenza di determinati items linguistici nell'enunciato indicale che possono indirizzare l'attenzione a certe o certe altre parti del contesto extralinguistico, le credenze degli interlocutori. Tale competenza sarebbe responsabile della regolarità nella connessione tra l'impiego degli indicali, per esempio dei dimostrativi, e la struttura dei contesti di riferimento, il che spiegherebbe il fatto che normalmente non insorgano incomprensioni nonostante l'assenza di contenuti descrittivi o di criteri d'identificazione che governino l'uso delle espressioni indicali. La valutazione del corretto peso da assegnare a ciascuno di tali fattori, necessaria per produrre enunciati indicali che siano compresi dall'interlocutore, richiede però che parte essenziale della competenza indicale sia la capacità di attribuire correttamente stati intenzionali agli interlocutori, in modo da prevedere quale peso l'interlocutore attribuirà ai diversi fattori. È dunque richiesta la capacità di «immaginare di stare nella mente dell'interlocutore» (p. 124) non solo rispetto all'insieme di credenze condivise o no, ma anche al punto di vista che egli può assumere nello spazio percettivo condiviso. 
È a questo punto che l'abilità di leggere la mente altrui, vale a dire di attribuire correttamente stati intenzionali come causa del comportamento manifesto, mostra di essere una componente essenziale delle capacità cognitivo-linguistiche che, a parere dell'autore, contribuiscono alla costituzione della mente indicale. L'enunciazione delle caratteristiche in cui consisterebbe la capacità di "immaginarsi" nella mente altrui induce l'autore confrontarsi con le attuali teorie sulla natura della cosiddetta Folk Psychology o «psicologia ingenua» che governerebbe nella vita quotidiana l'ascrizione di stati mentali, la decodifica del sistema di credenze e dei rapporti tra differenti stati intenzionali, nonché dei rapporti tra stati intenzionali e comportamento. In letteratura, vige la contrapposizione tra Folk Psychology come teoria e come simulazione. Nel primo caso, si parla di teoria quale insieme di conoscenze alla base della capacità di spiegare e prevedere il comportamento al pari di quelle conoscenze che permettono di prevedere e spiegare il comportamento dei corpi di media grandezza con cui si ha a che fare ordinariamente, che non sempre si attengono ai principi della meccanica galileiano-newtoniana. Si è soliti, quindi, distinguere tra una teoria ingenua esternista e una internista. Un esempio di teoria esternista sarebbe quella elaborata da D. Lewis, che consisterebbe in un'implicita definizione di termini mentali e delle loro relazioni che si realizzerebbe nel nostro linguaggio quotidiano, che metterebbe in grado i parlanti di individuare stati mentali corrispondenti e di generalizzare il rapporto tra stati mentali designati e comportamento manifesto. Una teoria internista, invece, prevederebbe una teoria data structure o composta da rappresentazioni dichiarative, implementata nella mente per mediare tra le osservazioni del comportamento altrui in determinate circostanze e le sue spiegazioni con valore predittivo sulle occorrenze future. 
L'autore fa propria la versione esternista e rigetta quella internista (pp. 87), grazie alla compatibilità della prima con l'ipotesi della Folk Psychology come simulazione, che egli intende sostenere. Anche in questo caso, esistono in letteratura diverse opinioni su che cosa si debba intendere con simulazione, accomunate tutte però dal rifiuto dell'internismo in favore di una capacità di assumere le cause del comportamento altrui all'interno di un contesto finzionale o controfattuale. Per alcuni, la simulazione consisterebbe nell'assumere il ruolo dell'altro in determinate circostanze e far come se si prendessero delle effettive decisioni sul comportamento, a partire dal proprio sistema di credenze. Per altri, si tratterebbe di una mera capacità di proiezione in grado di assumere le spinte motivazionali altrui, senza alcun intervento dell'immaginazione, grazie alla comune appartenenza a uno stesso mondo di fatti condivisi. Attualmente, la discussione verte anche sulla possibilità (i) che la simulazione preveda un accesso introspettivo ai propri stati mentali, necessario per capire cosa farei io se fossi l'altro in certe circostanze, (ii) che essa si accompagni a risposte automaticamente prodotte quali la mimica delle espressioni facciali o dei movimenti corporei, (iii) che essa richieda semplicemente una valutazione della verità/falsità che io sarei disposto ad attribuire all'enunciato che esprime una determinata credenza qualora fossi al posto dell'altro. L'autore presenta e discute alcune delle posizioni appena ricordate e propende per una versione della teoria che etichetta come «mettersi nei panni degli altri». Caratteristica di tale versione sarebbe considerare la simulazione come un sapere procedurale e non dichiarativo, reso possibile non tanto dalla proiezione dei propri stati mentali in circostanze analoghe in cui agirebbe l'altro, quanto dalla considerazione di che cosa dovrebbe pensare e fare l'altro date certe circostanze e la sua mente. Dunque, una procedura che risponderebbe alla domanda "che cosa farebbe l'altro in tali circostanze dal suo punto di vista" e non alla domanda "che cosa farei io se fossi l'altro in tali circostanze". Tale riformulazione della capacità della simulazione nei termini di un'abilità o capacità generalizzata a «mettersi nei panni di» distinguerebbe la teoria dell'autore da quelle presenti già in letteratura, avvicinandola per alcuni aspetti a posizioni espresse da Dennett, dal quale a mio avviso si differenzierebbe però per la forma del contenuto che l'enunciato, con cui i frutti di tale abilità possano essere espressi linguisticamente, dovrebbe possedere. Credo, dunque, che la posizione dell'AUTORE potrebbe essere designata come una versione esternista e simulativa che assume non tanto la capacità di interpretare che cosa penserei io in analogia all'altro, quanto la capacità di assumere il punto di vista dell'altro grazie a un comune accesso allo stesso mondo. 
Non stupisce, dunque, l'affermazione che l'uso degli indicali e la lettura della mente condividano una stessa competenza cognitiva: la psicologia ingenua prevederebbe un'abilità nell'assumere il punto di vista altrui alla quale contribuirebbe l'uso di una lingua con una componente insostituibile di indicali; d'altra parte, la competenza dimostrativa degli indicali presupporrebbe la capacità di attribuire correttamente stati intenzionali. Tale correlazione costituirebbe la proprietà tipica della mente indicale e ne rappresenterebbe anche la proprietà tipicamente umana. L'autore discute, infatti, evidenze psicologiche che confermerebbero che la competenza indicale e la lettura della mente siano appaiate nello sviluppo normale della mente e si corrompano congiuntamente nelle patologie, quali l'autismo (pp. 141). Analogamente, evidenze etologiche e ricerche zoosemiotiche confermerebbero, stando allo stadio attuale delle ricerche nella lettura fornitane dall'autore, che solo nelle specie in cui si manifesta la capacità d'impiegare segni dipendenti essenzialmente dal contesto è possibile anche ravvisare capacità di lettura della mente analoghe all'uomo (pp. 160). È da queste evidenze e dalle tesi sul carattere specificamente umano della mente indicale che emerge il tratto kantiano delle argomentazioni dell'autore, per il quale l'uso degli indicali e la lettura della mente costituirebbero un'abilità trascendentale, vale a dire una competenza non appresa nel suo contenuto centrale d'abilità, che è condizione necessaria e sufficiente del fatto che qualcosa ci appaia dotato di una mente umana, tanto che una sua disfunzione non corrisponderebbe a un semplice errore di giudizio, ma a una patologia che renderebbe chi ne è affetto incapace sistematicamente di predire il comportamento altrui. 
Potrebbe essere proficuo, nello spirito stesso della ricerca dell'autore e delle evidenze citate per integrare l'analisi concettuale, specificare allora quale sia il grado di correlazione tra la competenza nell'uso degli indicali linguistici e quella relativa alla attribuzione degli stati intenzionali. Si tratterebbe di covariazione, di dipendenza funzionale, di specificità di dominio interdipendenti, di trasposizione di modi di elaborare l'informazione da un sistema cerebrale/mentale a un altro? Quale l'influenza dell'ambiente culturale, di cui sono parte il linguaggio e l'uso che ne facciamo, sul cervello/mente? E se, come afferma l'autore, si tratta di abilità trascendentale, sarebbe lecito intenderne la natura nei termini di un "metaprincipio" di strutturazione delle informazioni condiviso da componenti distinte, l'una che governa la competenza linguistica indicale e l'altra l'attribuzione degli stati intenzionali, che ne rappresentino una realizzazione particolare? L'alternativa da comporre, infatti, è a mio avviso tra competenze le cui caratteristiche attraversano domini distinti e competenze relative a domini comunque considerevolmente specializzati. 
Sarebbe, infine, interessante un confronto con le ricerche neurologiche sul ruolo del ciclo percezione/azione nella regolazione del rapporto tra mente/cervello e ambiente esterno all'organismo, vista l'importanza dall'autore riconosciuta alla percezione come una delle condizioni della psicologia ingenua e come campo di riferimento della competenza indicale. Un esempio di ricerche che potrebbe comportare conseguenze significative a tal proposito mi sembra, per esempio, quello del gruppo di Herbert Terrace della Columbia University pubblicate su Science dello scorso Luglio 2004, che dimostrerebbero che la facilitazione all'apprendimento di un comportamento nei macachi è resa possibile dall'osservazione dei propri simili e non dipende dalla mera imitazione del comportamento altrui, richiedendo invece la capacità di estrapolare le regole del compito grazie alla capacità di distinguere percettivamente se stessi e i propri simili. L'interesse dei risultati di una tale ricerca risiede, inoltre, nel tentativo di collegare tale capacità percettiva di distinzione e interpretazione del significato dell'agire altrui con il funzionamento dei cosiddetti "neuroni specchio" scoperti negli anni '90 del secolo scorso dal gruppo di G. Rizzolatti, all'interno del quale in particolare V. Gallese si occupa delle basi neuropsicologiche della comprensione delle azioni e dell'intersoggettività, al confine tra scienze cognitive, fenomenologia, neurobiologia e filosofia della mente.

Indice

INTRODUZIONE
PRIMA PARTE. L'INTENZIONALITA'
1. La stregoneria dell'anima
2. Due atteggiamenti filosofici
SECONDA PARTE. COME IL LINGUAGGIO MODIFICA LA MENTE
3. La duplice radice kantiana
4. Leggere la mente
5. La competenza dimostrativa
TERZA PARTE. LE MENTI NON INDICALI
6. Un destino comune
7. Perché gli altri animali leggono la mente in modo diverso da noi
8. Breve epilogo su Dio

L'autore

Pietro Perconti insegna Filosofia della Mente e Teoria dei linguaggi presso il Dipartimento di Scienze Cognitive dell'Università di Messina. Ha pubblicato: 
Context-Dependence In Human And Animal Communication, Foundations of Science, n. speciale Context in context a c. di Bruce Edmonds e Varol Akman, vol. 7, 2002;
Kantian Linguistics. Theories of Mental Representation and the Linguistic Transformation of Kantism, Nodus Publikationen, Münster, 1999

Links

www.umsl.edu/˜philo/Mind_Seminar/New%20Pages/papers.html: seminario Folk Psychology vs Mental Simulation: How Minds Understand Minds, curato da N. Thomas

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