Recensione di Davide Sisto - 11/12/2005
Estetica, Filosofia della scienza, Storia della filosofia (romanticismo)
Il presente volume raccoglie gli esiti di tre convegni che si sono tenuti rispettivamente a Bologna, Padova e Torino tra il 1999 e il 2000, riguardanti le relazioni tra scienza, arte e filosofia nel pensiero di Goethe e il conseguente rapporto che il poeta tedesco ha instaurato con scienziati, filosofi, artisti e scrittori della sua epoca. I ricercatori di svariati paesi e di differenti discipline scientifiche che hanno partecipato attivamente ai tre suddetti convegni prendono le mosse dal cosiddetto «biocentrismo goethiano», riconducibile al principio inviolabile dell’unità organica della natura, principio che si traduce nel mirare all’unità e alla totalità sia nella cosa singola sia nell’universo intero, bandendo qualsivoglia rigurgito meccanicistico volto a rappresentare il mondo nei termini di una concatenazione infinita di cause ed effetti.
Come rimarca Gian Franco Frigo (pp. 171-186), l’interesse scientifico e filosofico di Goethe per la natura matura a partire dal soggiorno a Weimar del 1775, per raggiungere il suo culmine speculativo durante il viaggio in Italia. Fin dall’inizio, il poeta tedesco imposta coscientemente la sua indagine naturalistica «in netta opposizione ai procedimenti tipici della scienza moderna, che con l’abbandono delle cause finali e il privilegiamento delle qualità primarie mirava a un’analisi quantitativa dei processi naturali» (p. 174). In particolar modo, il naturalismo goethiano rielabora con originalità le ragioni epigenetiche fatte valere da Wolff contro la preformazione degli organi e acquisisce la nozione di nisus formativus con cui Blumenbach spiegava la facoltà degli organismi ad autoriprodursi. Per Frigo, il metodo che orienta le indagini scientifiche di Goethe «sta nel “vedere” con gli occhi fisici nel fenomeno, che è sempre singolare e molteplice, l’universale, che è sempre astratto e unico, senza passare attraverso l’astrazione che uccide» (p. 180): ciò significa partire da una pre-comprensione che rinvia ad un’armonia originaria tra fenomeno e idea. Proprio a partire da questo assunto, Diego Sànchez Meca (pp. 357-380) coglie alcune analogie tra la morfologia goethiana e la fenomenologia: «entrambi i procedimenti si autocomprendono come descrizione e teorizzazione di un processo fenomenico e come intuizione dell’intellegibile-ideale nel sensibile» (p. 367). Tuttavia, il fenomenismo empirico di Goethe, fondato su una concezione d’impianto qualitativo di tipo organicistico-vitalistico capace di mettere in luce il carattere processuale dei fenomeni naturali, non può coniugarsi con l’idealismo trascendentale; esso ha, infatti, come compito «quello della comprensione della trasformazione dell’identico, cioè quello di cogliere l’eterno nel divenire transitorio delle metamorfosi» (ibid.). E vedere l’eterno nel transitorio non significa vedere in un oggetto dato empiricamente la presenza di un’idea platonica, bensì «cogliere la legge secondo cui una forma si tramuta in un’altra forma, passando per una serie di transizioni intermedie, in qualunque serie o specie di organismi» (ibid.).
L’interpretazione dell’organismo naturale come processualità è il punto di partenza da cui muove l’indagine di Olaf Breidbach e di Maurizio Di Bartolo (pp. 35-55) nei confronti del progetto morfologico di Goethe, il quale esplicita «le potenzialità del concetto di “tipo”, della sua natura teleologica e del suo impiego in un’osservazione attiva delle forme della natura» (p. 36). Per i due studiosi la fecondità del Typus goethiano può essere colta soltanto nel suo profondo intreccio con la metamorfosi naturale, nonché con l’osservazione dei dinamici processi morfogenetici riguardanti le singole forme viventi. Coerente prosecuzione del pensiero di Wolff, soprattutto per quanto concerne l’analisi della Bildung e della Umbildung delle forme naturali organiche, la concezione goethiana, nell’esplicitare i tratti caratteristici di una natura autodeterminantesi, mostra come i diversi organismi non siano altro che gradazioni di un unico tipo di organizzazione vivente. Tali gradini, costituiti e connessi in un plesso funzionale, mettono in luce «una serie sempre più complessa e perciò concorrono a organizzare forme sempre più altamente complesse» (p. 47). Pertanto, lungi dall’appropriarsi arbitrariamente dei prodotti naturali, l’uomo deve adeguarsi alla natura, riconoscendone la vitale libertà e ravvisando la comunanza fondamentale in cui stanno le cose della natura. A fondamento di un tale atteggiamento, profondamente critico nei confronti dei procedimenti scientifici che violano l’equilibrio dei processi organici, Klaus Meyer-Abich (pp. 269-291) scorge il «congeniale spinozismo di Goethe», i cui tratti caratteristici sono un radicale panteismo poggiante sulla distinzione tra le cose della natura e la natura delle cose, l’Anschauung della «natura sempre creatrice» come grado più alto della conoscenza umana e la connessione tra natura e libertà.
Sulla via tracciata dalla morfologia goethiana si pongono Alexander von Humboldt e Schelling, presi in esame rispettivamente da Paola Giacomoni (pp. 187-203) e da Marco Segala (pp. 401-415). Giacomoni pone in luce la vicinanza di Humboldt al pensiero di Goethe nell’ambito della fisiognomica, ove entrambi, applicando un metodo comparativo, superano la caratteristica dialettica interno/esterno teorizzata da Lavater, per studiare invece «quegli elementi che rendono tipico un ambiente e che comunicano con la loro massa, con la loro combinazione tipica, una certa atmosfera» (p. 197), mettendo in risalto strutture oggettive che risultano avere un effetto significativo sul mondo affettivo dell’osservatore. Segala, invece, sottolineando l’ingente ammirazione di Goethe per Schelling, mostra come la Naturphilosophie schellinghiana riesca a collegare lo studio della natura a un sistema filosofico, riconoscendo la natura come «momento centrale e ineludibile per il processo di comprensione filosofica della coscienza» (p. 414).
Tra i più importanti contributi apportati dal Goethe «fenomenista» alla scienza, Francesco Moiso (pp. 293-310) menziona, attraverso il ricorso ad una serie di scritti biologici ed estetici, spesso non poco curiosi, la celebre scoperta dell’Urpflanze, fenomeno originario con cui la natura compie il suo gioco, e nel gioco produce la vita nelle sue molteplici forme. Essa svela l’essenza primaria della metamorfosi naturale, data dall’eterno trascorrere, nella varietà e molteplicità della natura, di alcuni modelli fondamentali che, modificandosi, espandendosi e contraendosi, si ripresentano sempre identici, favorendo la perfetta fisionomia delle manifestazioni empiriche.
Ma la biologia non è l’unico campo scientifico di cui si è occupato Goethe. Nell’ambito dell’osteologia e dell’anatomia comparata Goethe, confrontando le ossa umane e le ossa degli animali, perviene alla scoperta dell’osso intermascellare nell’uomo, le cui conseguenze sono analizzate minuziosamente da Michael John Petry (pp. 325-356); nell’ambito della geologia e della mineralogia, egli dimostra, invece, una marcata propensione per lo studio delle rocce, che lo spinge, come osserva Ezio Vaccari (pp. 417-446), a prendere le parti dei nettunisti, convinti dell’importanza delle acque nel lento processo di formazione di tutte le rocce, contro i vulcanisti, favorevoli ad un’origine ignea di diversi prototipi rocciosi. Non mancano, inoltre, rilevanti testimonianze relative al modo in cui il «Goethe scienziato» è stato accolto dagli ambienti scientifici contemporanei e posteriori: Dietrich von Engelhardt (pp. 69-94) si sofferma sul giudizio espresso dalle scienze naturali del XIX secolo, tenendo conto soprattutto delle opinioni degli scienziati romantici e positivisti, Ariane Dröscher (pp. 57-68), invece, esamina approfonditamente il legame tra Goethe e la scienza italiana, con particolare attenzione per il pensiero di Bonaventura Conti.
L’attenzione riposta dal Goethe post-stürmeriano al divenire infinito della Bildung naturale rappresenta il nodo centrale da cui si dipana il rapporto fra arte e scienza a partire dal soggiorno weimariano. Luca Farulli (pp. 113-126) ripercorre l’evoluzione del percorso intellettuale goethiano, facendo riferimento al diverso modo in cui viene concepito dal poeta tedesco il ruolo dell’occhio umano: dal periodo strasburghese, segnato dalla critica all’occhio come «organo “superficiale” in quanto legato ad una modalità conoscitiva meramente analitica, descrittiva, quando non addirittura replicante» (p. 115), incapace di conseguire il bello vivente della natura, all’esperienza italiana, in cui lo sviluppo della Farbenlehre accompagna la rivalutazione del senso della vista, giacché la trattazione dei colori fisiologici, riversandosi sul piano artistico, evidenzia la capacità dell’occhio di cogliere «il profondo, ovvero la legittimità interna della natura, attraverso il colore in quanto linguaggio della natura nella sua regolata vitalità» (p. 124). Il particolare rapporto che s’instaura tra l’occhio e il colore nella Farbenlehre goethiana è approfondito, in primo luogo, da Ludolf von Mackensen (pp. 247-257) attraverso la disamina della contrapposizione luce/tenebre in cui si esprime la dinamicità feconda della natura onnidiveniente, in secondo luogo, da Maurizio Mamiani (pp. 257-267) mediante un serrato raffronto con le teorie di Boyle e Newton, e, infine, da Fabio Grigenti (p. 205-236), il quale, dopo aver rimesso ordine alla complessa diatriba epistolare tra Goethe e Schopenhauer, non certo priva di fraintendimenti e discordanze, mostra come Wittgenstein sia propenso ad usare il concetto di Urphänomen per definire la nozione di gioco linguistico. «Se il gioco è fenomeno originario, esso è origine che si colloca su un piano diverso da quello occupato dai problemi che improvvisamente sorgono all’atto del suo impiego (…) Il gioco non è una risposta più profonda al problema, ma un movimento verso la superficie che riporta il problema stesso nella sua patria d’origine: la quotidianità dell’uso effettivo del linguaggio» (p. 233). Come l’idea di colore, anche l’idea di gioco «implica una molteplicità pressoché infinita di cose che chiamiamo giochi» (p. 234); come il colore, il gioco «rompe i limiti della forma» (ibid.).
Su un piano prettamente estetico, una delle principali conseguenze della trasposizione del principio morfogenetico dal campo naturale a quello artistico si ritrova in quella rivoluzione ideologica, perpetrata dal preromanticismo e largamente diffusa col romanticismo, che fa della bellezza non tanto la legge o il fine dell’arte, quanto il suo risultato ed esito. Federico Vercellone (pp. 447-466), nel ritratteggiare gli aspetti filosofici che hanno reso l’Ottocento «il grande secolo nel quale il bello non è più bellezza di natura, tanto meno è il bello metafisico ma è bello artistico» (pp. 447), descrive l’affascinante dialogo tra l’idea, la forma e la vita, da cui scaturisce una forma poetica in divenire che, dovendosi aprire verso il vivente per non irrigidirsi su di sé, «è così esposta a un rischio evidente intrinseco alla concezione, che è quasi un ossimoro, di una forma aperta, che deve superare i propri confini» (p. 453). Da qui è possibile scorgere la natura ermeneutica della forma e la conseguente minaccia costante dell’informe, che segna il trapasso dell’estetica nella filosofia dell’arte e che comporta il tramonto della bellezza.
In definitiva, pur non potendo citare esaurientemente il contenuto di tutti i contributi degli studiosi per comprensibili limiti di spazio, la presente recensione ha cercato di porre in luce l’orizzonte teorico in cui i tre convegni di Bologna, Padova e Torino hanno collocato gli studi scientifici ed estetici di Goethe.
Indice
Prefazione di Jürgen Barkhoff
Silenzio eloquente e sottile elaborazione letteraria: Goethe e il mesmerismo di Klaus Bergdolt
Il mondo della salute in Goethe di Olaf Breidbach e Maurizio Di Bartolo
“Metamorfosi” e “tipo” in Goethe di Ariane Dröscher
Johann Wolfgang von Goethe e Bonaventura Corti: due metodi scientifici a confronto di Dietrich von Engelhardt
Gli studi scientifici di Goethe nel giudizio delle scienze naturali del XIX secolo di Laurent Van Eynde
La relazione tra essenza ed evento come fulcro del modello scientifico di Goethe di Luca Farulli
L’occhio di Goethe: arte, natura, teoria del colore di Frank Fehrenbach
“…ich fühle und sehe was ihnen fehlt”. Goethe e l’arte del disegno di Gian Franco Frigo
Scienza e filosofia della natura in Goethe di Paola Giacomoni
Goethe e Alexander von Humboldt: morfologia e paesaggio di Fabio Grigenti
Goethe, Schopenhauer e Wittgenstein: i colori e la filosofia di Jean Lacoste
“Il vortice della tendenza spiraliforme” di Ludolf von Mackensen
Luce e buio nella teoria dei colori di Goethe di Maurizio Mamiani
Esperimenti cruciali sui colori: Boyle, Newton e Goethe di Klaus Michael Meyer-Abich
Libertà nella natura: il congeniale spinozismo di Goethe di Francesco Moiso
La percezione del fenomeno originario e la sua descrizione di Giampiero Moretti
Goethe, Hölderlin e l’essenza della poesia. Breve storia di una incomprensione di Michael John Petry
Goethe e l’osso intermascellare nell’uomo di Diego Sànchez Meca
Goethe e la sua concezione epistemologica delle scienze della natura: un metodo per conoscere il significato dei fenomeni di Heinrich Schipperges
Goethe come paziente di Marco Segala
Natura, filosofia, scienza: Goethe, Schopenhauer, Schelling di Ezio Vaccari
Tra Nettunismo e Vulcanismo. Gli studi geologici di Goethe e il Viaggio in Italia di Federico Vercellone
L'autore
Sergio Cremaschi è docente di Filosofia morale all’Università ‘Amedeo Avogadro’ (Vercelli).
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