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mercoledì 21 ottobre 2015

Vernaglione, Paolo (a cura di), Michel Foucault. Genealogie del presente

Roma, La talpa-Manifestolibri, 2015, pp. 175, euro 18, ISBN 978-88-7286-797-7.

Recensione di Alessandro Baccarin - 31/03/2015

«Vi faccio una richiesta, una richiesta a fidarvi dell'autore che studiate. Fidarsi dell'autore significa procedere tastando il terreno» (Gilles Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985/1986)/1, Ombre Corte, Verona 2014, p 21). Con queste parole Gilles Deleuze invitava i suoi studenti, nel lontano 1985, ad avvicinarsi al pensiero di Michel Foucault. Una cautela necessaria per un pensiero capace di decostruire ogni punto di appoggio, ogni ancoraggio di comodo, e per intraprendere con lui un viaggio anarchico verso l'innecessità

mercoledì 12 luglio 2006

Vernaglione, Paolo, Il Sovrano. L’Altro. La Storia.

Roma, Manifestolibri, 2006, pp. 183, € 19,00, ISBN 88-7285-411-3

Recensione di Gennaro De Falco -12/07/2006

Filosofia teoretica

Diviso in tre capitoli che affrontano le tre voci che compongono il titolo, il testo di Paolo Vernaglione offre spunti di riflessione molto interessanti ed originali partendo da un profondo studio della letteratura scientifica in merito agli argomenti trattati.

Il primo capitolo affronta il problema dominante della nostra contemporaneità che è quello della globalizzazione in rapporto alla sovranità. L’autore passa in rassegna le teorie che diversi studiosi hanno elaborato in merito, partendo dall’assunto che “le tradizionali categorie con cui si intendono la politica e il suo fare servono sempre meno a definire quella nuova ‹‹cosa›› del potere nata con la globalizzazione”(p. 19). Tale fenomeno è inquadrato dal nostro autore in una situazione di costanti ed improvvise crisi economiche a cui si aggiungono le guerre esportate dai paesi occidentali – in primis gli Stati Uniti – in alcune parti del mondo.

Ripercorrendo a tappe fondamentali l’evoluzione del concetto di sovranità, Vernaglione passa dall’antichità alla modernità che “muta il paradigma della sovranità, rispetto al modo in cui è intesa in epoca antica, identificandone il soggetto nello stato, sia nella forma monarchica, sia in quella della nazione” (p. 27), Hobbes e Locke essendo indicati quali massimi sostenitori della sovranità come presupposto di ogni governo legittimo (pp. 28-32). Continuando la sua analisi, la rivoluzione francese è vista come il momento di passaggio da una sovranità autoreferenziale ad una sovranità popolare: ciò nonostante, il XIX secolo non sembra concretizzare le promesse della rivoluzione in quanto “l’attribuzione di potere allo stato in nome del popolo ha alla base una menzogna” (p. 39). Interprete per eccellenza, oltre l’apparenza, del disagio della classe proletaria nel XIX secolo è Marx: “L’opera di demistificazione dello stato e della politica non impedisce a Marx di riferirsi al proletariato quale classe sovrana, non solo nel territorio nazionale” (p. 39).

Se l’Europa del XIX secolo è dunque attraversata da una lotta di classe e da un’esigenza di tutela sociale dei ceti più deboli, non è questa la situazione negli Stati Uniti d’America dominati già allora dalla ricerca e massimizzazione del profitto: ciò comportò che nel vecchio Continente le misure sociali furono frutto dello Stato e della sua sovranità, mentre in America la costruzione di tali misure “fu in larga parte frutto di un’opera affidata ai singoli cittadini” (p. 44).

E’ interessante analizzare come la situazione delineata per gli Stati Uniti più di un secolo fa si ripeta oggi in Europa: se infatti la globalizzazione comporta un passaggio di poteri ad organismi finanziari e bancari internazionali – tale fatto coincidendo, secondo Vernaglione, “con la dissoluzione invece che con l’arricchimento e l’estensione dei diritti alla molteplicità dei gruppi sociali” (p. 60) e con la sussistenza della sovranità come mera forma – gli unici soggetti che possono combattere e contrastare il progressivo svuotamento dei diritti sono i cittadini stessi; solo la società civile infatti, superando i confini delle nazioni, può unirsi in una lotta solidale contro i mali della globalizzazione tra i quali l’autore analizza quello legato ad una situazione di guerra continua (pp. 64-75) dovuto al fatto che “solo l’emergenza di un’unica potenza è in grado di garantire sicurezza nel mondo” (p. 66).

Questo stato di belligeranza può essere combattuto soltanto da una “diplomazia dal basso, praticata […] da reti sociali, associazioni e Ong”, diplomazia evidentemente costituita da quella società civile di cui sopra si è detto: è doveroso qui citare come esempio di questa diplomazia Rachel Corrie e Thom Hurndall – a cui il libro è dedicato – entrambi morti nel tentativo di opporsi alla distruzione di un’abitazione palestinese.

Il secondo capitolo affronta il problema dell’alterità alla luce della globalizzazione e quindi del mondo contemporaneo: si avverte in queste pagine l’influenza che alcuni scritti di Zygmunt Bauman (a partire dal suo Globalization. The Human Consequences) hanno avuto su Vernaglione il quale infatti avverte che “non i barbari, bensì i clandestini occupano il territorio post-moderno” (p. 93), aggiungendo tra l’altro che “nei cosiddetti paesi di accoglienza i migranti di rado cambiano statuto e condizione sociale e non entrando nello spazio della cittadinanza sono già considerati pericolosi” ( pp. 93-94).

Dato il quadro di fondo, l’autore passa ad analizzare tale problema alla luce di quattro punti: 1) l’Altro e l’Unicità; 2) l’Altro e la relazione sociale; 3) la relazione Io-Tu; 4) la molteplicità dell’altro. Non mancano in queste pagine (pp. 97-117) spunti di riflessione molto interessanti e facilmente calabili nella realtà in cui attualmente si trova l’uomo globale, diffidente e impaurito nei confronti di tutto ciò che da lui è diverso: “Nell’accentuata separazione tra l’io e l’universo posta dalle tecnologie, il resto del mondo è considerato quale rimanenza, scarto” (p. 98).

La paura del singolo individuo purtroppo si riflette nella politica odierna: “In questi anni di crescente e indotto interesse per la sicurezza da parte dei governi, la difficoltà si è velocemente trasformata in paura, che si traduce in bisogno legale di confini, politiche di recinzione e espropriazione dei beni comuni” (p. 111).

Quello che sostiene l’autore e che fa parte di teorie proprie di una folta schiera di sociologi è facilmente verificabile: basta camminare nelle periferie delle grandi città italiane per capire in quale isolamento vivono gli immigrati ed in generale le persone più disagiate, quasi si trattasse di un mondo a sé nel quale si ha paura di entrare perché la sola presenza massiccia di persone di colore, magari vestite in modo diverso dal nostro, disturba. E questo ovviamente non succede solo in Italia: un viaggio a Parigi ed un giro nelle periferie di questa città mi ha fatto capire quanto siano emarginate certe fasce della popolazione che, proprio come dice l’autore del presente testo, sono rassegnate all’impossibilità di migliorare socialmente; l’osservatore attento nota tale rassegnazione già nei modi di fare, nell’abbandonarsi su una panchina o al tavolino di un bar (dove un qualsiasi occidentale bianco inorridirebbe a sedersi) aspettando e subendo il tempo, quasi che rivivessero certi quadri di degrado della Parigi del primo ‘900 che solo la genialità di un grande scrittore come Céline ha saputo rendere nel suo capolavoro Voyage au bout de la nuit.

Non poteva mancare quella che si potrebbe definire la cornice entro cui prende forma lo schizzo abbozzato dall’autore, vale a dire “la storia” – e le filosofie ad essa legate – che occupa infatti il terzo ed ultimo capitolo del libro. Partendo dal periodo in cui “la storia non era prerogativa umana, ed era considerata il modo con cui la natura componeva l’universo disfacendolo” (p. 129), Vernaglione analizza le tappe fondamentali della sua evoluzione nonché i filosofi e gli studiosi che hanno contribuito a tale evoluzione: così essa già cambia prospettiva nel momento in cui diventa una prerogativa dell’uomo quasi egli ne fosse l’artefice senza dunque essere più costretto a subirla (pp. 129-133).

Proseguendo, l’autore si ferma sul periodo dell’Umanesimo durante il quale la storia acquista – anche grazie a Machiavelli – un valore didascalico in quanto è “un modello predittivo” (p. 137) capace di prevedere il futuro valutando gli eventi del passato.

Vernaglione, non esimendosi dall’affrontare filosofi come Vico (pp. 139 sg.) ed Hegel (pp. 145 sg.), ritiene le due guerre mondiali una sorta di frattura irrimediabile nella concezione della storia. Egli infatti scrive: “ciò che si scopre dopo le due guerre mondiali è che la storia non è progressiva, né lineare, né surdeterminata da una struttura […]. Il piano della storia è fatto di eventualità e interpretazione, possibilità e autocoscienza […]” (p. 152). Queste ultime parole usate dall’autore si addicono bene all’attuale globalizzazione le cui origini, per molti studiosi tra cui Danilo Zolo, Antonio Baldassarre, Anthony Giddens, il già citato Zygmunt Bauman, sono da ricondurre appunto alla fine della seconda guerra mondiale.

Se quindi la storia ha perso la sua carica di progressismo e speranza nel miglioramento del futuro in concomitanza con l’indebolimento degli Stati e delle azioni sociali, l’autore offre come contraltare quella che lui definisce una proposta interpretativa (pp. 155-164) che si fonda sulla concezione messianica di Cristo, precisando però che tale figura messianica “non riguarda solo la storia del popolo eletto ma di qualsiasi popolo, che una volta ‹‹chiamato›› entra in una storia differente da quella secolare” (p. 157).

Questo soggetto messianico acquista dunque una funzione ed un ruolo capace di dare un corso diverso agli eventi in un periodo in cui “l’attesa di giustizia è ineludibile” (p. 163). Si profila dunque all’orizzonte l’azione e la forza di un soggetto mondiale il cui cómpito “riguarda la richiesta di diritti fondamentali: alla salute, al cibo, all’ambiente, al reddito, alla pace, alla cosa pubblica […]” (p. 163).

In questa trasformazione dove passato e futuro si annullano a favore di “un tempo ora”, il soggetto mondiale di cui parla Vernaglione dovrebbe avere la capacità e la forza di autorganizzarsi per far valere le proprie ragioni: in questo senso si ritornerebbe a quanto detto nel primo capitolo sul ruolo fondamentale dei cittadini e della società civile in generale – organizzata anche in ONG – per combattere le degenerazioni della globalizzazione, una volta accertata l’incapacità delle istituzioni e della legge a provvedere a tali incombenti bisogni (cfr. p. 164).

Indice

Introduzione
I. PERCHÈ LA SOVRANITÀ?
Sovranità e globalizzazione
La sovranità tramandata
Il futuro della sovranità senza futuro
Nessuno può battere Poliremo
Note
II. L’INESISTENZA DELL’ALTRO
Quale altro?
Trascendenza: primitivi e automi
Un altro al posto mio
Note
III. FILOSOFIE DELLA STORIA
Dalla natura alla storia
Dal passato al futuro
Messianesimo e filosofia della storia. Waltre Benjamin e Jacob Taubes. Una proposta
Note
BIBLIOGRAFIA


L'autore

Paolo Vernaglione, insegnante, ha pubblicato tra l’altro Il lavoro in epoca post-fordista, Kafka e la modernità, Europa e globalizzazione. Collabora al quotidiano ‹‹il manifesto››, al settimanale ‹‹Carta›› e al sito web italiano di filosofia (SWIF).

Bibliografia

Baldassarre, Antonio, Globalizzazione contro democrazia. Roma, editori Laterza, 2002.
Bauman, Zygmunt, Globalization. The Human Consequences. Cambridge, Polity press, 1998. Traduzione di Oliviero Pesce: Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone. Roma, Editori Laterza, 2001.
Céline, Louis-Ferdinand, Voyage au bout de la nuit, Paris, Editions Denoel et Steele, 1932. Traduzione italiana di Ernesto Ferrero: Viaggio al termine della notte. Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2002.
Giddens, Anthony, Runaway World: How Globalization is Reshaping our Lives, New York, Routledge, 1999. Traduzione di Rinaldo Falcioni: Il mondo che cambia : come la globalizzazione ridisegna la nostra vita. Bologna, il Mulino, 2000.

giovedì 11 maggio 2006

Vernaglione, Paolo, Un’idea di democrazia. Sfera pubblica, Europa, cooperazione.

Roma, Elabora, 2006, pp. 127, € 15,00.

Recensione di Alessandro Lattarulo – 11/05/2006

Filosofia politica

Paolo Vernaglione si cimenta con la spinosa attualità del tramonto del sistema politico rappresentativo imperniato sulla delega. E affronta la balbuzie democratica inserendola opportunamente nella decennale crisi dello Stato-nazione, sottoposto a una duplice offensiva: dall’alto e dal basso. Processo di erosione della sua assoluta centralità e della intima equivalenza con i regimi democratici noti, che affonda le proprie radici negli ultimi lustri del XX secolo, aggravandosi quando, con lo sfarinamento degli equilibri cristallizzati nel bipolarismo della guerra fredda, la globalizzazione, diventando sinonimo di “american way of life”, perde ogni contrappeso politico, venendo a coincidere con la supremazia del libero mercato, ovviamente assoggettato, ben oltre la retorica ufficiale, alle priorità messe in agenda dalla superpotenza rimasta in piedi, militarmente ed economicamente senza pari al mondo. La permeabilità dei confini dinanzi all’offensiva neoliberista pone in seria discussione la salute degli Stati, naturalmente offrendo l’occasione per il rilancio di prospettive cosmopolitiche destate dal letargo a cui erano state ridotte per anni. E l’Unione Europea si delinea con sempre maggiore chiarezza quale laboratorio per la sperimentazione di modelli istituzionali originali, se analizzati assumendo come territorio di paragone il singolo Stato-nazione. Orizzonte, questo, affrescato assai chiaramente dall’autore, sebbene a prezzo di una ricostruzione storico-politica che soffre di qualche salto logico, di una non sempre ariosamente dispiegata capacità di motivare le proprie posizioni mettendo a frutto il pur ampio bagaglio di riferimenti filosofici e sociologici.

In particolare, nella prima parte del libro Vernaglione ascrive troppo frettolosamente il pensiero di alcuni grandi maestri delle scienze umane contemporanee a “scuole” varie, svilendone, più ancora che l’originalità intellettuale, l’autonomia, le loro posizioni essendo ricondotte, persino oltre le esplicite intenzioni dei protagonisti, a “politiche” lette con sospetto, con ostilità, tralasciando di approfondire – o di imbastire in toto – un’analisi filosoficamente ancorata a una severa diagnostica del loro pensiero (si pensi a come sia stato sorprendentemente obliato il Rawls discusso autore de Il diritto dei popoli).

Probabilmente, a conti fatti, è altresì elusa una necessaria riflessione sull’agibilità di soft modes of governance, suonando tale termine come una vaporosa prospettiva, incapace di offrire spunti per uscire dall’impasse dell’esercizio del potere esecutivo non attraverso soluzioni carismatico-cesaristiche, riduttive del coinvolgimento popolare, bensì mediante la pratica di un potere rizomaticamente orizzontale, non più concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, ma realmente a disposizione di tutti i cittadini. L’urgenza di ripensare l’esercizio dei poteri mediante strategie di coinvolgimento della popolazione viene trattata piuttosto apoditticamente, aggirando alcuni approfondimenti scientificamente robusti, accontentandosi talvolta di petizioni di principio, con l’auspicio di ricostruire una catena di legittimazione del potere politico che, mediante l’articolazione federale degli stati e dell’Europa, tracci la via attraverso cui disinnescare i rischi di un’eccessiva concentrazione monocratica, a vantaggio di uno spazio democratico-costituzionale ripartito tra una pluralità di soggetti interrelati. E, come già accennato, non semplicemente entro l’angusto recinto statual-nazionalistico, ma edificando meccanismi decisionali che, raccogliendo la suggestione di Ingolf Pernice circa la pensabilità di un costituzionalismo multilivello, ponga al centro del dibattito politico odierno l’approdo verso una multi-level democracy, in grado di sfilarsi dal cul de sac rappresentato da un confuso impasto di localismo reattivo, virando in favore di una poderosa inversione di tutti i processi top-down monodirezionali. Tramontata la visione organicistica della società, nonostante retrive resistenze di alcuni settori comunitaristici, la crisi della democrazia, alla cui salute nuoce tremendamente l’elevazione ad alibi per l’imposizione neo-coloniale di un modello di sviluppo fondato sull’approvvigionamento famelico del petrolio, impone, tanto più nel turbolento secolo che si è da poco aperto, di creare laboratori di partecipazione diretta in grado di bypassare la sperimentazione che ne ha decretato il successo, anche per la capacità di garantire libertà e sviluppo economico, nel trentennio d’oro 1945-1975.

A partire dall’insofferenza nei riguardi della gabbia d’acciaio dello stato nazionale, tanto più intollerabile alla luce del proprio essere foriera di sindromi d’arrocco di taglio xenofobo, Vernaglione individua opportunamente nell’Unione Europea la chance per tessere la fitta rete tra le cui maglie cercare di rilanciare prospettive di uguaglianza e di giustizia sociale. Ossia di declinare quei fondamenti dell’idea democratica che, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’incedere della globalizzazione con gli abiti neoliberisti ha destinato nel ripostiglio di una storia in fondo considerata, sulla scia di Fukuyama, finita. L’Europa, sotto tale profilo, nel definire la propria identità, ha l’eccezionale occasione di marcare un’esemplare distanza dagli Stati Uniti, dall’ambiguo liberalismo che ne sta esasperando tratti pur presenti dalle origini, riducendoli a folli architetti di un progetto di omologazione, livellamento delle diversità sotto le mentite spoglie di una sofferta ma inevitabile responsabilità hobbesiana, pregna di un realismo per la cui presunta assenza Kagan stigmatizza violentemente le popolazioni del “vecchio continente”, anche al di là delle contingenti scelte effettuate dai governi che hanno lacerato, con uno smaccato filo-atlantismo, l’unità d’intenti dell’UE. 

Se la novità dell’Europa viene rintracciata da Vernaglione, con il supporto del compianto Norberto Bobbio, in un pacifismo costruito comunque con mezzi politici, opposto all’unilateralismo statunitense da guerra preventiva, è altrettanto doveroso riconoscere che la scommessa del pacifismo istituzionale non è stata ancora vinta, soprattutto perché, ci sentiamo di poter scrivere, la sua proiezione internazionale si scontra roboantemente, anche tra le fila dei movimenti che sono scesi in piazza per contestare l’aggiramento dell’Onu, con quella domestica, con l’agitazione, non di rado strumentalizzata dai mezzi di comunicazione, di spettri del disordine nei cui confronti adottare policies securitarie da “tolleranza zero” incapaci e disinteressate a ragionare sulle radici del disagio, dell’esclusione sociale. L’inseguire su questo terreno gli USA non soltanto predispone a un latente razzismo che trova lievitante traduzione politica in formazioni neofasciste, ma abitua a un etnocentrismo con cui raccogliere tutto l’“Occidente” su un versante ben delineato dello scontro tra civiltà che, onde non essere riprodotto su scala interna, acuisce il dovere di contrarre le prospettive di cittadinanza secondo una lettura marshalliana visibilmente inadatta alla destrutturazione dell’omogeneità culturale della nazione.

Per sottrarre l’Europa al risucchio entro tale vorticoso gorgo, per farne il “qui” dove prenda forma la sovversione della logica mercantile che mercifica saperi e cultura, è necessario un processo costituente che non si accontenti di puntare a un contratto sociale e costituzionale post-nazionale, ma che inclini teleologicamente verso la canalizzazione delle aspettative dei cittadini entro una cornice valoriale la cui attuale assenza ci sembra provocare, ancorché in parte, quel fenomeno di allontanamento dalle sponde della secolarizzazione denunciato dall’autore. Passo indietro, tuttavia, che non può diventare puntello di un’ipotetica identità europea “in negativo”, terreno per il passaggio dei valori, della loro trasvalutazione. Piuttosto, sarebbe da compiersi uno sforzo sinceramente collettivo al fine di interpretare l’erigenda realtà continentale senza denegare le fondamenta classiche su cui poggiare sforzi di composizione delle sue componenti, quanto, viceversa, interpretandone la novità con spirito compiutamente federalistico, secondo il tragitto e pluribus unum. La Costituzione europea non può essere concepita, come Vernaglione stesso lascia intuire, in termini di rinnovato patto in grado di stimolare un novello patriottismo civile senza alcun sostrato statale. Essa va piuttosto intesa come un’opera ampia e sempre in divenire di regolazione di una memoria comune, che tragga dagli insegnamenti del passato la forza per prospettare un futuro di predisposizione al confronto dialogico tra popoli, alla sentita pratica dell’ospitalità.

Indice

La democrazia possibile
In Europa
Strumenti per volare
Bibliografia

L'autore

Paolo Vernaglione è autore di numerosi saggi e articoli su tematiche di filosofia politica. Collabora al quotidiano “il manifesto” e al settimanale “Carta”. Partecipa al Forum per la Democrazia Costituzionale Europea. Ha scritto Il lavoro in epoca post-fordista e Il sovrano, l’altro, la storia.