venerdì 30 dicembre 2005

Marraffa, Massimo - Meini, Cristina, La mente sociale, Le basi cognitive della comunicazione.

Roma-Bari, Laterza (Biblioteca di cultura Moderna), 2005, pp. 213, € 19,00, ISBN 88-420-7802-6.

Recensione di Rodolfo Ciuffa - 30/12/2005

Scienza cognitiva, Pragmatica

Il volume affronta, dal punto di vista della psicologia cognitiva, il “rapporto tra cognizione e comunicazione” (p. 73). 
Innanzitutto descrive una particolare concezione della mente – quella modulare – indagandone diverse declinazioni e la loro sostenibilità sperimentale, per verificare poi quale ruolo tale concezione possa svolgere nella spiegazione della socializzazione e della comunicazione.
Più specificamente – come chiariscono gli autori nella Premessa – nel testo convergono e si intrecciano tre linee di ricerca: la teoria della modularità, la teoria della mente e la pragmatica cognitiva. 
La prima parte del libro è dedicata alla prima linea, mentre alle restanti due è dedicata la seconda parte del volume. Secondo gli autori, due tesi fondamentali possono essere formulate e difese a partire dall’analisi dei succitati ambiti: “la prima tesi è che fare psicologia ingenua e comunicare sono attività inestricabilmente connesse”(p. V), la seconda tesi sostiene che le inferenze pragmatiche necessarie per l’interpretazione di un messaggio “sono il prodotto di un modulo, una componente specializzata del sistema – anch’esso modulare – su cui poggia la più generale capacità di fare psicologia ingenua”(p. VI).

Il testo, nella sua articolazione, rispecchia una delle caratteristiche più interessanti e peculiari degli studi cognitivi: l’interdisciplinarità. A delucidazioni storiche si uniscono infatti considerazioni e dimostrazioni di ordine tanto teorico quanto sperimentale, e le evidenze che gli autori portano a favore o contro le teorie si basano su dati della neuropsicologia, della biologia, della psicologia sperimentale, della filosofia e della linguistica.

Ciononostante è un testo affatto coeso, che cerca di far convergere questo coacervo di dati in direzione di una teoria della mente – quella modulare – che gli autori reputano estremamente promettente. La mente non è – essi sostengono – “un blocco olistico, in cui è impossibile ritagliare articolazioni” (p. 68), ma piuttosto “un’architettura modulare moderatamente massiva, vale a dire un’architettura cognitiva in cui moduli concettuali coesistono con moduli periferici di input e di output e importanti sistemi o processi non modulari.”(p. 80). 
Che cosa significa? In primo luogo che la mente è qualcosa di articolato e non di assolutamente unitario; ma ciò non basta. Essa è articolata anche in moduli – la cui nozione complessa rimanda da una parte al concetto di computazione, dall’altra ad un’impostazione razionalistico-innatista. Il modulo – nell’accezione restrittiva sostenuta dal filosofo Jerry Fodor -  “è un meccanismo computazionale innato e specifico per dominio che opera su una base di dati dedicata”(p. 55). Ogni modulo presiederebbe perciò ad una o più competenze (ad es. quella linguistica), attingerebbe ad una base di dati specifica, sarebbe più o meno isolato dagli altri moduli, e funzionerebbe sulla base di computazioni – “sequenze ordinate di operazioni condotte, in conformità a regole, su strutture di dati (le rappresentazioni mentali) che mediano le risposte comportamentali di un organismo agli stimoli sensoriali” (p. 12). 
È proprio l’analisi di un modulo – quello metapsicologico – il leitmotiv della seconda parte del libro. La nota psicologia del senso comune (folk psychology) non sarebbe altro che il “complesso di conoscenze tacite” che presiederebbe alla, e consentirebbe il funzionamento della, facoltà metapsicologica, che permette di attribuire stati mentali a se stessi e ad altri, e di compiere sulla base di tale attribuzione inferenze predittive i comportamenti. Al vantaggio adattivo legato a tale facoltà (essa infatti consentirebbe quella capacità flessibile ed efficiente di socializzazione che è tipica degli uomini), si aggiunge il suo intimo legame con la pragmatica cognitiva, ovvero con i risvolti cognitivi che sono impliciti in ogni forma di comunicazione, e con l’acquisizione del linguaggio, che infatti presupporrebbe anche tale facoltà.

Mettendo fuorigioco le concezioni comportamentistiche, i cognitivisti restituiscono il giusto grado di complessità alle trattazioni della mente: una psicologia davvero esplicativa non può che essere inferenziale, e deve affiancare le proprie spiegazioni alle descrizioni della neurobiologia. Il tratto peculiare di tali spiegazioni, lo si è visto, risiede nella caratterizzazione computazionale e modulare della mente. 
L'elemento di grande interesse del volume risiede proprio nel tentativo di ricondurre - piuttosto che di ridurre - le spiegazioni delle interazioni fra individui, alla spiegazione della struttura mentale dell'individuo. Non a caso si parla di "mente sociale": una mente che l'evoluzione ha predisposto alla socializzazione ed alla comunicazione - una mente che ne possiede le "condizioni di possibilità" cognitive.
L'idea affascinante che emerge è quella di un'impostazione che rifiuta l'olismo come presupposto nello studio della mente, ma che è "olistica" nella sua aspirazione a rendere conto di una molteplicità connessa di fenomeni (a partire dallo studio scientifico della mente); e di una branca di studi - quelli cognitivi - che è "di confine": ma non stretta in un'anonima terra di nessuno, piuttosto confinante con numerose discipline e pronta a raccoglierne - selettivamente - suggerimenti e risultati. Per elaborarne di propri.

Il libro lascia più di una questione in sospeso – un motivo in più per interrogarsi criticamente sul valore dell'impostazione che in esso viene espressa, e certo un indice di onestà degli autori.

Complessivamente, il testo, che è "veramente un lavoro a quattro mani”, è ben articolato e molto ricco; purtroppo proprio questa densità di contenuti sembra risolversi, talora, in un accatastarsi un po’ confuso di teorie diverse - ciò che non giova, evidentemente, al nitore dell'esposizione ed alla chiarezza dell'argomentazione. Questa nota rimane comunque a margine di un‘opera che, per il resto, gode sicuramente di chiarezza ed equilibrio (è un po’ quel neo che conferisce ai bei volti un'aria di franchezza).

Indice

Premessa

Parte prima
L'architettura della mente

1. La mente computazionale

1.La psicologia computazionale
1.1 L'argomento della povertà dello stimolo -1.2 Turing e il funzionalismo computazionale - 1.3 La teoria della visione di Marr

2.La spiegazione psicologica e la struttura della mente
2.1 L'euristica della scomposizione e della localizzazione - 2.2 Il funzionalismo "homuncolare"
Note

2. La mente modulare

1.La modularità epistemica
1.1 La modularità epistemica nella linguistica generativa - 1.2 La modularità epistemica in psicologia dello sviluppo - 1.2.1 La fisica ingenua - 1.2.2 La matematica ingenua

2.La modularità fodoriana
2.1 L'impenetrabilità cognitiva delle illusioni percettive -2.2 La geometria ingenua -2.3 Ambiguità sintattiche - 2.4 Riconoscimento lessicale - 2.5 Altre proprietà dei moduli fodoriani

3.Oltre la modularità: la proposta di Karmiloff-Smith

4.La modularità in neuropsicologia
4.1 Un esempio di dissociazione doppia: prosopoagnosici e Capgras - 4.2 Modularità neuropsicologica e modularità fodoriana
Note

3. La modularità massiva

1. La mente non modulare
1.1 Fine di una scienza del pensiero?

2. L'ipotesi della modularità massiva
2.1 Pensiero quotidiano e pensiero scientifico: un'equivalenza fondata? - 2.2 L'argomento biologico-evoluzionistico - 2.2.1 La psicologia evoluzionistica 2.3 L'argomento della trattabilità computazionale - 2.4 Evoluzione senza demodularizzazione

3. Le proprietà dei moduli centrali

4. Come ricomporre un quadro frammentato
Note

Parte seconda
Psicologia ingenua, interpretazione pragmatica e acquisizione del lessico

4. La psicologia ingenua

1. Natura e ontogenesi della psicologia ingenua: due scoperte

2. Natura e ontogenesi della psicologia ingenua: la teoria della teoria
2.1 La teoria della teoria costruttivista e aspecifica - 2.2 La teoria della teoria modularistica

3. ToMM in un'architettura modulare moderatamente massiva

4. ToMM come modulo non parametrizzato

5. Il meccanismo di monitoraggio

6. Psicologia ingenua e intelligenza machiavellica
Note

5. Interpretazione pragmatica e acquisizione del lessico

1. Il modello del codice

2. Dal modello del codice al modello inferenziale: la pragmatica griceana

3. La teoria della pertinenza
3.1 Pertinenza e cognizione: il principio cognitivo di pertinenza - 3.2 Come calcolare costi e benefici - 3.3 Pertinenza e comunicazione: il principio comunicativo di pertinenza - 3.3.1 La procedura di comprensione guidata dalla pertinenza - 3.3.2 Implicature ed esplicature - 3.4 La teoria della pertinenza e il problema della selezione

4. L'interpretazione pragmatica come processo generale per dominio

5. L'interpretazione pragmatica come processo generale per dominio

6. La psicologia ingenua nell'acquisizione del lessico
6.1 Associazioni - 6.2 Lessico e psicologia ingenua - 6.3 Psicologia ingenua o analisi geometrica dello sguardo?
Note

Una visione d'insieme
Note

Bibliografia

Gli autori

Massimo Marraffa insegna Psicologia della comunicazione all’Università di Roma Tre. È autore di “Scienza cognitiva. Un’introduzione filosofica”(CLEUP, 2002), “Filosofia della psicologia” (Laterza, 2003); e curatore di “Menti, cervelli e calcolatori. Storia della scienza cognitiva” di W.Bechtel, A.Abrahamsen e G.Graham (Laterza, 2004).

Cristina Meini si è laureata in filosofia nel 1993 presso l’università di Torino. Attualmente insegna Psicologia cognitiva all’Università del Piemonte Orientale. Ha pubblicato contributi di filosofia della mente e filosofia della psicologia su riviste italiane e straniere. È autrice di “Psicologia ingenua. Una teoria evolutiva” (Mc-Graw Hill Companies, 2001).

Links

Per informazioni sullo sviluppo delle scienze cognitive in Italia si può consultare il sito dell’associazione Italiana di Scienze Cognitive: http://www.aisc-net.it/

mercoledì 21 dicembre 2005

Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale.

Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale.
Milano, Rizzoli, 2005, pp. 271, € 7,00, ISBN 88-17-00269-0.

Recensione di Gianfranco Cordì – 21/12/2005

Storia della filosofia (moderna), Filosofia politica

Rizzoli pubblica questa nuova edizione del Contratto sociale (BUR, 2005), curata da Roberto Gatti, consistente in una nuova traduzione, un inedito apparato di note, ed un utile «Lessico minimo del Contratto sociale» posto alla fine del volume e nel quale vengono chiariti i concetti fondamentali dell’opera.
Al di là dell’evidente statura classica dell’opera, l’edizione costituisce un’occasione interessante per un confronto con le principali tematiche che Rousseau mette in gioco al fine di stabilire le condizioni per le quali la società, dopo essere caduta in un’artificiale degenerazione, può ritornare alla propria condizione naturale.
Dal nostro punto di vista, resta cruciale l’individuazione, da parte del ginevrino, dello specifico propriamente politico. Rousseau afferma infatti, in prima istanza, di supporre «gli uomini giunti a quel punto in cui gli ostacoli che si frappongono alla loro conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze che ogni individuo può impiegare  per mantenersi in tale stato» (p. 66). Dunque, per conservarsi in esso gli uomini non hanno «più altro modo» (p. 66) che quello di «formare, aggregandosi, una somma di forze che possa avere la meglio sulla resistenza» (p. 66). L’atto che costituisce tale aggregazione o associazione crea quella «persona pubblica» (p. 68) chiamata dal pensatore ginevrino «Repubblica o corpo politico» (République, Corps Politique, p. 68). La dimensione politica ha dunque il senso fondamentale, e forse paradossale, di consentire l’affermazione del naturale, altrimenti inattingibile.
La Repubblica, che ha come principio la virtù, a seconda che sia «attiva» o «passiva» sarà da intendere quale «Sovrano» (Souverain, p. 68), ovvero «l’insieme degli individui riuniti nell’assemblea in qualità di “cittadini” che deliberano sulle leggi» (p. 268); o quale «Stato» (État, p. 68) nel caso in cui venga invece intesa «come l’insieme degli individui che obbediscono, in qualità di “sudditi”, alle leggi» (p. 269). Decisivo è, naturalmente, che il Sovrano sia diretto dalla volontà generale (Volonté Générale) – uno dei passaggi più cruciali e discussi della filosofia politica russoviana (e della filosofia politica tout court). Stando a quanto dice Rousseau, ciò avviene in questo modo: «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte indivisibile del tutto» (p. 67). Ovvero: «istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà» (p. 68). 
Ne segue che dal contratto (patto) sociale, tramite la volontà generale, l’individuo destinato altrimenti a non potere mentenersi nello stato di natura rafforza la propria capacità di resistere alla forza perversa della civiltà: esso è «difeso» (p. 66) e «protetto» (p. 66) nella sua «persona» (p. 66) e nei suoi «beni» (p. 66). D’altra parte (e decisivamente, visto che l’ottica di Rousseau resta quella di una ricongiunzione anzi identificazione di libertà e virtù), «ognuno, unendosi a tutti, non obbedisce tuttavia che a se stesso e [rimane] libero come prima» (p. 66).
Dunque, la condizione (sapientemente costruita ed artificiale) secondo la quale la società può ritrovare la propria condizione naturale è appunto il contratto sociale. L’aspetto paradossale di questo passaggio è probabilmente il segreto del fascino e dello stesso rilievo di Rousseau. Tramite esso, il ginevrino fonda «in maniera “legittima” l’associazione politica, cioè non in base alla “forza” ma al diritto» (p. 5), come giustamente rileva Roberto Gatti nel suo saggio dal titolo Rousseau: la politica come libertà che fa da Introduzione al volume di cui si discute.
Tale introduzione è ricca anche di indicazioni molto utili sulla questione dei rapporti che il contrattualismo di Rousseau ha con quelli di Hobbes e Locke (alla nota numero 32 di pagina 212 è, inoltre, sviluppato il «confronto» con un altro modello di contrattualismo che riveste, a giudizio di Gatti, «una particolare rilevanza teorica per la comprensione del Contratto sociale»: quello di Pufendorf). Ed infine, il sesto paragrafo dell’Introduzione, dal titolo Rousseau e noi: modelli di democrazia,menziona «un percorso di riflessione possibile» (p.37) che fa riferimento ad un «confronto in atto nella filosofia pubblica contemporanea» (p. 37): si tratta di quello proposto da Jürgen Habermas nel suo libro L’inclusione dell’altro (Feltrinelli, 1998). 
L’attualità di Rousseau non può che uscire confermata, non solo da queste aperture contemporanee che sottolineano la sua capacità di suscitare conseguenze anche nell’attuale contesto della riflessione politica; ma anche, e forse soprattutto, dalla sua dimensione classica, ribadita dalle virtualità, ed ambiguità, del suo capolavoro.

Indice

Introduzione di Roberto Gatti
Profilo biografico
Bibliografia essenziale
Nota editoriale
IL CONTRATTO SOCIALE
Avvertenza
Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Note

Lessico minimo del Contratto sociale

L’autore

Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712. Alla nascita, rimane orfano della madre; presto perde anche il padre. Studia latino e musica. E’ precettore a Lione (1740), copista di musica a Parigi (1741), segretario a Venezia (1743) del signore di Montaigu, ambasciatore del Re di Francia. Scrive un’opera lirica: “Le muse galanti” (1745) che fa rappresentare. Su invito di Diderot redige alcune voci di argomento musicale per l’”Enciclopedia” . Compone il “Discorso sulle scienze e le arti” (1750), causato da una dissertazione preparata, e poi premiata, ad un concorso bandito dall’Accademia di Digione. Scrive il “ Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini” (1755) , “Giulia o la Nuova Eloisa”(1761), “Il contratto sociale” (1762) e l’”Emilio o dell’educazione” (1762): Muore a Ermenonville presso Senlis nel 1778.

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martedì 20 dicembre 2005

Chiurazzi, Gaetano, Teorie del giudizio.

Roma, Aracne, 2005, pp. 134, € 7,00, ISBN 88-548-0249-2

Recensione di Lucia Ziglioli – 20/12/2005

Filosofia teoretica (gnoseologia, ontologia)

L’atto del giudicare ha assunto dall’antichità sino ad oggi diverse significazioni: il giudizio è un discorso soggetto a verificabilità, oppure è l’atto dell’assumere qualcosa per vero e la capacità di giudicare è la capacità di discernere il “vero” dal “falso”, o ancora la capacità di sintesi tra diverse rappresentazioni. In tutti questi significati è possibile vedere quanto la teoria del giudizio sia strettamente legata alla logica, all’epistemologia e anche all’ontologia.
Altrettanto onerose sono le implicazioni di significato della forma del giudizio: “S è P”. Questa semplicissima formula racchiude problematiche fondamentali: vi sono due ‘diversi’ (non importa ora se siano essi essenze, enti, o solo nomi) che sono posti in rapporto dalla copula “è”. Si tratta, pertanto, del problema della sintesi di un molteplice, questione che rimanda al rapporto tra identità e diversità e al problema del tempo come eternità e divenire.
Il fatto che alla forma e al significato del giudizio siano correlate tutte queste tematiche, così essenziali in una qualsiasi visione del mondo, spiega perché dall’antichità sino ad oggi il problema della teoria del giudizio abbia svolto un ruolo sempre centrale nella riflessione filosofica: “Si potrebbe dire con diritto che ogni ontologia, ogni metafisica, ogni teoria della conoscenza trova il suo senso più profondo in una particolare concezione del giudizio” [p. 9]. Il che vale anche all’inverso: non è possibile comprendere sino in fondo una qualsiasi teoria del giudizio senza ricercare le ragioni logiche, epistemologiche ed ontologiche che la sorreggono.
Chiurazzi ci guida alla comprensione della rilevanza della teoria del giudizio attraverso cinque pensieri fondamentali della storia della filosofia: Aristotele, Kant, Hegel, Husserl e Heidegger. L’analisi è costretta, dalla necessità stessa del concetto di giudizio, ad andare ogni volta nel cuore delle filosofie incontrate, a scavare in profondità per svelare che le ragioni che sottendono ad ogni teoria del giudizio sono le più intime ragioni dell’intero sistema di pensiero considerato.

I – Aristotele
Le categorie aristoteliche delineano le determinazioni dell’ente, ciò che all’ente è imputabile e quindi ciò che di esso è predicabile. Si vedrà che quello che si svela grazie all’analisi categoriale è più che una teoria della predicazione, è la stessa struttura ontologica del mondo aristotelico.
Aristotele distingue tra due specie di enti: quelli che in una frase possono fungere sia da soggetto sia da predicato e quelli che, non potendo venir predicati di nulla, sono solo soggetti. Gli elementi di questo secondo gruppo costituiscono il riferimento ultimo della predicazione senza il quale nessuna predicazione sarebbe possibile; sono detti da Aristotele “sostanze prime”. Di esse si può affermare che “esistono” (hypárchein) nelle sostanze seconde, mentre le sostanze seconde “sono” (eînai) nelle sostanze prime. La distinzione terminologica segue una fondamentale distinzione ontologica: la prima relazione (hypárchein) è di tipo sostanziale, mentre la seconda (eînai) è di tipo accidentale. Ciò a significare che le sostanze seconde sono parti delle prime, appartengono ad esse. Si coglie così il primato ontologico delle sostanze prime, primato che rimanda anche ad una connotazione temporale: la sostanza prima “è già” nella sostanza seconda, vi è da sempre. Il verbo hypárchein, che a differenza della méthexis platonica indica una relazione intrinsecamente temporale, è il “dare inizio a”. L’hypárchein introduce una dissimetria tra il soggetto e il predicato: una precedenza temporale e, quindi, logica ed ontologica del soggetto rispetto al predicato.
Questa distinzione tra due tipi di essere implica che la verità sia caratterizzata temporalmente, la teoria aristotelica del giudizio necessita, quale condizione di verità, della significazione temporale: solo dove vi è sintesi (per Aristotele nella predicazione verbale) vi è enunciazione; il predicato nominale, invece, a causa dell’eternità del suo significato, non è passibile di verificazione. Tempo, essere e verità sono legati nella struttura preposizionale così come lo sono nella struttura metafisica aristotelica.

II – Kant
Kant si interroga sulla teoria del giudizio perché è tramite di esso che si esprime la conoscenza e, quindi, secondo il principio di oggettività kantiano, è tramite esso che si indaga la possibilità stessa degli oggetti dell’esperienza. L’interrogativo di partenza kantiano riguarda la formazione del giudizio: la possibilità ovvero della sintesi a priori.
Mentre Aristotele era volto a definire i possibili modi dell’ente, per Kant si tratta, invece, di definire i modi della sintesi di soggetto e predicato, Kant ricerca la possibilità di conformare i dati fenomenici all’universalità delle leggi d’esperienza. La proposizione non è più specchio dell’essere, così come era per Aristotele, ma è la stessa forma preposizionale (la forma della sintesi) a definire l’oggetto; l’unità dell’esperienza è l’unità del soggetto che la pensa, “l’unità trascendentale dell’autocoscienza”.
Nel giudizio è la copula a rappresentare la sintesi, la relazione al trascendentale. La copula costituisce l’asserzione grazie al suo valore oggettivo, esprime una relazione necessaria tra rappresentazioni volta a riportare queste, nella loro molteplicità, all’unità trascendentale dell’appercezione. Il soggetto del giudizio non ha più alcuna precedenza temporale (logica ed ontologica) rispetto al predicato, ora soggetto e predicato, se presi isolatamente, sono abbassati ad elementi contingenti della percezione. È il nesso di essi, la copula, che li forma alla necessità dell’esperienza. Chiurazzi rileva come, tale ruolo affidato alla funzione sintetica della copula, implichi ancora una volta il problema del tempo, questione che, però, Kant sembra non aver voluto considerare.

III – Hegel
Aristotele e Kant, nella differenza delle loro rispettive dottrine del giudizio, consideravano entrambi il giudizio come portatore di verità. Hegel si oppone in questo a tutta la tradizione precedente: il giudizio non può essere il luogo della verità perché non è il luogo della sintesi, ma, piuttosto, della divisione cristallizzata. Il termine tedesco per “giudizio” (Urteil) significa appunto “divisione originaria”, divisione di soggetto e predicato. La formula “S è P” fissa il soggetto S nella sua separatezza dal predicato P, la copula non è l’elemento unificante, ma il motivo del contrasto.
Com’è possibile allora esprimere il sapere vero? Per rispondere a tale domanda occorre innanzi tutto capire cosa sia per Hegel il vero sapere. Il sapere nella sua verità è lo stesso dell’essere, meglio, è il movimento stesso della realtà; pertanto il sapere non è esprimibile in una formula rigida, ma necessita di apparire nel suo movimento oggettivo. Il sillogismo, quindi, e non il giudizio, è ciò che mostra il vero perché in grado di rendere il movimento del sapere. Nel sillogismo, grazie al medio, il soggetto riceve anche la determinazione del predicato (A è B; C è A; dunque C è B); la presupposta unità di soggetto e predicato che si intravedeva nel giudizio, è nel sillogismo posta pienamente, è l’unità dinamica che lascia sussistere i due diversi.
La proposizione non è adatta ad esprimere il vero perché questo la distrugge: il contenuto della proposizione, l’unità di soggetto e predicato, è in contraddizione con la forma di essa, S è P. La realizzazione della proposizione è il risultato del conflitto interno di forma e contenuto e del movimento dialettico del concetto che deve distruggersi nell’opposizione per mostrarsi e poter poi ritornare in se stesso. La proposizione che mostra la verità del concetto togliendosi è detta da Hegel proposizione speculativa, essa, non il giudizio, è il vero.

IV – Husserl
Husserl fa propria l’esigenza hegeliana di concepire l’elemento razionale come unità di soggettività ed oggettività. Questo elemento razionale, unità e fondamento dei due estremi, è pensato da Husserl come intenzionalità della coscienza: come, in altri termini, il movimento della coscienza verso il suo oggetto. L’intenzionalità tiene in correlazione i due estremi, ne costituisce un’identità ideale, il che consente a Husserl di riportare le formazioni oggettive alla sfera soggettiva in quanto suoi atti.
L’atto del giudicare non è riducibile al giudizio predicativo della logica tradizionale, ma è già l’operazione d’identificazione dell’oggetto, l’attività della produzione oggettiva, sulla quale è poi possibile fondare la predicazione. Husserl pensa il giudizio come adeguazione di soggetto ed oggetto. Come per Kant, lo studio delle forme del giudizio (la logica) ha un’intenzione epistemologica che diviene necessariamente ontologica in quanto studio della possibilità degli oggetti; per questo Husserl rivendica la necessità per la logica formale di una fondazione trascendentale.
L’intenzionalità della coscienza è un tendere all’oggetto che, però, si dà solo parzialmente, la perfetta adeguazione di soggetto ed oggetto non è mai raggiunta nella progressione del pensiero, essa si colloca solo fuori dal tempo come intuizione immediata. Al giudizio sembra così essere preclusa ogni possibilità di essere completamente adeguato e probabilmente, a differenza di Aristotele ed Hegel, proprio a causa della sua connotazione temporale.

V – Heidegger
Heidegger muove verso un’interrogazione della logica nella sua originarietà, verso lo scuotimento della logica dalla sua formalizzazione per riportarla al problema ontologico: la logica deve affrontare il problema della verità.
La verità o falsità di un enunciato non è per Heidegger un evento reale, ma si fonda sulla validità ideale del pensiero come proposizione, sulla sua legalità. Come per Husserl, la verità è fuori dal tempo, data la sua idealità. Oggetto dell’indagine filosofica è, quindi, quello di una comunicazione tra ambito ideale e ambito reale: si torna a Platone e al problema della méthexis.
Heidegger individua la relazione dell’Esserci al mondo con l’atteggiamento del “prendere interesse”, della “cura”. Ogni possibile atteggiamento dell’Esserci presuppone una qualche intenzionalità, un interesse e, quindi, la cura. Ciò implica la necessità che l’ente sia già sempre aperto prima di qualsiasi atteggiamento dell’Esserci. La verità ci si mostra essere proprio l’orizzonte di senso anteriormente aperto, in essa l’Esserci è libero di rapportarsi all’ente secondo qualsiasi modalità di atteggiamento. Un giudizio vero non rimanda, pertanto, ad un unico oggetto, ad una singola relazione, ma indica un insieme di comportamenti possibili.
La verità è la cooriginarietà trascendentale di soggetto ed oggetto, essa precede il discorso temporalmente e come sua condizione di possibilità, la verità è l’essere-nel-mondo. Dato che la condizione del senso è caratterizzata come “essere prima”, come “antecedenza”, ecco che essa non è altro che il tempo: il tempo torna ad essere la condizione della verità.

Indice

Introduzione

CAPITOLO I. L’ANTECEDENZA DELLA SOSTANZA: ARISTOTELE
«Dirsi di un soggetto» ed «essere in un soggetto»
Sostanza prima e sostanze seconde
Come è possibile la verità
La con significazione temporale del verbo
Lo hypárchein come inesse: esistenza e identità
CAPITOLO II. L’A PRIORI DELLA SINTESI: KANT
Giudizi analitici e giudizi sintetici
Giudizi di percezione e giudizi di esperienza
La deduzione trascendentale
La rivoluzione copernicana
CAPITOLO III. LA VERITÀ DELL’INTERO: HEGEL
Il giudizio, punto di vista del finito
La copula: dal giudizio al sillogismo
Pensiero raziocinante e giudizio
La proposizione speculativa
CAPITOLO IV. LA BILATERALITÀ DEL GIUDIZIO: HUSSERL
La «fenomenologia della ragione»
Dalla logica formale alla logica trascendentale
Dal giudizio all’esperienza
Intenzione significante e riempimento di significato
La dinamica del senso
CAPITOLO VI. IL SENSO DELLA COPULA: HEIDEGGER
Logica formale e logica filosofica
La critica alla distinzione tra ideale e reale
Verità ed essere-nel-mondo
Il senso dell’essere come senso della copula
“In quanto” ermeneutica e “in quanto” apofantico
CAPITOLO VII. PRIMA DEL GIUDIZIO
L’inesse come esistere: Heidegger e l’a priori del tempo
L’antepredicativo: senso dell’essere o essere del senso?

L'autore

Gaetano Chiurazzi è ricercatore di Filosofia teoretica all’Università di Torino. È autore di quattro monografie: Scrittura e tecnica. Derrida e la metafisica (Rosenberg & Sellier, Torino 1992); Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere (Laterza, Roma-Bari 1996); Il postmoderno (Paravia, Torino 1997; II ediz. Bruno Mondadori, Milano 2002); Modalità ed esistenza (Trauben, Torino 2001), e di vari saggi pubblicati in riviste nazionali e internazionali.

domenica 18 dicembre 2005

Losurdo, Domenico, Controstoria del liberalismo.

Roma-Bari, Laterza (Biblioteca Universale Laterza, 578), 2005, pp. 376, € 24,00, ISBN 88-420-7717-8.

Recensione di Maurizio Brignoli – 18/12/2005

Filosofia politica (liberalismo)

Domenico Losurdo prosegue con Controstoria del liberalismo il suo lavoro di analisi critica, da un punto di vista marxista, della tradizione liberale. L’obiettivo è di analizzare, su un arco di tempo che giunge fino allo scoppio della prima guerra mondiale, il liberalismo non come astratta elaborazione teorica, ma nella concretezza delle società liberali storicamente realizzatesi.
I liberali a metà Ottocento tendono a contrapporre all’interminabile ciclo rivoluzionario francese l’ordinato trionfo della libertà delle tre rivoluzioni liberali in Olanda, Inghilterra e Stati Uniti. In realtà però le rivoluzioni liberali uniscono – come emerge dai testi di Grozio, Locke e dalle reticenti formulazioni della costituzione statunitense che contrappone “uomini liberi” e “resto della popolazione” – rivendicazione della libertà e giustificazione della schiavitù e dell’annientamento dei selvaggi. La schiavitù, dunque, non permane nonostante le vittorie liberali, ma è un fenomeno che si sviluppa e rafforza proprio in seguito a questo successo. Il trionfo del liberalismo e la schiavitù-merce su base razziale sono il frutto di un parto gemellare.
Il disagio liberale si evidenzia bene in Montesquieu, che vuole limitare la schiavitù solo a quei paesi in cui questa possa essere giustificata dal clima. La condanna della schiavitù è netta solamente quando è presente “tra noi”, quando cioè mette in crisi la percezione di sé che ha l’Europa come luogo esclusivo della libertà. Di fronte a questa contrapposizione fra metropoli e colonie, che esclude queste ultime dallo spazio sacro della civiltà e della libertà, emerge la reazione dei coloni americani che pongono il confine civiltà-barbarie non più in termini spaziali, ma in termini di appartenenza etnica e razziale.
Anche per i servi bianchi la situazione è drammatica. Fra il 1688 e il 1820 in Inghilterra si sviluppa una legislazione terroristica con la quale i reati che prevedono la pena di morte, quasi sempre reati contro la proprietà, si moltiplicano. Le classi popolari oltre a essere controllate nella vita privata, tramite l’indottrinamento religioso o il consumo di oppio, lo sono ancor di più nella vita pubblica dove vengono varate leggi per impedire le azioni collettive della classe operaia.
I liberali presentano la “libertà moderna” come “libertà negativa”, come quella sfera in cui ogni individuo gode di una sfera privata di libertà garantita dalla legge. In realtà il ricorso a tale categoria è problematica negli Stati Uniti anche per la stessa classe dominante: il padrone di schiavi ha un potere assoluto sulla sua proprietà, ma non può metterne in discussione il processo di reificazione e mercificazione. È proibito insegnare a leggere e scrivere agli schiavi, sono vietati i rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali, è vietato il riconoscimento della prole nata da un rapporto fra padrone e schiava. Siamo di fronte a una società che esercita una dura costrizione anche sui suoi membri privilegiati, in quanto la comunità esige di mantenere invalicabile la barriera tra la razza dei signori e quella dei servi. A proposito della società statunitense si potrebbe parlare di Herrenvolk democracy in cui i membri di un’aristocrazia di classe o di razza, visto che la netta demarcazione fra bianchi e neri/pellerossa permette rapporti di maggiore eguaglianza nella comunità bianca, si autocelebrano come “pari” che godono del potere di escludere gli “inferiori”.
Se negli Stati Uniti vi è questo sentimento di relativa eguaglianza fra bianchi, in Inghilterra l’esclusione dall’eguaglianza giuridica e dalla libertà negativa è un fenomeno ancora più ampio: considerando le tre distinte situazioni giuridiche – libertà, servitù, schiavitù – il servo bianco non fa parte, nonostante l’abisso razziale, della comunità dei liberi. Anche quando dopo la guerra di secessione le caste si riducono a due, ai semischiavi neri negli Usa corrispondono i servi bianchi inglesi, permane una barriera che separa questi ultimi dalla casta degli uomini veramente liberi. All’apartheid razziale corrisponde un apartheid sociale.
Anche i rapporti tra l’Occidente e il mondo coloniale sono riassumibili nella formula della “democrazia per il popolo di signori” ormai estesa a livello planetario. Se alcuni dei popoli barbari sono destinati, come ad esempio i cinesi, a forme di lavoro servile, altri, meno utili come i pellerossa o i nativi australiani e neozelandesi, sono destinati all’annientamento.
La Francia, che nel 1763 dopo la sconfitta nella guerra dei Sette anni aveva perso buona parte del suo impero coloniale, sviluppa una critica del colonialismo e dello schiavismo che, per i consistenti interessi economici in gioco, è assente in Inghilterra e negli Stati Uniti. Il radicalismo francese è così in grado di dissolvere l’immaginaria trasfigurazione universalistica dell’americana “democrazia per il popolo dei signori”, differenziandosi dal liberalismo respingendo sia la delimitazione spaziale (inglese) che quella razziale (statunitense) della comunità dei liberi. Mentre la tradizione liberale, anche quando critica la schiavitù, non rinuncia mai alla dicotomia Occidente/civiltà-mondo coloniale/barbarie, il radicalismo di Condorcet e Diderot denuncia la barbarie della schiavitù in contrasto con l’ingenuità epistemologica di autori liberali, come Tocqueville, che concentrano la loro attenzione solo sulla comunità bianca e celebrano come luogo della libertà un paese in cui fiorisce la schiavitù su base razziale e che attua una politica di massacro e di deportazione nei confronti dei pellerossa.
La tradizione liberale si fonda così su due macroscopiche clausole di esclusione nei confronti delle “macchine bipedi” della metropoli da un lato e degli schiavi e delle popolazioni coloniali dall’altro. Di fronte alla lotta per il riconoscimento dei lavoratori, la classe dominante replica che la partecipazione alla vita politica non è un elemento essenziale della libertà e che i rapporti di lavoro e le condizioni materiali di vita rientrano in una sfera privata in cui non solo il legislatore non deve entrare, ma la cui immutabilità è consacrata dalla natura. Emerge nel liberalismo una dimensione social-darwinistica che vede nella legislazione a favore dei poveri una distruzione delle leggi di natura: lo stato non deve interferire con la lotta per l’esistenza.
L’opposizione alla comunità dei liberi può giungere non solo dalle colonie, ma anche dalle metropoli, e allora la barbarie esterna viene identificata dai liberali con quella interna e l’unica soluzione possibile, in entrambi i casi, è la dittatura. Il conflitto politico-sociale può produrre anche un’interpretazione in chiave psicopatologica: è la follia che spinge i socialisti a voler modificare rapporti di proprietà e produzione sanciti dalla natura e dalla Provvidenza. Il passaggio dalla malattia alla razza è conseguente e rapido: l’agente patogeno è introdotto da elementi rivoluzionari estranei alla razza inglese, come slavi e latini, o dagli ebrei.
In conclusione le rivoluzioni liberali sono caratterizzate da un intreccio di emancipazione e de-emancipazione ed esprimono inizialmente l’autocoscienza di una classe di proprietari di schiavi o servi che si forma insieme allo sviluppo del sistema capitalistico. I liberali rivendicano l’autogoverno e il godimento della proprietà contro il dispotismo monarchico: “Quella liberale è la tradizione di pensiero che con più rigore ha circoscritto un ristretto spazio sacro nell’ambito del quale vigono le regole della limitazione del potere; è una tradizione di pensiero caratterizzata, più che dalla celebrazione della libertà o dell’individuo, dalla celebrazione di quella comunità degli individui liberi che definisce lo spazio sacro” (p. 305). Nella delimitazione rigorosa di questo spazio, che svolge la funzione estremamente positiva di far valere regole precise all’interno del popolo eletto, il liberalismo approfondisce, d’altro canto, in modo ancora più rigoroso, l’abisso che lo separa dallo spazio profano.
Per superare il mito agiografico del graduale e pacifico passaggio dal liberalismo alla democrazia, oltre al costante intreccio di emancipazione e de-emancipazione, bisogna ricordare che: 1. i classici del pensiero liberale sono ostili alla democrazia e la considerano una rottura arbitraria del patto sociale; 2. le clausole di esclusione sono state superate tramite sconvolgimenti violenti; 3. il processo storico che porta alla democrazia non è un processo unilineare: dopo la Comune di Parigi, e soprattutto dopo la rivoluzione bolscevica, molti liberali rimettono in discussione non solo le concessioni democratiche strappate dalle masse popolari, ma anche lo stesso governo della legge, appoggiando ad esempio il fascismo; 4. il processo di emancipazione ha avuto spesso uno spunto esterno al mondo liberale come con la rivolta degli schiavi di Santo Domingo o la rivoluzione russa.
I meriti e la forza del liberalismo consistono nella sua capacità di adattarsi alle sfide del tempo e nella capacità di apprendere dai suoi antagonisti, dal radicalismo al marxismo, molto più di quanto i suoi antagonisti non abbiano appreso da lui. Soprattutto gli avversari non hanno saputo apprendere il grande punto di forza del liberalismo consistente nel pensare il problema della limitazione del potere.
Il lavoro di Losurdo costituisce un importante strumento per un tentativo di demistificazione della tradizione liberale che oggi tende a imporsi come dominante. Inoltre la lettura del testo – dove ad esempio si ricorda come le operazioni contro le bestie selvagge dalla pelle rossa non siano considerate a Washington operazioni di guerra, impossibili contro popoli che non hanno raggiunto lo stadio della civiltà, bensì di polizia – permette al lettore immediati rimandi alla politica odierna e alla stessa terminologia utilizzata in occasione delle operazioni di “polizia internazionale”.
Se si volesse individuare un limite, oltre a quello temporale che ferma l’analisi alla prima guerra mondiale, si potrebbe sottolineare come l’autore tenda in alcuni punti a dare maggiore rilievo, per usare un definizione utilizzata dallo stesso Losurdo nel suo Nietzsche, alla “razzizzazione orizzontale” (basata su una differenziazione nazionale o etnica e razziale) rispetto a quella “trasversale” – che procede a una razzizzazione delle classi subalterne contrapponendo malriusciti/benriusciti, nobili/plebei, liberali/servili nel nostro caso, indipendentemente dall’appartenenza nazionale o etnica – che ci pare invece essere fondamentale nelle diverse fasi dell’imperialismo, a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, proprio per la sua utilità nel disgregare in anticipo possibili alleanze fra gli sfruttati delle metropoli capitalistiche e delle colonie.

Indice

Una breve premessa metodologica
I. Che cos’è il liberalismo?
II. Liberalismo e schiavitù razziale: un singolare parto gemellare
III. I servi bianchi fra metropoli e colonie: la società proto-liberale
IV. Erano liberali l’Inghilterra e gli Stati Uniti del Sette e Ottocento?
V. La rivoluzione in Francia e a Santo Domingo, la crisi dei modelli inglese e americano e la formazione del radicalismo sulle due rive dell’Atlantico
VI. La lotta per il riconoscimento degli strumenti di lavoro nella metropoli e le reazioni della comunità dei liberi
VII. L’Occidente e i barbari: una «democrazia per il popolo dei signori» di dimensioni planetarie
VIII. Autocoscienza, falsa coscienza, conflitti della comunità dei liberi
IX. Spazio sacro e spazio profano nella storia del liberalismo
X. Liberalismo e catastrofe del Novecento

L'autore

Domenico Losurdo (Sannicandro, Bari, 1941) è ordinario di Storia della filosofia presso l’Università degli Studi di Urbino. Fra i suoi lavori, molti dei quali tradotti in più lingue, ricordiamo i più recenti: Antonio Gramsci dal liberalismo al comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997; Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1998; Nietzsche, il ribelle aristocratico, Boringhieri, Torino 2002.

Links

(Rai Educational pagina dedicata a Losurdo)
(recensioni, articoli, dibattiti sul Nietzsche di Losurdo)
(testi e collegamenti sui classici del pensiero liberale)

giovedì 15 dicembre 2005

Mazzeo, Marco, Storia naturale della sinestesia. Dalla questione Molyneux a Jakobson.

Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 375, € 21,00.

Recensione di Chiara Pastorini – 15/12/2005

Filosofia del linguaggio, Filosofia della mente

Se un uomo nato cieco, e diventato esperto tramite il tatto nel distinguere un cubo da una sfera, recuperasse la vista, sarebbe in grado di fare ancora questa distinzione con gli occhi senza toccare i due oggetti? Questa in sostanza la questione che William Molyneux, filosofo e scienziato irlandese, probabilmente afflitto per la cecità che colpiva la moglie, pose al suo corrispondente John Locke verso la fine del Seicento. 
Da quel momento la questione acquisì una rilevanza tale da riproporsi anche nei secoli successivi e negli autori più disparati, da Berkley a Leibniz, da Abbott a Merleau-Ponty fino ad assumere un ruolo di primo piano anche nei dibattiti contemporanei delle scienze cognitive, piuttosto che dell’antropologia filosofica o della psicologia sperimentale. 
La questione solleva punti di domanda intorno alle interconnessioni tra i sensi, intrecciandosi così al tema delle sinestesie (dal greco συν [insieme] e αισθησίσ [percezione]), ed implica inevitabilmente anche un’indagine nei rapporti tra la dimensione percettiva con quelle concettuale e linguistica.
Ma a chi tocca dare una risposta a questi interrogativi? Alle scienze empiriche con un nuovo experimentum crucis ancora da realizzare, oppure alla filosofia del linguaggio, a una nuova teoria della percezione o alla filosofia della mente? Pur analizzando con attenzione i risultati delle ricerche empiriche Mazzeo sembra affermare che il compito di fare chiarezza all’interno della questione Molyneux, impossibile a risolversi categoricamente in un si o un no, spetta ora alla filosofia.
Il percorso attraverso il quale l’autore, prima ripercorre l’evoluzione storico-filosofica della questione, poi ne discute i dati forniti dalle ricerche empiriche, e infine ne propone una risposta, è articolato in sette capitoli principali.
Nei primi due capitoli, Mazzeo fornisce una ricostruzione della questione Molyneux centrata su tre paradigmi principali. Il primo è rappresentato dalla cosiddetta “gerarchia sensoriale” che sostiene la priorità di un senso sull’altro: il primo Berkley ed il secondo Condillac insistono sul potere percettivo del tatto, il secondo Berkley ed il primo Condillac, invece, su quello della vista. Il secondo modello paradigmatico, chiamato “geometrico-linguistico”, sottolinea l’importanza della mediazione per mezzo di parole e calcolo geometrico tra le differenti modalità sensoriali. All’interno di questa prospettiva, sia Diderot che Leibniz, seppur con posizioni diverse, affermano che il cieco possa conoscere forme e spazio grazie all’astrazione geometrica. Vi è infine un terzo paradigma, incarnato da Herder, che insiste sulla capacità di percepire attraverso diversi sensi simultaneamente come carattere specifico della natura umana.
Nel terzo capitolo, l’antropologia filosofica, che vede in Herder il suo principale capostipite, riconosce nelle capacità sinestetiche uno degli spartiacque fondamentali tra ambiente animale e mondo umano, e nella quarta sezione l’autore sottolinea il fatto che la specie umana sia quella più sinestetica all’interno del regno animale, in quanto la meno specializzata e la più generica.
È nel capitolo quinto che viene messo in luce come lo scarto tra animali umani e non umani sia di natura percettiva e prelinguistica: gli Homo sapiens prima di qualsiasi attività verbale sono già in grado di effettuare trasferimenti sinestetici più complessi degli altri primati. Inoltre, costitutivo della nostra specie è un carattere di cronica immaturità (neotenia) che garantisce una plasticità biologica tale da consentire una ristrutturazione sensoriale ripetuta nel corso dell’ontogenesi. 
I limiti di una plasticità ampia, ma non illimitata vengono messi in evidenza nel capitolo sesto analizzando i casi di ciechi che recuperano la vista e la questione delle sostituzioni sensoriali. Mentre i primi cinque capitoli hanno insistito sul rapporto di dipendenza reciproca delle diverse modalità sensoriali, il sesto si concentra, piuttosto, sulla loro autonomia. Ma il contrasto tra queste due concetti è solo apparente: il fatto che la vita percettiva umana sia scandita dalla corrosione continua tra i sensi non impedisce che ciascuno di essi abbia la sua specificità, le sue proprie leggi (αυτός= proprio, νόμος= legge).
Nella settima e ultima sezione, Mazzeo indaga più da vicino i rapporti tra sinestesia e linguaggio sottolineando l’importanza della parola per la percezione, come già messo in evidenza precedentemente da Leibniz e Diderot. Qui, però, la fondazione non è più a senso unico: sia la parola rafforza e amplia la tipologia delle connessioni sinestetiche, sia, viceversa, è la sinestesia che si pone come la condizione di possibilità stessa del linguaggio. E il luogo privilegiato in cui emerge il legame tra sinestesia e linguaggio è individuato nell’elemento creativo della metafora.
Riproponendo allora la questione Molyneux alla luce di quanto detto la risposta che ne dà Mazzeo è la seguente: un cieco che recuperi la vista non sarebbe in grado di riconoscere immediatamente cubi e sfere, poiché solo un puro spirito in cui ogni sensorialità sarebbe equivalente (e, dunque, in cui non ci sarebbe realmente sensorialità) riuscirebbe nell’intento. Ma, ricorda l’autore, “gli animali umani non sono angeli […], devono sforzare il loro corpo per costruire le loro provvisorie e incerte conoscenze” (p. 13).

Solo una teoria filosofica che consideri l’animale umano come un corpo sinestetico, in cui si intersecano percezione e linguaggio, può allora sostenere l’adeguatezza dei suoi risultati, non fornendo risposte preconfezionate, ma costringendo ad interrogarci su ciò che ci rende umani.

Indice

Introduzione
PARTE PRIMA. RICOSTRUZIONE STORICO-FILOSOFICA.
Il cubo e la sfera: la questione Molyneux nel Settecento
L’Ottocento”: la “sconfitta vincente” di Berkley e il cieco che vede colori
Il Novecento: sensi e natura umana nell’antropologia filosofica
PARTE SECONDA. DISCUSSIONE DEI DATI EMPIRICI
Molyneux e la scimmia: la plasticità filogenetica dell’animale umano
Molyneux e la culla: la plasticità ontogenetica dell’animale umano
La vista che torna: i limiti della plasticità umana
La sinestesia come esigenza di linguaggio
Bibliografia

Indice di nomi

L’autore

Marco Mazzeo è dottore di ricerca in filosofia presso l’Università della Calabria. Ha curato il volume Wittgenstein 50 anni dopo: corpo, sensibilità e linguaggio (ESI, 2001) e, insieme ad altri, Linguaggio e percezione. Le basi sensoriali della comunicazione verbale (Carrocci, 2002). Tra le sue pubblicazioni Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole (Editori Riuniti, 2003) ed è tra i fondatori della rivista “Forme di vita” (Deriveapprodi).

Links

Sito per un’introduzione alla nozione di ‘sinestesia’ (in chiave psicologica):

martedì 13 dicembre 2005

Gallino, Luciano, Dizionario di Sociologia.

Torino, Utet (Libreria), 2004², pp. XIV+814, € 23,00.

Recensione di Francesco Giacomantonio – 13/12/2005

Sociologia

Ripubblicato nel 2004, dopo le edizioni del 1978 e del 1993, con l’aggiornamento riguardo alla voce sulla globalizzazione, il dizionario di Sociologia di Luciano Gallino costituisce un raffinato strumento teorico per esprimersi correttamente in un’epoca come quella attuale, in cui la complessità dei fenomeni e le partizioni disciplinari, non di rado, possono indurre confusione nella definizione della realtà. Parliamo di questo testo in termini di “Strumento teorico” perché davvero la sua impostazione lo lascia inquadrare come una sorta di meccanismo con cui il lettore può interagire costantemente a vari livelli. Certamente, infatti, questo dizionario, è più che una semplice raccolta di voci inerenti la sociologia.

In primo luogo, perché attraverso la classificazione delle voci, presentata in apertura, in nove distinti gruppi, consente al lettore di considerare il testo anche come trattato organico di Sociologia teorica. In secondo luogo, perché ogni voce si presenta suddivisa in sezioni che ne approfondiscono A) la definizione, B) l’evoluzione storica del significato, C) le componenti, D) i fattori che influenzano il concetto esaminato, E) gli effetti, e, infine, F) eventuali problemi di ricerca e critica del termine. Non pare trascurabile rilevare, poi, la presenza di traduzione fornita di ciascuna voce nelle lingue spagnola, inglese, tedesca e francese, oltre che la bibliografia finale, per ciascun termine, ordinata storicamente. Altresì molto utili sono gli indici di nomi comuni e propri che chiudono l’opera, rafforzandone ulteriormente la struttura dei rimandi concettuali.

Tutti questi elementi danno luogo a percorsi interpretativi trasversali e virtuali del testo. Dal punto vista metodologico, quindi, il lavoro di Gallino è intelligente e stimolante; eventuali obiezioni possono sorgere solo su alcune decisioni dell’autore sui contenuti. Ad esempio, stupisce un po’ che si trovi tra tutti i testi presentati nelle bibliografie delle voci, solo un singolo riferimento a uno studioso come Michel Foucault, che, pur non essendo strettamente sociologo, ha comunque influenzato notevolmente l’interpretazione del sociale. Così come può indurre a porsi domande, l’assenza tra le voci di modernità e postmodernità (forse ritenute assimilabili alla voce modernizzazione?), che tanto caratterizzano la teoria sociologica, o della voce capitale sociale (essendo comunque presenti voci come organizzazione sociale, ordine sociale, sviluppo sociale, azione sociale, scambio sociale, controllo sociale, ecc.), che cospicuo interesse desta nella sociologia economica, di cui proprio Gallino è, tradizionalmente, uno degli studiosi italiani più attenti.

Ma, naturalmente, queste piccole osservazioni non intaccano il valore, anche epistemologico, del testo; piuttosto, sono solo un esempio degli spunti di riflessioni, ovviamente anche critiche, che il dizionario può suscitare. Poiché è proprio l’elemento dialogico che sembra caratterizzare più profondamente quest’opera; un elemento dialogico che si avverte nei richiami reciproci, che sono segnalati, tra le voci; un elemento dialogico che si manifesta, quando il lettore prova a seguire i percorsi tematici, che l’autore propone attorno ai concetti; un elemento dialogico che sta alla base di ogni pensiero ricco e serenamente critico e che è forse il dono che la sociologia fa a quegli uomini che indugiano sulle sue teorie. Come ha cercato di fare, per tutta la vita, Luciano Gallino; e come può fare l’attento lettore di questo suo dizionario.

L'autore

Luciano Gallino ora professore emerito all’Università di Torino è uno dei maggiori Sociologi italiani. Si è occupato nel corso dei suoi studi particolarmente di problemi epistemologici delle scienze sociali, oltre che di Sociologia economica e del lavoro. Tra i suoi scritti più recenti si ricordano: Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza, 2000)  e il Manuale di Sociologia da lui diretto per Utet (1997).

domenica 11 dicembre 2005

AA.VV., Arte, scienza e natura in Goethe.

Torino, Trauben, 2005, pp. 466, € 25,00, ISBN 88-883-9874-0.

Recensione di Davide Sisto - 11/12/2005

Estetica, Filosofia della scienza, Storia della filosofia (romanticismo)

Il presente volume raccoglie gli esiti di tre convegni che si sono tenuti rispettivamente a Bologna, Padova e Torino tra il 1999 e il 2000, riguardanti le relazioni tra scienza, arte e filosofia nel pensiero di Goethe e il conseguente rapporto che il poeta tedesco ha instaurato con scienziati, filosofi, artisti e scrittori della sua epoca. I ricercatori di svariati paesi e di differenti discipline scientifiche che hanno partecipato attivamente ai tre suddetti convegni prendono le mosse dal cosiddetto «biocentrismo goethiano», riconducibile al principio inviolabile dell’unità organica della natura, principio che si traduce nel mirare all’unità e alla totalità sia nella cosa singola sia nell’universo intero, bandendo qualsivoglia rigurgito meccanicistico volto a rappresentare il mondo nei termini di una concatenazione infinita di cause ed effetti.
Come rimarca Gian Franco Frigo (pp. 171-186), l’interesse scientifico e filosofico di Goethe per la natura matura a partire dal soggiorno a Weimar del 1775, per raggiungere il suo culmine speculativo durante il viaggio in Italia. Fin dall’inizio, il poeta tedesco imposta coscientemente la sua indagine naturalistica «in netta opposizione ai procedimenti tipici della scienza moderna, che con l’abbandono delle cause finali e il privilegiamento delle qualità primarie mirava a un’analisi quantitativa dei processi naturali» (p. 174). In particolar modo, il naturalismo goethiano rielabora con originalità le ragioni epigenetiche fatte valere da Wolff contro la preformazione degli organi e acquisisce la nozione di nisus formativus con cui Blumenbach spiegava la facoltà degli organismi ad autoriprodursi. Per Frigo, il metodo che orienta le indagini scientifiche di Goethe «sta nel “vedere” con gli occhi fisici nel fenomeno, che è sempre singolare e molteplice, l’universale, che è sempre astratto e unico, senza passare attraverso l’astrazione che uccide» (p. 180): ciò significa partire da una pre-comprensione che rinvia ad un’armonia originaria tra fenomeno e idea. Proprio a partire da questo assunto, Diego Sànchez Meca (pp. 357-380) coglie alcune analogie tra la morfologia goethiana e la fenomenologia: «entrambi i procedimenti si autocomprendono come descrizione e teorizzazione di un processo fenomenico e come intuizione dell’intellegibile-ideale nel sensibile» (p. 367). Tuttavia, il fenomenismo empirico di Goethe, fondato su una concezione d’impianto qualitativo di tipo organicistico-vitalistico capace di mettere in luce il carattere processuale dei fenomeni naturali, non può coniugarsi con l’idealismo trascendentale; esso ha, infatti, come compito «quello della comprensione della trasformazione dell’identico, cioè quello di cogliere l’eterno nel divenire transitorio delle metamorfosi» (ibid.). E vedere l’eterno nel transitorio non significa vedere in un oggetto dato empiricamente la presenza di un’idea platonica, bensì «cogliere la legge secondo cui una forma si tramuta in un’altra forma, passando per una serie di transizioni intermedie, in qualunque serie o specie di organismi» (ibid.).
L’interpretazione dell’organismo naturale come processualità è il punto di partenza da cui muove l’indagine di Olaf Breidbach e di Maurizio Di Bartolo (pp. 35-55) nei confronti del progetto morfologico di Goethe, il quale esplicita «le potenzialità del concetto di “tipo”, della sua natura teleologica e del suo impiego in un’osservazione attiva delle forme della natura» (p. 36). Per i due studiosi la fecondità del Typus goethiano può essere colta soltanto nel suo profondo intreccio con la metamorfosi naturale, nonché con l’osservazione dei dinamici processi morfogenetici riguardanti le singole forme viventi. Coerente prosecuzione del pensiero di Wolff, soprattutto per quanto concerne l’analisi della Bildung e della Umbildung delle forme naturali organiche, la concezione goethiana, nell’esplicitare i tratti caratteristici di una natura autodeterminantesi, mostra come i diversi organismi non siano altro che gradazioni di un unico tipo di organizzazione vivente. Tali gradini, costituiti e connessi in un plesso funzionale, mettono in luce «una serie sempre più complessa e perciò concorrono a organizzare forme sempre più altamente complesse» (p. 47). Pertanto, lungi dall’appropriarsi arbitrariamente dei prodotti naturali, l’uomo deve adeguarsi alla natura, riconoscendone la vitale libertà e ravvisando la comunanza fondamentale in cui stanno le cose della natura. A fondamento di un tale atteggiamento, profondamente critico nei confronti dei procedimenti scientifici che violano l’equilibrio dei processi organici, Klaus Meyer-Abich (pp. 269-291) scorge il «congeniale spinozismo di Goethe», i cui tratti caratteristici sono un radicale panteismo poggiante sulla distinzione tra le cose della natura e la natura delle cose, l’Anschauung della «natura sempre creatrice» come grado più alto della conoscenza umana e la connessione tra natura e libertà.
Sulla via tracciata dalla morfologia goethiana si pongono Alexander von Humboldt e Schelling, presi in esame rispettivamente da Paola Giacomoni (pp. 187-203) e da Marco Segala (pp. 401-415). Giacomoni pone in luce la vicinanza di Humboldt al pensiero di Goethe nell’ambito della fisiognomica, ove entrambi, applicando un metodo comparativo, superano la caratteristica dialettica interno/esterno teorizzata da Lavater, per studiare invece «quegli elementi che rendono tipico un ambiente e che comunicano con la loro massa, con la loro combinazione tipica, una certa atmosfera» (p. 197), mettendo in risalto strutture oggettive che risultano avere un effetto significativo sul mondo affettivo dell’osservatore. Segala, invece, sottolineando l’ingente ammirazione di Goethe per Schelling, mostra come la Naturphilosophie schellinghiana riesca a collegare lo studio della natura a un sistema filosofico, riconoscendo la natura come «momento centrale e ineludibile per il processo di comprensione filosofica della coscienza» (p. 414).
Tra i più importanti contributi apportati dal Goethe «fenomenista» alla scienza, Francesco Moiso (pp. 293-310) menziona, attraverso il ricorso ad una serie di scritti biologici ed estetici, spesso non poco curiosi, la celebre scoperta dell’Urpflanze, fenomeno originario con cui la natura compie il suo gioco, e nel gioco produce la vita nelle sue molteplici forme. Essa svela l’essenza primaria della metamorfosi naturale, data dall’eterno trascorrere, nella varietà e molteplicità della natura, di alcuni modelli fondamentali che, modificandosi, espandendosi e contraendosi, si ripresentano sempre identici, favorendo la perfetta fisionomia delle manifestazioni empiriche.
Ma la biologia non è l’unico campo scientifico di cui si è occupato Goethe. Nell’ambito dell’osteologia e dell’anatomia comparata Goethe, confrontando le ossa umane e le ossa degli animali, perviene alla scoperta dell’osso intermascellare nell’uomo, le cui conseguenze sono analizzate minuziosamente da Michael John Petry (pp. 325-356); nell’ambito della geologia e della mineralogia, egli dimostra, invece, una marcata propensione per lo studio delle rocce, che lo spinge, come osserva Ezio Vaccari (pp. 417-446), a prendere le parti dei nettunisti, convinti dell’importanza delle acque nel lento processo di formazione di tutte le rocce, contro i vulcanisti, favorevoli ad un’origine ignea di diversi prototipi rocciosi. Non mancano, inoltre, rilevanti testimonianze relative al modo in cui il «Goethe scienziato» è stato accolto dagli ambienti scientifici contemporanei e posteriori: Dietrich von Engelhardt (pp. 69-94) si sofferma sul giudizio espresso dalle scienze naturali del XIX secolo, tenendo conto soprattutto delle opinioni degli scienziati romantici e positivisti, Ariane Dröscher (pp. 57-68), invece, esamina approfonditamente il legame tra Goethe e la scienza italiana, con particolare attenzione per il pensiero di Bonaventura Conti.
L’attenzione riposta dal Goethe post-stürmeriano al divenire infinito della Bildung naturale rappresenta il nodo centrale da cui si dipana il rapporto fra arte e scienza a partire dal soggiorno weimariano. Luca Farulli (pp. 113-126) ripercorre l’evoluzione del percorso intellettuale goethiano, facendo riferimento al diverso modo in cui viene concepito dal poeta tedesco il ruolo dell’occhio umano: dal periodo strasburghese, segnato dalla critica all’occhio come «organo “superficiale” in quanto legato ad una modalità conoscitiva meramente analitica, descrittiva, quando non addirittura replicante» (p. 115), incapace di conseguire il bello vivente della natura, all’esperienza italiana, in cui lo sviluppo della Farbenlehre accompagna la rivalutazione del senso della vista, giacché la trattazione dei colori fisiologici, riversandosi sul piano artistico, evidenzia la capacità dell’occhio di cogliere «il profondo, ovvero la legittimità interna della natura, attraverso il colore in quanto linguaggio della natura nella sua regolata vitalità» (p. 124). Il particolare rapporto che s’instaura tra l’occhio e il colore nella Farbenlehre goethiana è approfondito, in primo luogo, da Ludolf von Mackensen (pp. 247-257) attraverso la disamina della contrapposizione luce/tenebre in cui si esprime la dinamicità feconda della natura onnidiveniente, in secondo luogo, da Maurizio Mamiani (pp. 257-267) mediante un serrato raffronto con le teorie di Boyle e Newton, e, infine, da Fabio Grigenti (p. 205-236), il quale, dopo aver rimesso ordine alla complessa diatriba epistolare tra Goethe e Schopenhauer, non certo priva di fraintendimenti e discordanze, mostra come Wittgenstein sia propenso ad usare il concetto di Urphänomen per definire la nozione di gioco linguistico. «Se il gioco è fenomeno originario, esso è origine che si colloca su un piano diverso da quello occupato dai problemi che improvvisamente sorgono all’atto del suo impiego (…) Il gioco non è una risposta più profonda al problema, ma un movimento verso la superficie che riporta il problema stesso nella sua patria d’origine: la quotidianità dell’uso effettivo del linguaggio» (p. 233). Come l’idea di colore, anche l’idea di gioco «implica una molteplicità pressoché infinita di cose che chiamiamo giochi» (p. 234); come il colore, il gioco «rompe i limiti della forma» (ibid.).
Su un piano prettamente estetico, una delle principali conseguenze della trasposizione del principio morfogenetico dal campo naturale a quello artistico si ritrova in quella rivoluzione ideologica, perpetrata dal preromanticismo e largamente diffusa col romanticismo, che fa della bellezza non tanto la legge o il fine dell’arte, quanto il suo risultato ed esito. Federico Vercellone (pp. 447-466), nel ritratteggiare gli aspetti filosofici che hanno reso l’Ottocento «il grande secolo nel quale il bello non è più bellezza di natura, tanto meno è il bello metafisico ma è bello artistico» (pp. 447), descrive l’affascinante dialogo tra l’idea, la forma e la vita, da cui scaturisce una forma poetica in divenire che, dovendosi aprire verso il vivente per non irrigidirsi su di sé, «è così esposta a un rischio evidente intrinseco alla concezione, che è quasi un ossimoro, di una forma aperta, che deve superare i propri confini» (p. 453). Da qui è possibile scorgere la natura ermeneutica della forma e la conseguente minaccia costante dell’informe, che segna il trapasso dell’estetica nella filosofia dell’arte e che comporta il tramonto della bellezza.
In definitiva, pur non potendo citare esaurientemente il contenuto di tutti i contributi degli studiosi per comprensibili limiti di spazio, la presente recensione ha cercato di porre in luce l’orizzonte teorico in cui i tre convegni di Bologna, Padova e Torino hanno collocato gli studi scientifici ed estetici di Goethe.

Indice



Prefazione di Jürgen Barkhoff

Silenzio eloquente e sottile elaborazione letteraria: Goethe e il mesmerismo di Klaus Bergdolt
Il mondo della salute in Goethe di Olaf Breidbach e Maurizio Di Bartolo
“Metamorfosi” e “tipo” in Goethe di Ariane Dröscher
Johann Wolfgang von Goethe e Bonaventura Corti: due metodi scientifici a confronto di Dietrich von Engelhardt
Gli studi scientifici di Goethe nel giudizio delle scienze naturali del XIX secolo di Laurent Van Eynde
La relazione tra essenza ed evento come fulcro del modello scientifico di Goethe di Luca Farulli
L’occhio di Goethe: arte, natura, teoria del colore di Frank Fehrenbach
“…ich fühle und sehe was ihnen fehlt”. Goethe e l’arte del disegno di Gian Franco Frigo
Scienza e filosofia della natura in Goethe di Paola Giacomoni
Goethe e Alexander von Humboldt: morfologia e paesaggio di Fabio Grigenti
Goethe, Schopenhauer e Wittgenstein: i colori e la filosofia di Jean Lacoste
“Il vortice della tendenza spiraliforme” di Ludolf von Mackensen
Luce e buio nella teoria dei colori di Goethe di Maurizio Mamiani
Esperimenti cruciali sui colori: Boyle, Newton e Goethe di Klaus Michael Meyer-Abich
Libertà nella natura: il congeniale spinozismo di Goethe di Francesco Moiso
La percezione del fenomeno originario e la sua descrizione di Giampiero Moretti
Goethe, Hölderlin e l’essenza della poesia. Breve storia di una incomprensione di Michael John Petry
Goethe e l’osso intermascellare nell’uomo di Diego Sànchez Meca
Goethe e la sua concezione epistemologica delle scienze della natura: un metodo per conoscere il significato dei fenomeni di Heinrich Schipperges
Goethe come paziente di Marco Segala
Natura, filosofia, scienza: Goethe, Schopenhauer, Schelling di Ezio Vaccari
Tra Nettunismo e Vulcanismo. Gli studi geologici di Goethe e il Viaggio in Italia di Federico Vercellone

L'autore


Sergio Cremaschi è docente di Filosofia morale all’Università ‘Amedeo Avogadro’ (Vercelli).