domenica 5 novembre 2006

Fabbri, Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/decostruzione.

Milano, Mimesis, 2006, pp. 181, € 16,00, ISBN 88-8483-363-9.

Recensione di Monica Fiorini – 5/11/2006

Storia della filosofia contemporanea

In questo saggio Lorenzo Fabbri affronta il rapporto tra pragmatismo e decostruzione così come si delinea nei testi del filosofo americano Richard Rorty. Per Rorty, Derrida sarebbe riuscito a fare della filosofia una produzione di fantasie che non hanno più la pretesa di essere vere e le avrebbe così indicato una strada capace di portarla infine alla rinuncia a ogni pretesa metafisico-trascendentale liberandola, allo stesso tempo, da ogni velleità di intervento nelle cose del mondo.
Questa duplice riduzione, teorica e politica, questa “doppia privatezza”, che è il punto di partenza problematico del libro, viene innanzitutto analizzata tramite una approfondita lettura dell’interpretazione che Rorty ci offre del pensiero di Derrida.
Il primo capitolo mette in evidenza quali sono gli aspetti e le questioni da cui prende le mosse il filosofo americano e qual è l’idea di filosofia che viene elaborando: una filosofia che non si identifica in una teoria della conoscenza (sulla linea che dai sofisti e da Platone arriva a Hume e Kant) e non cerca più di giustificare la propria pretesa di rispecchiare la struttura profonda del mondo. L’oltrepassamento del suo “presupposto trascendentale” avverrebbe con l’emergere della “teoria ironica” che per Rorty non coincide né con una forma di relativismo né con una forma di realismo. Il teorico ironico sostiene, piuttosto, che l’autorevolezza di certe credenze dipenda dalla loro utilità, dal fatto che per questo motivo non siamo disposti a metterle in questione, mentre altre, troppo distanti da noi, non le prendiamo neppure in considerazione.
Il primo teorico ironico è naturalmente Hegel, il quale sancisce, secondo Rorty, il predominio di un certo vocabolario e il privilegio di un particolare atteggiamento: il fatto di guardare non alle cose, ma ai testi della filosofia inaugurando un genere di scrittura che può essere paragonato alla critica letteraria.
Come mostra bene il secondo paragrafo, e il riferimento rortiano a Harold Bloom, si tratta insomma di giungere alla consapevolezza che la filosofia è solo un genere letterario, uno dei generi letterari della cultura moderna, e che tuttavia rispetto ad altri, il romanzo per esempio con cui condivide le stesse caratteristiche intrinseche (essendo creazione di nuovi mondi e non pura attività mimetica) influisce molto meno sulle idee politiche dell’umanità occidentale, sulle sue utopie e sulle sue speranze.
Il teorico ironico, comunque, proprio perché scrive teorie, ha il torto di continuare a pensare che la propria teoria sia necessaria, sia parte di un destino, come il destino dell’essere e della metafisica per Heidegger. Al contrario l’ironico non-teorico, Proust è il riferimento principale di Rorty, senza arrogarsi alcuna superiore autorità, accetta che qualcuno possa sottrarsi alla sua visione.
Da parte sua Derrida, diversamente da tanti teorici ironici, metterebbe da parte ogni ricerca di un telos, non porrebbe più fine alla deriva dovuta alla sua mancanza di questo termine ultimo, e quella che, osserva Rorty, sembra essere una forma di scarsa «serietà» sarebbe «provocata dal tentativo tremendamente serio di non prendere sul serio le posizioni canoniche con cui la tradizione ci tenta da sempre e in continuazione, per lasciarsi abitare, finalmente, da altre seduzioni» (p. 48).
In conclusione, per Rorty, con Derrida il pensiero arriverebbe infine a un punto estremo della sua lunga marcia «verso la privatizzazione dei mezzi di produzione del mondo» (ibid.) confondendosi ormai con l’autobiografia. Con mossa assolutamente tradizionale, ancorché ribaltata nei suoi presupposti ed esiti, la filosofia viene dunque così ridotta solo a privata letteratura. In questo modo però, ciò che la metafisica giudicava inessenziale (la data, l’ora, il luogo, la lingua in cui un pensiero è stato elaborato, l’umore, il sesso di chi lo ha pensato) resta di fatto inessenziale. Il ragionamento permette, infatti, a Rorty di affermare che nulla di ciò che Derrida – ed eventualmente qualsiasi teorico ironico e decostruzionista come Derrida – dice riguarda le cose, il mondo, l’umanità. Il «presupposto trascendentale» viene messo da parte con un semplice gesto della mano per «occuparsi d’altro», mentre la presenza di un resto trascendentale, di un quasi-trascendentalismo nei testi di Derrida viene interpretato semplicemente come un cedimento alla nostalgia nei confronti del romanzo della metafisica modellato sulla canonizzazione heideggeriana.
L’elemento innovativo della decostruzione al contrario, dal punto di vista di Rorty, consiste nel prescindere da ogni richiamo all’argomentazione e al rigore. È questo aspetto, questa lettura nei termini di una “creazione geniale”, ridotta peraltro, così, al silenzio, o meglio al soliloquio, alla separazione dal mondo, che Fabbri interroga a partire innanzitutto dalla considerazione che si tratti di un gesto solo in apparenza liberale, un gesto che dà alla filosofia la possibilità di dire tutto solo in quanto in realtà la rinchiude in una futile espressione soggettiva che non pretende di affermare alcuna verità. È questo che mostra a partire dal secondo capitolo occupandosi direttamente di due scritti, la Mitologia bianca (1971) e Il monolinguismo dell’altro (1996) che il filosofo americano ritiene, rispettivamente, testimonianze significative di un primo Derrida, ancora contaminato da germi trascendentali, e di un secondo, questa volta pienamente ironico e autobiografico, un bricoleur filosofico che non può fare altro che giocare con i vocabolari che trova intorno a sé. Fabbri ne ricostruisce, invece, con un’analisi attenta – lontana dello «scarso rispetto esegetico» di cui dà prova Rorty – l’intreccio e la continuità per evidenziare soprattutto l’aporeticità costitutiva del pensiero derridiano, che non procede mai per semplici rovesciamenti (dal platonismo alla banalità del quotidiano, dalla filosofia alla letteratura...). La tensione che caratterizza il suo pensiero, nota Fabbri, non va risolta, le due correnti (decostruttiva e quasi-trascendentale, se si può dire così) non vanno mai separate, perché è proprio con un rovesciamento e un semplice oltrepassamento come quello proposto da Rorty che si reintroduce, nelle sue forme tradizionali, ciò che si era bandito, il trascendentale.
«Contaminare la filosofia con quello che essa ha sempre considerato il suo altro non equivale a ridurre la filosofia al suo altro» (p. 75). La decostruzione, intesa come contaminazione originaria, non è un passare-oltre la filosofia, per andare, per esempio, verso la letteratura. Ecco perché Derrida può porre domande simili, ma non identiche a quelle della filosofia trascendentale. E non c’è nulla di più lontano dall’ennesimo tentativo di euforica distruzione cui Fabbri ascrive Rorty del suo procedere aporetico che non permette di scorgere alcun semplice passaggio e obbliga a continue scelte strategiche. Alla consapevolezza dell’impossibilità di finire con la filosofia per farla finita con essa.
In Il monolonguismo dell’altro, testo che dovrebbe essere un esempio di puro autobiografismo, la puntualità, la singolarità del ricordo e dell’esperienza, su cui giustamente Derrida richiama l’attenzione, e con cui contamina il discorso teorico, non è però priva, a sua volta, di contaminazioni con la pubblicità della lingua filosofica; risente di una inerzia della lingua e non può fare a meno di un vocabolario concettuale ereditato. Critica di ogni sogno di purezza, la decostruzione è, dunque, critica della purezza trascendentale come di quella empirica.
Il terzo capitolo è probabilmente il più interessante del libro perché, basandosi sulle premesse di lettura gettate nei primi due tramite un confronto serrato tra i testi, affronta il secondo tipo di privatezza, quello politico, l’interpretazione di Rorty in base alla quale Derrida avrebbe rinunciato a qualsiasi tentativo di unire privato e pubblico. Questa separazione di pubblico e privato in realtà gioca soprattutto, in Rorty, una funzione fondamentale, quella di offrire pari diritto di esistenza a due lingue tuttavia inconciliabili, e che devono restare tali, distinte nella loro purezza: la lingua dell’arte e la lingua della politica. La prima esoterica e creativa, la seconda pubblica e «banalmente» comprensibile. La sua proposta distingue, dunque, il radicalismo privato della filosofia – pienamente accettabile sono se non esce dai suoi confini – e il riformismo cui va dato spazio nella sfera pubblica in nome delle esigenze del buon senso e della necessità di non mettere in crisi le istituzioni esistenti. Con questa mossa Rorty pretende anche di salvare la decostruzione dalle critiche di Habermas, per esempio, che accusa Derrida di neo-conservatorismo; esse perderebbero ogni fondamento di fronte a una pratica che non ha alcuna attinenza con la vita sociale e politica.
Questa pericolosa posizione, che mira a sottrarre a una critica “eccessiva” lo spazio etico-politico, viene criticata da Fabbri in pagine nelle quali viene preso in esame innanzitutto il ruolo, oggi, della filosofia, del fare filosofia e dell’insegnarla, e che ruotano intorno alla domanda: cosa si teme della facoltà di filosofare e di Filosofia come facoltà? (p. 130) Domanda alla quale l’autore dà una risposta tramite il confronto tra le posizioni di Rorty e il modo in cui Derrida discute della Filosofia come istituzione accademica e della filosofia come diritto incondizionato di domandare che si lega, necessariamente, a una certa esperienza del politico. «Il futuro incerto per cui prendere partito – scrive Fabbri parafrasando Derrida – si coltiva proprio attraverso la riattivazione delle promesse non mantenute del passato. La nuova Università verso cui Derrida ci spinge, sarebbe un luogo in cui, pur di non tradire l’etica critica che costituisce il progetto incompiuto dell’insegnamento e della ricerca universitaria, si metterebbe in discussione e si trasformerebbe anche e soprattutto l’idea di sapere in base a cui tale istituzione si è modellata» (p. 144). La decostruzione deve dunque agire sul reale e assumersi la responsabilità del presente. Tanto più che ogni proposta teorica, ricorda Derrida, proprio perché “impura”, si richiama, più o meno esplicitamente, ad un modello politico, un concetto istituzionale e sociale. Si tratta dunque, con lei, di scagliare un “forse” nel cuore del presente. Di sospendere la necessità dell’ora invece di ribadirla, per modificare non ciò che è, ma il modo di essere di ciò che è, l’effettività del reale. Perché sospendere il modo in cui ci poniamo nei confronti del presente, del mondo lo fa apparire nel suo poter-essere altrimenti.
«L’esplosività del forse [...] è ciò che la filosofia ha il compito di salvaguardare. Filosofia rilancia lo spettro di altre forme di comunità e di con-essere: sospende la necessarietà del presente non per progettare [...] ma in vista della creazione di uno spazio in cui l’avvenire si dia come campo di un incondizionato e sperimentale porre in forse ed in questione, dunque in quanto inesorabilmente immerso nel divenire senza direzione della storia» (p. 149)
In conclusione, dalla lettura pragmatista della decostruzione proposta da Rorty emerge che ciò che teme il filosofo americano è che vengano messe in questione le istituzioni del presente per aprirlo a un imprevedibile avvenire non garantito che potrebbe anche essere una catastrofe. Le sue obiezioni nei confronti della decostruzione sono dunque più di natura politica che filosofica. In difesa di una identità non messa in discussione, contro il diffondersi della convinzione della decostruttibilità di qualsiasi posizionamento. Il suo addomesticamento di Derrida, stigmatizzato da Fabbri, cerca di scongiurare il rischio dell’irruzione dell’incalcolabile e dell’imprevedibile che non si può soffocare – né sottostimare – se ci si vuole arrischiare nel terreno del cambiamento non solo di quella Università tanto lontana dal suo “progetto incompiuto”, ma di una democrazia a venire.

Indice

Prologo. La doppia privatezza della decostruzione
La contingenza dell’essere
Derrida, il trascendentale, l’ascetismo teoretico
Di un tono decostruttivo adottato di recente in politica
Bibliografia
Indice dei nomi
Epilogo. Ringraziamenti


L'autore

Lorenzo Fabbri è l’autore di una recente intervista a Jean-Luc Nancy pubblicata da AlternativeOnline 

4 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

R. Rorty considerava con favore gli èsiti personalisti e letterari delle imprese filosofiche di Derrida, èsiti non termini, perché diventava la presenza non la affermazione della filosofia a consistere filosoficamente e, secondo scopo specifico neo-pragmatico, trovando ed incontrando compiutezza e inderogabilità. Mentre Rorty encomiava tali attività di Derrida, retoriche non indifferenti, non tali per filosofica considerazione ma tali filosoficamente (diversamente dalle retoriche di Nietzsche in filosofia), che mutavano filosoficamente chi ne esperiva, come quelle giostre che offrono insensatezza durante il gioco ma al termine di esso lasciando esperienza di un vero significato, ritenne la Decostruzione quale prassi e metodo una inconsistenza: duplicazione di effetti del tempo, cerchio non circolo ermeneutico, secondaria meno efficace filosofia critica, antitradizionalismo incauto od inconsapevole... Niente di tutto ciò era mai sfuggito al prof. Derrida né ai filosofi della Decostruzione, ma questa era per altri tentativo o strumento filosofico o metodo non filosofico o pratica nella filosofia non di essa... Specialmente in America queste evenienze potevano essere sfavorevoli ed erano inopportune, antifilosofiche... Ed in stessa America non trovava compiuto sèguito effettivo la Decostruzione perché le condizioni culturali non ne davano decisivi àditi: tradizioni europee diverse, perdute in "Vecchio" Continente, od altre assolutamente da preservarsi e scrupolosamente; o retaggi già troppo deboli non bisognosi di nessun alleggerimento nelle forme delle memorie culturali ed eredità filosofiche; od impossibilità di scadere in decadenti complicatezze per la ingenuità amercana non europea con l'Europa, o nessun apporto per gli europei americani da rimodellare, modellare, ridurre, mutare. Per quanto La si applicasse, non era con coscienza pragmatica che potevasi. D'altronde a Rorty non pareva opportuno dare tanto credito alla Decostruzione anche in stessa Europa, perché il suo (di Rorty) pensiero filosofico, politico, culturale, la sua considerazione del mondo erano molto e vagamente occidentali, per lui la America essendo solamente tale e la cultura europea presentatasi a lui quale una diplomazia comunicativa, non aveva conosciuto tanta volontà politica europea ed occidentale ed ancor meno tanto volere politico di Europa medesima; dunque ugualmente a tanti intellettuali americani importanti e facoltosi non concedeva tanto credito alle iniziative politiche e culturali indipendenti da comuni intenti occidentali ed anzi occupandosi della attività di J. Derrida per la prima volta e solo susseguentemente aveva potuto individuare con chiarezza una netta identità politica europea. Questo accadeva per necessità di discrezione durante la Guerra Fredda ma anche perché negli eventi di massa e tragici del Ventesimo Secolo i poteri distinti sia americani sia europei, e questi ultimi maggiormente, tendevano ad agire anonimamente.
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(MAURO PASTORE:...)

R. Rorty aveva opportunamente fatto valere il principio universale delle comunicazioni filosofiche ed in particolare la non eccentricità assoluta della scrittura filosofica, la quale egli dunque... p o n e v a... ovvero stabiliva ed accademicamente per riferimento non per accessorio!
Questo significava rapporti attivi e liberi filosoficamente con scienza e tecnica, significava saggezza ed anche salvifica per la rischiosa "epoca della immagine del mondo"... e non significava riduzione della filosofia stessa ad opera! Ma entro la prassi accademica-universitaria europea-italiana questo passava e ancora passa sovente come inosservato, perché la filosofia era strettamente legata alle opere filosofiche, fino a tacerne origini storiche e a trascurare i filosofi detti fisici, da Talete a Parmenide, accomunandone attività di filosofia ed opere filosofiche con la preistoria della prefigurazione ed immaginazione della futura filosofia, dei sapienti greci detti "magi". Ancor oggi resta tale legame e non solo in Italia troppo stretto, ma reso precario da Nietzsche, dal Ritorno agli Antichi (a Parmenide (E. Severino) ed al pensiero non scritto di Platone (G. Reale), ad Eraclito (già S. Kierkegaard) ...). Però la non riduzione ad opera era internamente ad opera particolare proprio riduzione per scopo neopragmatico di evitare il gioco perfido e mortale neopositivista, che riusciva a contrapporre Autori ed Opere di Filosofia rifiutandone le Opere... In tal senso la contromossa dei neopragmatici fu una avventura culturale, non tanto di costoro ma... dei sostenitori della separatezza della cultura scientifica, sostegno non solo teoricamente smentito ma prima ancora praticamente dalla filosofia-letteratura messa 'in campo' e non solo non tanto da Rorty stesso, il quale fu ideologo e capo di sorta di ri-colonizzazione culturale del mondo degli studi abbandonato alle disperazioni delle scienze separate dalle sapienze... per avventura appunto ritrovate ovvero fatte ritrovare!
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(MAURO PASTORE :...)

In Europa v'era molto altro di più e più problematico che in America per i filosofi ed il loro mondo: la violenza delle illusioni era attiva aprioristicamente e fu contrastata da forme di resistenza e non compromissioni ma relazioni. Questo in particolare Derrida lo faceva non quale rètore altramente illuminante ma in qualità di operatore culturale non esterno a stessa filosofia anzi filosofo pure. Chi sa cosa sia una Facoltà di Scienze dei Beni Culturali e quale ne possa essere alienazione senza filosofia, intende; ed intende pure cosa sia una Facoltà di Lettere e Beni Culturali ed il resto che variando non muta quadri e rapporti fondamentali.
In Europa fu il vitalismo filosofico forma di pragmatismo che difese fatalmente esigenze contro pretese ed è neovitalista la difesa europea, ecologica, fatale, attuale, classificabile quale neopragmatismo, contro le nuove perdenti pretese; ciò oltre e ovviamente non contro al solo comune destino filosofico occidentale pragmatico e neopragmatico (da Kant alla filosofia anglosassone ed americana all'utilitarismo di questi ultimissimi tempi — di cui si poteva studiare esistere italiano nelle librerie italiane, valutando gli scaffali, le clientele, gli incontri con universitari; ed io così feci).
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(MAURO PASTORE :...)

Va assolutamente precisato:
Non risulta utile considerazione superficiale dei movimenti pragmatici e neopragmatici e del pragmatismo e neopragmatismo. Essi hanno avviato il filosofare a un divenire pieno, dopo gli inizi oscuri in Grecia e dopo gli sviluppi concomitanti, teologici, teologici-politici, politici, del Medio Evo. Questo divenire in sua autentica identità non esclude sapienze filosofiche, non ne contraddice; per questo bisogna capirne tutta la serietà, stare in guardia da riflessioni che su prassi e 'pragma' non hanno voluto soffermarsi a riflettere con opportunità storica e che dunque non sanno fare critiche a riguardo ma solo interpretazioni critiche inconcludenti.

MAURO PASTORE