mercoledì 20 dicembre 2006

Buttarelli, Anna Rosa (a cura di), La passività. Un tema filosofico-politico in María Zambrano.

Milano, Bruno Mondatori, 2006, pp. 182, € 18,00.

Recensione di Stefano Santasilia - 20/12/2006

Filosofia teoretica

Il testo, curato da Annarosa Buttarelli, ha come tema la questione della passività nell’opera di María Zambrano e si connota come una molteplice lettura di tale problematica esposta secondo un ventaglio di possibilità. Queste si articolano in modo da non costituire solo uno sguardo teoretico ed ermeneutico di carattere filosofico ma, in alcuni casi, una comprensione di tale connotazione dal punto di vista biografico. Il volume raccoglie gli atti del convegno, tenutosi presso l’Università degli Studi di Verona verso la fine del 2004, che ha avuto, appunto, come tema quello della ruolo della passività nel pensiero zambraniano, presentandosi come una ricca esposizione del pensiero zambraniano e della passività come suo asse centrale, sebbene in alcuni punti l’interpretazione possa apparire un po’ troppo “femminile” (nel senso in cui la caratterizzazione del pensiero viene ascritta alla femminilità come carattere determinante).

Come ricorda la Buttarelli, sin dall’introduzione, la scelta di tale tema non ha una motivazione squisitamente teoretica o casuale: la passività si propone come tema centrale nella riflessione della Zambrano e allo stesso tempo ci indica una possibile risposta all’angoscia generata dal “vivere nel nostro tempo”. Lo scopo del volume, a parere della curatrice, è dunque quello di ridare dignità a tale tema che sta ormai “guadagnando terreno” anche in altri campi, quale per esempio quello fenomenologico. L’apprendere ad essere “correttamente passivi”, cosa che la Zambrano ha mostrato nel suo itinerario biografico, è l’unica possibilità per non essere sovrastati da una passività nella quale siamo addirittura incapaci di patire (p. 2), e che per questo ci provoca angoscia e depressione. Tale incapacità si traduce nell’impossibilità di riscattare la nostra stessa esistenza. «María Zambrano è la grande pensatrice che ha saputo salvare la passività», collocandola all’origine del pensare e del vivere autentico, restituendo al patire «la dignità di passione prioritaria e costitutiva dell’essere umano» (p. 3). La passività viene, dunque, considerata come fonte dell’attività, il che mostra la necessità di «imparare a patire per imparare ad agire» (p. 5). La proposta che accomuna i saggi contenuti in questo volume è, dunque, quella di rivolgere lo sguardo alla riflessione zambraniana, ripartendo da essa, per imparare a patire e riconoscere un sentire che è primum rispetto al conoscere.

In base a tale suggerimento (che allo stesso tempo è suggestione), i saggi, che costituiscono l’opera in questione, possono essere considerati e ripartiti, secondo il loro contenuto, in due classi: quelli che trattano della questione della passività dandone una lettura generale a partire dall’opera della pensatrice spagnola, e quelli in cui l’autore tenta l’analisi di un momento particolare della produzione zambraniana rilevando in tale parte la centralità della “dimensione passiva”.

Alla prima classe appartiene il saggio di Elena Laurenzi, che apre il volume, e nel quale si pone il problema della libertà nel suo essere legato alla passività. Riconoscendo la libertà come paradosso (in quanto sempre condizionata) (p. 15), l’autrice mostra come attraverso le proprie scelte di vita María Zambrano abbia sempre mostrato una profonda fede nella libertà, senza misconoscere il “patire attivo” che in essa si cela (p. 18). In tale patire, l’uomo deve imparare a “patire il tempo” affinché interiormente possa dare vita a quello che poi si manifesterà come azione. Attraverso l’analisi di figure femminili quali Antigone ed Eloisa, che percepiscono la vita come un “oscuro patire”, la Zambrano delinea una concezione dell’azione autentica dispiegatesi come un “sostenere” la propria passione per tutta la vita. La Laurenzi mostra come la pensatrice spagnola, ribaltando schemi concettuali precostituiti, porti alla luce una concezione della vita come “passione”, che è quindi allo stesso tempo azione. L’essere passione dell’esistenza, fa sì che essa non possa mai tradursi completamente in teoria o ideologia. La libertà, dunque, come rivelatrice del patire che soggiace ad ogni azione e che è esso stesso “sostenere”, si manifesta come la “forma delle forme dell’umano” (p. 19). L’uomo, però, non è mai libertà assoluta, ma sempre condizionata, o meglio “incarnata”; incarnazione nella quale si manifesta il perenne anelito ad andare oltre i propri limiti, riconoscendo che il proprio essere si radica nella necessità. La vita umana, si attualizza, come «tensione tra necessità e speranza, tra la gravità che ci tiene vincolati a ciò che esiste e la speranza che è ansia di superamento» (p. 25). Tale tensione mostra il rapporto della libertà con la storia, per la quale «la condizione ontologica della libertà si traduce in una dimensione tragica che la vede necessariamente coniugata alla passione» (p. 27). Come nota la Laurenzi, la libertà zambraniana è, dunque, “passione del mondo”: gettatezza e vocazione, che ci rendono unici e ci impongono di non eludere il compito di vivere.

La lettura della passività come condizione dell’essere libero, la indica come la fonte dell’umano agire, e quindi anche del filosofare. Di questo si interessa Luigina Mortari nel suo saggio sulla passività come metodo. A partire dalla riflessione sull’uomo, come essere avente un preciso posto nel cosmo, María Zambrano considera la vita umana come un “farsi”. Analizzando come, da tale questione, derivi quella del metodo, Mortari propone una lettura dell’opera zambraniana come distanziamento radicale da quella che si può definire la “ricerca della verità extratemporale” (p. 102). Il metodo deve permettere di fare filosofia in maniera aderente all’esistenza nel suo svolgersi. A partire da Platone, il metodo si è andato sviluppando come uno “sguardo innaturale sulle cose”, contrario alla vita, e Cartesio «per il quale il metodo non è che un esercizio della mente, non fa che esasperare questa lontananza dal mondo» (p. 103). Tale di stanziamento provoca il chiudersi su se stessa, da parte della ragione. Si tratta di una “violenza teoretica” che produce un’alienazione definita dalla Zambrano con l’espressione “entrare in ragione”. A tale logica autoreferenziale, la Zambrano oppone il principio dell’“entrare in realtà”, ovvero ridare voce anche a quella realtà che la violenza della mente aveva zittito: il cuore. La Mortari nota come tale metodo si dispieghi come manifestazione di un peculiare “realismo” amoroso”, unica possibilità di effettuare un sapere “vivificante e vivo”. Entrare nella realtà significa riprendere contatto con l’umana condizione; per questo motivo, tale metodo «è essenziale per cogliere quella verità capace di rischiare la vita» (p. 104). Solo il pensiero che si lascia condizionare dal corpo, dal cuore, e dalla mente può conoscere la vita umana e il suo dispiegarsi. Il criterio di un tale metodo consisterà nel mantenersi, il più possibile, aderenti alle cose attraverso un atteggiamento di continua “circumnavigazione del reale”. Un “girare attorno alle cose” (p. 106) che sostituisce la “penetrazione del reale” con una lettura-contemplazione che non manipoli il mondo: «strano movimento, dunque, questo girare attorno, che non solo è un muoversi sempre su una circonferenza che si mantiene a rispettosa distanza dall’oggetto, ma addirittura si porta sempre più all’esterno fino a sfumare nell’orizzonte» (p. 107). Tale sfumare comporta un riposizionamento dell’io che non può più concepirsi come centro della realtà. Il conoscere diviene, dunque, attenzione (p. 108) e passività (p. 111), laddove quest’ultima consiste nell’apprendere quell’ascolto del reale che solo può svelarcelo: «quando ti trovi nel bosco fitto dei problemi per i quali non c’è ancora una risposta, Cartesio suggerisce di camminare il più diritto possibile in una certa direzione, che una volta scelta non va cambiata; (…) Zambrano, invece, evita ogni modo affrettato, non sente alcuna ansia del trovarsi nella penombra del bosco e suggerisce di stare “senza progettare tragitti, senza inciampi, né contorsioni”» (p. 113).

Un metodo che non concede possibilità ad una filosofia sistematica. Questo l’argomento centrale dell'ultimo dei saggi che possiamo ascrivere a quella che abbiamo definito la prima classe, nel quale Oscar Adán mostra il pensiero della filosofa spagnola come un “transito” nel quale non si dà spazio alla dialettica, intesa come violenza. A partire dal confrontarsi della Zambrano con i testi di Platone, si va delineando la distanza della pensatrice da quella filosofia che manca di rispetto (p. 122). Seguendo l’interpretazione che la Zambrano dà del mito platonico della caverna, cogliendo il filosofare come “estasi fallita a causa di uno strappo”, Adán riporta l’attenzione sulla questione del sacro come possibilità di cogliere il vincolo che lega l’uomo alla realtà. Il mondo, prima della nascita della filosofia, era percepito come il sacro. Percezione spezzata dall’irrompere di una ragione che attua una “violenza della verità”, segnando una modalità del rapporto tra uomo e mondo: il desiderio di possesso, «desiderio, potere e violenza si trovano alla base del logos a partire da Platone» (p. 125). Tale violenza, espressa dal concetto, è quello che la Zambrano mette in dubbio proponendo un sentire originario che non sia segnato da quella hybris che nasce da «movimento della ragione di per sé, distaccata ormai già da tutto» (p. 129). Espressione di tale sentire è quella forma di amore che si incarna nella contemplazione del reale.

Tale contemplazione non si dà, se non a partire dal verbo come logos incarnato. Questo il tema del saggio di Silvano Zucal, nel quale la questione della passività viene letta attraverso la lente del “verbo” come parola accolta nelle proprie viscere. Così, María Zambrano è colei che ha saputo accoglierlo, che lo ha ascoltato e «con-respirato, in una “passività” attiva» (p. 58). Tale logos non è quello trionfante che non conosce la condizione umana e che dall’alto si impone con “violenza”, ma quello del «verbo che si nasconde», appunto, nella passività accogliente (p. 59). Al di là della passività come atteggiamento personale, tale logos manifesta una passività riguardante la parola stessa, e che ne caratterizza la sua autenticità come parola della vita. Nel suo costituirsi come ratio discorsiva, la parola filosofica si è allontanata dalla vita, la quale è ancora presente in quel dire che non è concetto ma che permette di concepire (p. 60). Solo attraverso un atto essenziale di auto-svuotamento si può permettere alla verbo di sorgere dal fondo della nostra esistenza. Tale condizione esige il crollo dell’ego-latria, così caratteristica della filosofia occidentale moderna. Il disfarsi dell’io è iniziazione alla passività che permette di ritrovare la “parola perduta”, parola della vita che si mostra come “verbo dell’amore” (di qui il riferimento a Cristo), nel quale tutte le altre parole si inverano. Zucal sottolinea come l’opera della Zambrano inviti a un nuovo imparare a parlare che, necessariamente, deve partire da un “autentico” balbettio, voce di chi ha «deposto volutamente ogni onnipotenza del logos» (p. 66). La parola accolta nella passività, rintracciata attraverso sentieri mistici, richiede un atteggiamento di pudore in quanto epifania della parola originaria (p. 73). Essa è parola ormai perduta per quella filosofia che non sa ascoltare, ma parola iniziale, rivelata nella passività, che permette un’autentica costruzione di relazioni umane: «libera dal narcisismo autoprotezionistico del soggetto, priva di ogni protezione solipsistica, potrà finalmente “dire qualcosa e [soprattutto] dirla a qualcuno”» (p. 77). Tale saggio fa da cerniera tra le due tipologie contenute in tale volume, mostrandosi come epilogo necessario di un dire alternativo e soglia di quelle analisi che prendono il loro avvio dal rivolgersi di questo dire al particolare.

A tale “rivolgersi” fa riferimento l’intervento di Chiara Zamboni, che mette in evidenza la domanda, presente in tutto l’itinerario speculativo della pensatrice spagnola, riguardante il sogno e la veglia. Focalizzando l’attenzione su tale questione, Zambrano non fa altro che inserirsi in una tradizione, quella spagnola, che da sempre si interessava a tale questione, nella quale confluivano anche gli apporti del mistico raccontare. È in questa storia, “altra” rispetto al racconto della ragione, che la Zambrano si radica per dare il via alla sua riflessione (p. 35). Attraverso un’autentica fenomenologia del sogno, la Zambrano mostra la passività come tratto distintivo del sognare. Passività che si connota come «condizione paradossale per la quale non è l’io a sognare il mio sogno, ma è il sogno a sognare il mio io» (p. 36). Il sogno si manifesta come il momento in cui colgo quel residuo di vita originaria, di cui sono minimamente consapevole ma che non posso manipolare. Vita spontanea che sgorga dall’anima, ma che viene da essa trascinata (p. 37). Nel sogno siamo chiamati all’accoglienza di ciò che non conosciamo, oppure al tralasciarlo: «l’essere porta con sé, in quanto sogno l’enigma della rivelazione e l’indizio di una vocazione, di un destino». Il sogno è la garanzia che l’essere è eccedenza (p. 39). Tale eccedere ed ecceder-ci dell’essere, attraverso il sogno, riapre al questione della trascendenza come autentico dimensione dell’umano, a patto che l’uomo sia disposto ad accogliere tale “passività”. Una passività rivelatrice dell’oltre, che la Zamboni analizza confrontando l’interpretazione zambraniana del sogno, con quella di Simone Weil. Tale comparazione mette in risalto la peculiarità che nella riflessione della pensatrice spagnola assume la passività, come rivelazione di una vita “autentica”.

Altra analisi della concretezza attraverso la quale si manifesta la parola della vita è quella di Rosa Rius Gatell, riguardante l’allegria e il dolore come poli della dimensione emotiva dell’uomo. La questione dell’allegria e del dolore tocca qualcosa che va oltre la mera emozione. A partire dal testo Alegría y dolor, la Gatell mostra come la Zambrano concepisca questi due sentimenti «criteri di giudizio capaci di donarci sapienza» (p. 84), in quanto esigono una ragione capace di pensare l’essere umano nella sua integrità. Entrambi, allegria e dolore, fanno parte della condizione umana, che è passività ricettrice. Essi si mostrano, dunque, come dimore «dove accade sempre qualcosa di essenziale» (p. 87). In queste dimore avviene una trasformazione “educativa”, che ci permette di riconoscere la “rinascita” che segue l’attraversamento cosciente di ogni dolore, rinascita che si manifesta soprattutto con i tratti dell’allegria (p. 89). Seguendo il dipanarsi del discorso zambraniano attraverso altre due opere (Note di un metodo e L’uomo e il divino), siamo condotti alla scoperta dell’allegria come ciò che intensifica le nostre forze (p. 90) in una vita che sempre è connotata dal dolore, letto attraverso gli eventi particolari della morte (come sottrarsi ai nostri occhi della persona stessa) e della malattia. Riguardo tali dimensioni dell’umano esistere, la Gatell mette in atto un dialogo tra la pensatrice spagnola e il pensiero tragico di Nietzsche, mostrando come la prima fosse riuscita ad accogliere, nella sua scrittura, anche la lezione nietszcheana e, in maniera estremamente peculiare, anche la concezione spinoziana dell’allegria come passaggio ad una maggiore perfezione (p. 95). Così, «la parola adeguata per definire chi ha attraversato queste dimore, secondo Zambrano, è iniziato», in quanto dolore e allegria permettono di “soffrire un’iniziazione” alla profondità dell’umana vita.

Alla malattia è dedicato anche il saggio di Wanda Tommasi. Qui, l’analisi del vuoto creato dallo stato di malessere, permette di osservare come la riflessione della Zambrano si delinei sempre come l’attraversamento di un vuoto, di un deserto, all’interno del quale già si percepisce la possibilità di una “rinascita”. Il vuoto si manifesta come “lacerante” apertura di un nuovo orizzonte che in quando tale è “dono”, «rivelazione che è possibile riscattare la passività risvegliandola» (p. 160). La passività, dunque, non è “totalmente passiva”, o meglio non lo è quando è assunta. A partire da disfare realizzantesi nella malattia, preludio di una nuova esistenza, la Tommasi si sposta poi ad analizzare la questione dell’esilio, come momento in cui si mostra in maniera evidente la possibilità del “risvegliare la passività” (p. 162). Anche l’esilio, proprio nell’essere questa possibilità, è dono: apertura di un orizzonte nel quale ogni uomo si riconosce come esiliato rispetto alla patria originaria, e per questo mosso a vivere autenticamente la sua ricerca. Ricerca che si realizza attraverso separazione e sacrificio, tentando di coltivare quelle radici della speranza che, come mostra chiaramente nel suo saggio Riccardo Panettoni ripercorrendo in maniera agile il pensiero zambraniano, solo può essere «ponte fra il deserto dell’anima e la riapertura del senso» (p. 166). La speranza è possibilità del senso e il senso è luce gettata sulla realtà, ma questa luce non si incarna nella violenza del concetto, bensì nella penombra dei “chiari del bosco”. Il pensiero, dunque, come mostra Rossella Prezzo, è per Zambrano un “saper guardare”, «conoscenza che si ottiene solo patendo e compatendo; che si fa nel sentire, il patire la verità della vita prima che si presenti» (p. 176). Per questo, nel suo saggio, Javier Ruiz, amico personale di María Zambrano, può affermare che l’opera della filosofa è come un tracciato, un sentiero dell’ascolto, lungo il quale tutte le cose sono disposte come in «una sorta di partitura» (p. 53). Un ascolto che non è luce accecante, ma “limpido intravedere” nella penombra dell’esistenza.

Indice

Introduzione
Il paradosso della libertà. Note su libertà e passione in María Zambrano (Elena Laurenzi)
Le vie ambigue della passività nella forma del sogno (Chiara Zamboni)
Il sentiero dell’ascolto (Javier Ruiz Sierra)
La passività del Verbo (Silvano Zucal)
Dell’allegria e del dolore in María Zambrano (Rosa Rius Gatell)
Verso un metodo della passività (Luigina Mortari)
Passività o sistema. María Zambrano e la violenza (Oscar Adán)
Il patimento della separazione e le leggi del sacrificio (Riccardo Panattoni)
Il dono della malattia e dell’esilio: il riscatto della passività (Wanda Tommasi)
Nel labirinto della luce (Rossella Prezzo)


La curatrice

Annarosa Buttarelli fa parte della Comunità filosofica Diotima dell'Università di Verona, presso la quale collabora con il Dipartimento di Filosofia. Alla filosofa spagnola Maria Zambrano ha precedentemente dedicato il saggio Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti (Bruno Mondadori, Milano 2004). Impegnata nel pensiero e nella politica della differenza, sta curando, insieme con Luisa Muraro e Liliana Rampello, il volume Duemilaeuna. Donne che cambiano l'Italia (Pratiche). Ha pubblicato recentemente, con Laura Boella, Per amore di altro. L'empatia a partire da Edith Stein (Cortina, 2000).

Links

Sito di filosofia in lingua spagnola e ispanoamericana.

Sito della Fondazione María Zambrano

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