giovedì 11 maggio 2006

Vernaglione, Paolo, Un’idea di democrazia. Sfera pubblica, Europa, cooperazione.

Roma, Elabora, 2006, pp. 127, € 15,00.

Recensione di Alessandro Lattarulo – 11/05/2006

Filosofia politica

Paolo Vernaglione si cimenta con la spinosa attualità del tramonto del sistema politico rappresentativo imperniato sulla delega. E affronta la balbuzie democratica inserendola opportunamente nella decennale crisi dello Stato-nazione, sottoposto a una duplice offensiva: dall’alto e dal basso. Processo di erosione della sua assoluta centralità e della intima equivalenza con i regimi democratici noti, che affonda le proprie radici negli ultimi lustri del XX secolo, aggravandosi quando, con lo sfarinamento degli equilibri cristallizzati nel bipolarismo della guerra fredda, la globalizzazione, diventando sinonimo di “american way of life”, perde ogni contrappeso politico, venendo a coincidere con la supremazia del libero mercato, ovviamente assoggettato, ben oltre la retorica ufficiale, alle priorità messe in agenda dalla superpotenza rimasta in piedi, militarmente ed economicamente senza pari al mondo. La permeabilità dei confini dinanzi all’offensiva neoliberista pone in seria discussione la salute degli Stati, naturalmente offrendo l’occasione per il rilancio di prospettive cosmopolitiche destate dal letargo a cui erano state ridotte per anni. E l’Unione Europea si delinea con sempre maggiore chiarezza quale laboratorio per la sperimentazione di modelli istituzionali originali, se analizzati assumendo come territorio di paragone il singolo Stato-nazione. Orizzonte, questo, affrescato assai chiaramente dall’autore, sebbene a prezzo di una ricostruzione storico-politica che soffre di qualche salto logico, di una non sempre ariosamente dispiegata capacità di motivare le proprie posizioni mettendo a frutto il pur ampio bagaglio di riferimenti filosofici e sociologici.

In particolare, nella prima parte del libro Vernaglione ascrive troppo frettolosamente il pensiero di alcuni grandi maestri delle scienze umane contemporanee a “scuole” varie, svilendone, più ancora che l’originalità intellettuale, l’autonomia, le loro posizioni essendo ricondotte, persino oltre le esplicite intenzioni dei protagonisti, a “politiche” lette con sospetto, con ostilità, tralasciando di approfondire – o di imbastire in toto – un’analisi filosoficamente ancorata a una severa diagnostica del loro pensiero (si pensi a come sia stato sorprendentemente obliato il Rawls discusso autore de Il diritto dei popoli).

Probabilmente, a conti fatti, è altresì elusa una necessaria riflessione sull’agibilità di soft modes of governance, suonando tale termine come una vaporosa prospettiva, incapace di offrire spunti per uscire dall’impasse dell’esercizio del potere esecutivo non attraverso soluzioni carismatico-cesaristiche, riduttive del coinvolgimento popolare, bensì mediante la pratica di un potere rizomaticamente orizzontale, non più concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, ma realmente a disposizione di tutti i cittadini. L’urgenza di ripensare l’esercizio dei poteri mediante strategie di coinvolgimento della popolazione viene trattata piuttosto apoditticamente, aggirando alcuni approfondimenti scientificamente robusti, accontentandosi talvolta di petizioni di principio, con l’auspicio di ricostruire una catena di legittimazione del potere politico che, mediante l’articolazione federale degli stati e dell’Europa, tracci la via attraverso cui disinnescare i rischi di un’eccessiva concentrazione monocratica, a vantaggio di uno spazio democratico-costituzionale ripartito tra una pluralità di soggetti interrelati. E, come già accennato, non semplicemente entro l’angusto recinto statual-nazionalistico, ma edificando meccanismi decisionali che, raccogliendo la suggestione di Ingolf Pernice circa la pensabilità di un costituzionalismo multilivello, ponga al centro del dibattito politico odierno l’approdo verso una multi-level democracy, in grado di sfilarsi dal cul de sac rappresentato da un confuso impasto di localismo reattivo, virando in favore di una poderosa inversione di tutti i processi top-down monodirezionali. Tramontata la visione organicistica della società, nonostante retrive resistenze di alcuni settori comunitaristici, la crisi della democrazia, alla cui salute nuoce tremendamente l’elevazione ad alibi per l’imposizione neo-coloniale di un modello di sviluppo fondato sull’approvvigionamento famelico del petrolio, impone, tanto più nel turbolento secolo che si è da poco aperto, di creare laboratori di partecipazione diretta in grado di bypassare la sperimentazione che ne ha decretato il successo, anche per la capacità di garantire libertà e sviluppo economico, nel trentennio d’oro 1945-1975.

A partire dall’insofferenza nei riguardi della gabbia d’acciaio dello stato nazionale, tanto più intollerabile alla luce del proprio essere foriera di sindromi d’arrocco di taglio xenofobo, Vernaglione individua opportunamente nell’Unione Europea la chance per tessere la fitta rete tra le cui maglie cercare di rilanciare prospettive di uguaglianza e di giustizia sociale. Ossia di declinare quei fondamenti dell’idea democratica che, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’incedere della globalizzazione con gli abiti neoliberisti ha destinato nel ripostiglio di una storia in fondo considerata, sulla scia di Fukuyama, finita. L’Europa, sotto tale profilo, nel definire la propria identità, ha l’eccezionale occasione di marcare un’esemplare distanza dagli Stati Uniti, dall’ambiguo liberalismo che ne sta esasperando tratti pur presenti dalle origini, riducendoli a folli architetti di un progetto di omologazione, livellamento delle diversità sotto le mentite spoglie di una sofferta ma inevitabile responsabilità hobbesiana, pregna di un realismo per la cui presunta assenza Kagan stigmatizza violentemente le popolazioni del “vecchio continente”, anche al di là delle contingenti scelte effettuate dai governi che hanno lacerato, con uno smaccato filo-atlantismo, l’unità d’intenti dell’UE. 

Se la novità dell’Europa viene rintracciata da Vernaglione, con il supporto del compianto Norberto Bobbio, in un pacifismo costruito comunque con mezzi politici, opposto all’unilateralismo statunitense da guerra preventiva, è altrettanto doveroso riconoscere che la scommessa del pacifismo istituzionale non è stata ancora vinta, soprattutto perché, ci sentiamo di poter scrivere, la sua proiezione internazionale si scontra roboantemente, anche tra le fila dei movimenti che sono scesi in piazza per contestare l’aggiramento dell’Onu, con quella domestica, con l’agitazione, non di rado strumentalizzata dai mezzi di comunicazione, di spettri del disordine nei cui confronti adottare policies securitarie da “tolleranza zero” incapaci e disinteressate a ragionare sulle radici del disagio, dell’esclusione sociale. L’inseguire su questo terreno gli USA non soltanto predispone a un latente razzismo che trova lievitante traduzione politica in formazioni neofasciste, ma abitua a un etnocentrismo con cui raccogliere tutto l’“Occidente” su un versante ben delineato dello scontro tra civiltà che, onde non essere riprodotto su scala interna, acuisce il dovere di contrarre le prospettive di cittadinanza secondo una lettura marshalliana visibilmente inadatta alla destrutturazione dell’omogeneità culturale della nazione.

Per sottrarre l’Europa al risucchio entro tale vorticoso gorgo, per farne il “qui” dove prenda forma la sovversione della logica mercantile che mercifica saperi e cultura, è necessario un processo costituente che non si accontenti di puntare a un contratto sociale e costituzionale post-nazionale, ma che inclini teleologicamente verso la canalizzazione delle aspettative dei cittadini entro una cornice valoriale la cui attuale assenza ci sembra provocare, ancorché in parte, quel fenomeno di allontanamento dalle sponde della secolarizzazione denunciato dall’autore. Passo indietro, tuttavia, che non può diventare puntello di un’ipotetica identità europea “in negativo”, terreno per il passaggio dei valori, della loro trasvalutazione. Piuttosto, sarebbe da compiersi uno sforzo sinceramente collettivo al fine di interpretare l’erigenda realtà continentale senza denegare le fondamenta classiche su cui poggiare sforzi di composizione delle sue componenti, quanto, viceversa, interpretandone la novità con spirito compiutamente federalistico, secondo il tragitto e pluribus unum. La Costituzione europea non può essere concepita, come Vernaglione stesso lascia intuire, in termini di rinnovato patto in grado di stimolare un novello patriottismo civile senza alcun sostrato statale. Essa va piuttosto intesa come un’opera ampia e sempre in divenire di regolazione di una memoria comune, che tragga dagli insegnamenti del passato la forza per prospettare un futuro di predisposizione al confronto dialogico tra popoli, alla sentita pratica dell’ospitalità.

Indice

La democrazia possibile
In Europa
Strumenti per volare
Bibliografia

L'autore

Paolo Vernaglione è autore di numerosi saggi e articoli su tematiche di filosofia politica. Collabora al quotidiano “il manifesto” e al settimanale “Carta”. Partecipa al Forum per la Democrazia Costituzionale Europea. Ha scritto Il lavoro in epoca post-fordista e Il sovrano, l’altro, la storia.

Nessun commento: