martedì 19 dicembre 2006

Mansfield, Harvey, Virilità. Il ritorno di una virtù perduta.

Milano, Rizzoli, 2006, pp. 359, € 19,00, 88-17-01446-X.

Recensione di Enrico Biale - 19/12/2006

In questo testo Harvey Mansfield, professore di filosofia politica presso la facoltà di Harvard, tenta, attraverso l’analisi del pensiero di filosofi quali Platone ed Aristotele e letterati come Omero o Hemingway, di analizzare e difendere una virtù, a suo parere, dimenticata: la virilità.
La virilità è per definizione una virtù maschile ed ha quindi subito negli ultimi anni (dall’affermazione del femminismo in avanti, secondo Mansfield) profonde critiche da parte dei teorici di una società non sessista. Questi ultimi non possono infatti accettare alcun elemento che sia sessualmente connotato; che demarchi un’essenziale differenza tra i sessi: uomini e donne sono uguali (o meglio ancora indifferenziati) ed affermare il contrario è frutto di un pregiudizio che deve essere smascherato. La virilità inoltre spinge gli uomini a comportarsi in modo violento ed irrazionale non riconoscendo alcun diritto a chi non la possiede. Meglio quindi sbarazzarsene escludendola dal dibattito pubblico.
A parere di Mansfield questo è un errore concettuale e politico commesso dai teorici della società non sessista a causa del proprio pregiudizio sull’assoluta indifferenza tra uomini e donne.
Uomini e donne sono diversi e non solo a livello fisico. Mansfield cita una serie di studi empirici che analizzano le interazioni tra soggetti mostrando come gli uomini tendono ad imporsi con più facilità, ad asserire con più frequenza mentre le donne sono più relazionali, attente al contesto ed equilibrate. Tali differenze verrebbero spiegate proprio dalla virilità, la quale non solo non deve essere confusa con la cieca violenza ma risulta essere il miglior modo per difendersi da quest’ultima (ecco la sua utilità politica). Gli uomini virili sono spinti ad affermare se stessi e le proprie ragioni di fronte ad un pubblico; gli altri sono visti come un uditorio davanti al quale bisogna imporsi piuttosto che come qualcuno con cui dialogare. Tali caratteristiche sono fondamentali in un ambito politico concepito da Mansfield come terreno di scontro, dove è necessario possedere la forza e non aver paura di utilizzarla.
A sostegno delle proprie tesi Mansfield cita Platone ed Aristotele ma ricorda anche come Locke, padre del liberalismo moderno, pur riconoscendo a tutti pari diritti, ponesse al centro del corretto funzionamento dello Stato una virile società civile in grado di vigilare ed intervenire con fermezza nei momenti di maggiore difficoltà. Senza la virilità, ripete Mansfield, il liberalismo è vuoto e non può affrontare i momenti di grande difficoltà come quelli che stiamo vivendo ora (Twin Towers e terrorismo internazionale).
Le tesi di Mansfield mi sembrano molto problematiche non tanto per la loro scorrettezza politica quanto per la loro inconsistenza concettuale. L’analisi dei testi filosofici è parziale, fondata su interpretazioni faziose e superficiali; più convincente risulta lo studio delle opere letterarie che però non possono, in quanto finzione, giustificare la forte rivalutazione della virilità voluta da Mansfield. Al fine di rafforzare la propria posizione l’autore fa quindi spesso ricorso ad una serie di luoghi comuni, sostenendo per esempio, a conferma della diversità uomo/donna, che «oltre ad essere più deboli degli uomini i corpi femminili sono fatti per attrarre e soddisfare gli uomini. Questi dati di fatto [corsivo mio] non possono che influenzare l’autonomia delle donne» (p. 202). Quest’ultima verrebbe anche minata dal fatto che «alle donne piacciono ancora molto le faccende domestiche, il cambio dei pannolini, e anche gli uomini virili» (p. 30).
Virilità più che una seria indagine filosofica mi sembra un pamphlet politico fondato più sulla persuasione che sulla ragione. Per comprenderlo appieno mi pare necessario capire quale sia il suo vero obiettivo polemico; potrebbe sembrare strano che un tale apparato retorico venga messo in campo contro un movimento, come quello femminista, ormai minoranza sia a livello politico che concettuale. Non si deve però dimenticare, e non lo fa Mansfield che lo ricorda spesso all’interno del testo, che alcune delle istanze del femminismo sono state accolte all’interno del liberalismo di matrice egualitaria. Questo è il vero obiettivo polemico di Mansfield il quale, ponendo al centro della scena (sarebbe meglio dire lotta) politica la virilità, mette in dubbio che i problemi, quelli seri, possano essere risolti dalla ragione strumentale e dal dialogo: strumenti tipici delle democrazie liberali. È tanto chiaro che il femminismo sia solo un uomo di paglia che nell’ultimo capitolo l’autore sostiene come i veri nemici dei gentiluomini virili non siano le femministe radicali quanto piuttosto i professionisti: coloro che di fronte al pericolo si mettono a fare conti e non sguainano immediatamente la spada. A parziale difesa del liberalismo mi sembra opportuno ricordare come anche in guerra possa essere utile ragionare e non partire immediatamente all’attacco; raggiungere un compromesso piuttosto che voler vincere a tutti i costi la battaglia. In ambito politico, inteso non solo come lotta ma anche come spazio comune e condiviso, è necessario valutare pregi e difetti delle azioni attuate a seconda degli effetti che queste hanno sulla vita degli altri individui, del pubblico. Considerando quindi non solo quello che la virilità è (decisione, assertività, forza…) ma anche quello che non è (ragione, ponderazione, attenzione verso gli altri) bisognerebbe chiedersi se sia meglio essere guidati da dei professionisti che valutano le conseguenze delle proprie azioni oppure da una serie di gentiluomini che vedono negli altri un pubblico di fronte al quale affermare la propria forza.

Indice

Prefazione
La neutralità di genere
La virilità come stereotipo
Assertività virile
Nichilismo virile
Nichilismo femminile
Il liberale virile
La virtù virile
Conclusione. La virilità disoccupata


L'autore

Harvey Mansfield studia ed insegna filosofia politica all’Università di Harvard. Ha scritto saggi sul pensiero di Edmund Burke e la natura dei partiti politici, Niccolò Machiavelli e l’invenzione del governo indiretto. E’ stato uno dei primi a sostenere la necessità di utilizzare le categorie della scienza politica nello studio delle opere costituzionali.

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