mercoledì 20 dicembre 2006

Ermini, Flavio (a cura di), Il racconto ulteriore. Ovvero, il gesto narrativo del filosofo.

Bergamo, Moretti e Vitali, 2006, pp. 136, € 18,00, ISBN 88-7186-393-3.

Recensione di Rosa Lanzafame – 20/12/2006

Estetica

La proposta che questo libro presenta al pubblico consiste nel riportare in auge, per la ricerca filosofica, l’attualità del gesto narrativo. Con un’implicita sollecitazione né impropria, se si osserva, come invita a fare il curatore Flavio Ermini, che le fondamenta dei più svariati edifici teoretici tradiscono segni, indelebili come fossili, di una storica provenienza del sapere “fondato sul logos e sul dibattere intersoggettivo” (p. 10) da un precedente, arcaico, sapere narrativo di miti e storie popolari; né inattuale, se si considera che, nella nostra contemporaneità, discorso scientifico e prassi politica hanno sospeso quel “logos dell’anima” (ivi) cui mirava il passaggio epocale dall’antica sapienza alla nuova forma del theorein. E tuttavia di impegnativa realizzazione. Giacché il ritorno al gesto narrativo da parte del filosofo esige una rinuncia a quadri rassicuranti di facili certezze per disporsi all’ascolto, lungo la via che a ritroso si appresta all’origine meravigliosa delle cose, del senso perduto.
L’idea che percorre l’antologia è, infatti, che solo qui, presso le cose, al limitare del dire poetico, vichianamente “inaugurale rispetto al discorso” (p. 14), le parole del racconto possono restituire la drammatica tensione di un’esistenza umana contrita in una finitezza inaggirabile e al contempo inesauribilmente propensa a compiersi nella libertà del gesto creatore di senso e azione. È in questa “volontà di cogliere ancora una volta la pienezza della vita” (p. 18) che il racconto è ulteriore. Di fronte al paesaggio odierno di una ragione che “annette territori sempre più estesi” (p. 12) al dominio del suo calcolo funzionale – di cui è proto-immagine la cinquecentesca cosmografia in copertina –, di fronte ai profili, oramai consueti, del “volto meduseo della tecnica” e del “muro di condizionamenti” (ivi) in cui veniamo a trovarci, il gesto narrativo s’impegna a declinare il mondo secondo le modalità del possibile per dischiudere nuovi significati da interpretare e attraversa la “terra desolata” (p. 12) di una quotidianità meccanicamente auto-alimementantesi per fare ritorno “verso quel punto indicibile in cui sapere e creazione produttiva si trovano in una connessione scambievole” (p. 16).
Che ogni racconto delinei un percorso era un dato noto alla sapienza poetica greca, per la quale, ricorda Ermini, racconto (oíme) e via (oîmos) avevano la stessa radice; ma affermare che oggi “occorre narrare per percorrere quel cammino che è ricerca di verità” (p. 17) è il dato di lucida consapevolezza contemporanea che questo libro offre al lettore. Solo con la maturazione, storica, dell’attuale pervasività del linguaggio denotatore e della sua volontà causale, contrapporre la forza disvelante del linguaggio apofantico (che “promette un senso più lontano di ciò che è pensato, antecedente all’intelligibilità”, ivi) ha lo spessore di una presa di posizione insieme teoretica ed etica: “Voce di una dinamica aperta e di un vuoto pulsante” (p. 20). In un reperto indiviso di codice logico emozionale e immaginativo, i dodici interventi procedono all’analisi di questioni radicali del nostro tempo, offrendo con una “concretezza costruttiva” (p. 13) il messaggio propositivo di una speranza di riscatto dell’‘uomo funzionale’ nell’autenticità di una seconda nascita.
Nessuna facile risoluzione però, come avverte lo spiazzante interrogativo inaugurale di Yves Bonnefoy: “Cosa posso saperne?” (p. 27). Al lettore non resta che indossare l’abito della cornice narrativa, consegnatagli non per arbitrio stilistico ma per accedere a scenari di luoghi e personaggi immaginari e nello spazio della loro radura presagire il respiro dell’Inizio. Come “acqua dove ciò che è sembra offrirsi una seconda volta ma oramai solo di riflesso, con poco tremolio nella forma che si dislava nei giochi di luce e ombre” (p. 28), la forza evocativa del racconto vuole restituire il sottrarsi, nell’immagine, del silenzio primordiale a ogni tentativo di dire l’origine della condizione umana mediante parole nate con essa: “Una diffrazione misteriosa si fa gioco di noi, si vede la nostra mano irresistibilmente scartata dall’oggetto del nostro desiderio” (ivi). Sotto il segno di questo drammatico scarto al cuore dell’esperienza umana, si svolge anche l’intervento di Félix Duque. In esso viene raccontata la parabola di una umanità che, nel suo affaccendarsi a plasmare un mondo antropocentrico, ha sfumato la possibilità di conoscere se stessa (“Le porte dell’origine sono rotte, scardinate” p. 33), e preparato il suo destino di assedio nella solitudine di una luce fredda “che acceca la notte” (p. 29). Il racconto annuncia il consumarsi del miracolo dell’‘avere-coscienza’ nell’esplosione in frammenti della divisione a essa costitutiva, e al contempo, assente che solo passando attraverso l’esilio in una terra senza distinzioni né confini l’uomo può risalire alla profondità della sua esperienza e incontrarvi la sua identità di singolo e di condivisione. Come nel viaggio indicibile di Philippe Lacoue-Labarthe: attraverso una “vasta pianura” (p. 35) di smarrimento frammisto a nostalgia del tutto ricorsivamente in direzione di una spersonalizzazione, nel cui fondo ogni deserto si converte in orizzonte – lascia pensare quando scrive: “Era ormai evidente che non sarebbe finita lì, che non ci sarebbe stato ritorno, che bisognava ricominciare...” (p. 37). Ma il racconto non si arresta a recitare l’indicibilità dello scacco dell’esistenza, radicata in un’abissale divisione, lasciando poi a qualche proposizione logica il compito di occultare quest’impossibilità costitutiva. Bensì, s’impegna a trasfigurarla in una soglia di forme meravigliosamente espressive. Ne dà esempio l’immagine, “di un’alterità sognata e inesistente” (p. 42), dell’arcangelo nella narrazione di Antonio Prete. Armonica perfezione, atto e azione che, mentre decide di distrarsi dalla sua beatitudine “nel divenire e consumarsi della materia” (p. 39) per patire insieme all’umanità l’inesorabile “scarto tra il desiderio e l’azione, tra il sogno e l’esperienza” (p. 41), prepara la comprensione della “sua stessa dissipazione” (p. 42), metafora dell’esistenza.
In questo senso, nel racconto la celebrazione di un afasico inizio si trasforma nel limitare della “luce del consistere” (p. 46) che si espande nello spazio aurorale della mancanza e invita il lettore a riflettere sull’apparire vibrante delle cose. “Una cosa che è come è, che solo quello, è. Bellissima” (p. 54), echeggia il sogno di una rumorosa piazza italiana in un passo di Roberta De Monticelli. Appare chiaro, allora, il richiamo a un movimento di faustiana memoria, la Discesa alle Madri, il discendere alla radice delle esperienze, al loro stato nascente, all’incompiuto, per liberare ciò che in esse è prigioniero. Nello scenario fantastico di una città, Ginevra, in cui l’Idea di Stato si fa corpo visibile accanto al discorso che la evoca, la De Monticelli può così acutamente osservare che le idee sono “lontane dalle cose: eppure senza Idee non vivono, le cose” (ivi) e, al contempo, ammonire con amaro presagio, quanto “ammainare le Idee e distruggere le cose sia un tutt’uno” (p. 49). Come a dire che ignorare la voragine originaria che si para innanzi all’astrazione del pensiero contro i suoi tentativi di afferrare la vita e risolverla nelle sue connessioni, significa rinunciare alla vita o, secondo l’immagine di Andrea Tagliapietra, cadere nel pozzo come il protofilosofo mentre contemplava “la sfavillante e rigorosa intelligibilità degli astri” (p. 56), specchio ideale dell’atto del pensare. Non peraltro, si chiede Tagliapietra, cosa rimane “quando il mosaico bizantino della logica si disgrega e va in pezzi o, come assai più frequente, non riesce neppure a formarsi” (p. 57), se non il gesto del racconto a salvare le circostanze e a dare loro voce nuova? Le parole di una trama. Che accolgono le sollecitazioni profonde dell’animo, e, nel corrisponderle, le trasformano in tessuto narrativo. A riprova della forza euristica di questo procedere, dal profondo verso la superficie, accorrono anche l’esperienza teatrale e letteraria di Sergio Givone, messe a disposizione del lettore con una similitudine dal tono autobiografico: come sono i fili delle marionette a trasmettere alla mano del marionettista impulsi sui loro movimenti futuri, così sono le parole nella loro evenienza a guidare lo svolgimento di ogni racconto.
A questo punto, osservato che solo un legame vivo con la trascendenza, con un’afasica aurora dell’esistenza, porta il racconto ulteriore alle radici dell’esperienza, si può forse dire che la verità di ogni narrazione consista nel recitare ripetitivo di un’assenza d’Inizio? “‘C’era una volta un re; chiamò un paggio e gli disse: raccontami una storia, e il paggio cominciò: c’era una volta un re; chiamò un paggio e gli disse: raccontami una storia, e il paggio cominciò...’” (p. 71), ricorda ironicamente al lettore Carlo Sini per svelare la ‘virtuosità’ del circolo in cui si svolge la finzione narrativa. Secondo il suo suggerimento, nella cornice del racconto l’istantaneità di ogni cominciamento è il tramite espressivo di una pratica precedente che lo comprende e sostiene, ossia di quell’interazione di narratore e ascoltatore che riattiva il senso di ciò che è stato, ma che non c’è più, “con l’intesa che c’è stato così come lo si racconta” (p. 70). In una prospettiva analoga si apre la meditazione diaristica di Jean-Luc Nancy, che con una rilettura della Creazione viene a riproporre l’enigma del primo giorno: esso non c’è mai stato, “poiché il tempo non gli preesisteva o non gli preesiste” (p. 75), e purtuttavia rinnova la sua nascita a ogni sorgere del sole. Tra le annotazioni quotidiane del suo diario, però, la persistenza cadenzata del procedere del tempo (come “un eterno ritorno”, p. 77) rivela drammaticamente anche il suo rovescio, la cifra di lacerazione che ogni giorno porta con sé nascendo nella “spartizione della luce e delle tenebre” (p. 79) e riversa sulle distanze di luoghi e tempi, sullo sbriciolarsi del quotidiano, sull’estraniarsi del corpo umano all’occhio medico.
Il senso non-intimo, ma radicale ed epocale dei contributi di questo libro emerge con decisione dalla plasticità con la quale le tematiche trattate non si risolvono che in ulteriori risvolti. L’ambivalente sospensione del dies, attesa di distinzione e definizione, scivola in un’ombra senza corpo, come la verità, che trascorre ogni giorno nella ricerca di definizione di se stessa nel racconto di Massimo Donà; per riemergere nelle quattro figure scolpite su legno di Matisse, ove l’artista sperimenta la possibilità di sottrarre “anche se stesso, il suo lavoro di sottrazione” (p. 116), per giungere poi a specchiarsi nella desolata Città degli Immortali sospesa tra terra e cielo, di cui scrive Vincenzo Vitiello. Si può pertanto leggere l’aspirazione del racconto ulteriore nell’impegno di offrire uno spazio in cui coltivare il valore dell’esistenza umana come evento e storia, in alternativa alla quotidianità spersonalizzata e frammentata di una “cultura centrata sull’autoriferimento rappresentativo e sull’imposizione tecnica propria di una volontà di potenza” (p. 109, Aldo Giorgio Gargani) caratteristica dell’uomo occidentale. Accogliere, però, quest’aspirazione a partire dalle sue possibili derivazioni dal nutrito terreno delle filosofie novecentesche, avrebbe il limite di non restituire pienamente l’intenzionale distrarsi dall’impianto teoretico dell’argomentare filosofico che s’incontra in questo libro. La sua comprensione appare piuttosto inevitabilmente legata allo spessore etico di uno sforzo di espressione che è risposta a un bisogno, assunzione di responsabilità, relazione con altri: “Noi raccontiamo nella nostra scrittura le vicissitudini di una passione etica che richiede il coraggio di una nuova via e il sacrificio di quello che eravamo stati” (p. 100).

Indice

Un’esperienza di verità. Prefazione di Flavio Ermini
Una variante per la cacciata dal giardino di Yves Bonnefoy
La luce che acceca la notte di Félix Duque
Allusione a un inizio di Philippe lacoue-Labarthe
Tre storie sul tempo e sull’apparenza di Antonio Prete
Un amore a Ginevra di Roberta De Monticelli
La risata di Spinoza di Andrea Tagliapietra
Il marionettista di Sergio Givone
Il bambino e il re di Carlo Sini
Diario di Jean-Luc Nancy
Il lamento dell’erranza di Massimo Donà
La vita scritta di Aldo Giorgio Gargani
Le finzioni della memoria di Vincenzo Vitiello


Il curatore

Flavio Ermini, poeta e saggista, nasce a Verona dove lavora in campo editoriale. Impegnato presso la Moretti & Vitali e la Cierre Grafica, dirige la rivista di ricerca letteraria “Antarem” e fa parte del comitato scientifico delle riviste “Osiris”, “Panoptikon” e “Testuale”. Tra le sue opere più recenti di poesia ricordiamo Poema n. 10. Tra pensiero (Roma 2001), e di saggistica Il moto apparente del sole (Bergamo 2006) e Antiterra (Genova 2006).

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