lunedì 4 dicembre 2006

Montaigne, Michel de, Della vanità.

Trad. it. di C. Colletta, Napoli, Filema, 2006, pp. 131, € 8,00, ISBN 8886358911.

Recensione di Luigi Marfè – 4/12/2006

Estetica, Etica

Il mito di Atalanta racconta che, per liberarsi dalla folla dei suoi pretendenti, la principessa stabilisce che si concederà al primo che saprà batterla in una gara di corsa. Tra i tanti che si presentano alla prova, Ippomene rimane così impressionato dall’agilità di Atalanta da chiedere soccorso ad Afrodite. Esaudendo la sua preghiera, la dea gli fornisce tre mele d’oro. Durante la corsa, appena sente avvicinarsi la fanciulla, Ippomene lascia cadere una delle mele. At­tratta dalla loro lucentezza, ogni volta Atalanta si ferma a raccoglierle e, quando riparte, Ippomene è di nuovo lontano. Come sempre, la tradizione del mito non si lascia stringere in una sola versione e lascia aperte almeno due possibili conclusioni: c’è infatti chi dice che l’espediente delle mele consenta a Ippomene di arrivare primo e conquistare Atalanta e chi invece sostiene che il traguardo resti sempre all’orizzonte e i due innamorati si inseguano ancora oggi, senza riuscire a prendersi. Riprendendo il racconto dalle Metamorfosi di Ovidio, Michel de Montaigne cita la storia di Atalanta e Ippomene in uno dei più importanti tra i suoi Essais, quello dedicato al tema del diversivo. Tra i tanti significati del mito, c’è anche un’allegoria della scrittura. Il grande merito letterario di Montaigne è l’invenzione della forma saggio, che egli costruisce mescolando la riflessione filosofica con l’autobiografia. L’emblema che meglio rappresenta questo genere è proprio la corsa di Ippomene: il saggista è infatti colui che si lascia inseguire dai lettori correndo da un argomento all’altro e facendo perdere le proprie tracce con espedienti sempre nuovi e sorprendenti.
Come sostiene Theodor W. Adorno nelle Noten zur Literatur, il carattere fondamentale del genere saggio è proprio la divagazione. Diversamente dal trattato filosofico, invece di impelagarsi in una sterile e infinita ricerca dei fondamenti, la forma saggio si fortifica nei testi della tradizione, che commenta e corregge con l’esperienza biografica di chi scrive. In questo senso, essa si distingue anche dalla letteratura, poiché la sua invenzione non parte dal nulla, ma giunge sempre seconda rispetto ai testi da cui prende le mosse. I suoi concetti, tuttavia, brillano della luce di un termi­nus ad quem che le rimane sconosciuto e non invece di un manifesto terminus a quo. È qui che il suo metodo esprime un’intenzione utopi­stica. Il saggista reclama il diritto all’equivoco e alla leggerezza; la sua scrittura è anti-sistematica e costantemente in divenire: egli non tiene nessuna idea per definitiva, ma è ricettivo e pronto a lasciarsi contaminare dalle influenze più disparate. Il saggio si ribella contro l’antica ingiustizia subita da ciò che è caduco e, in virtù del suo carattere frammentario e ca­suale, annuncia la totalità del non totale. Siccome pone l’accento sul particolare e sull’effimero, il suo sguardo è sempre demistificante. Il principio che ne informa la poetica è la convinzione della serietà della quisquilia: la scommessa cioè che il suo accesso ibrido e impuro alla filosofia conservi tuttavia una portata morale e conoscitiva.
È proprio nell’ambito di questo discorso che va valutata l’operazione della casa editrice Filema di ripubblicare uno dei capitoli più lunghi degli Essais, quello Della vanità, cui la nuova traduzione di Cesare Colletta assicura precisione filologica e ricchezza stilistica. In questo saggio, il senso dato alla parola vanità è quello biblico (vanitas vanitatum omnia vanitas). La tradizione cui si rifà Montaigne non è tuttavia il Quoelet, ma piuttosto quella erasmiana dell’elogio della follia. La celebrazione della vanità investe sia il punto di vista poetico che quello etico. Nel definire i suoi saggi “escrementi di uno spirito vecchio ora duro, ora molle, sempre indigesto” (p. 17), Montaigne difende per la prima volta nella storia della letteratura moderna il diritto all’esistenza della forma saggio. Ma la sua riflessione cela una portata filosofica più ampia, poiché nella vanità scorge un componente ineludibile dell’identità: “Se gli altri si guardassero attentamente, come faccio io, si troverebbero, come me, pieni di vanità e di stupidaggine – nota infatti con grande acutezza psicologica – disfarmene non posso senza disfare me stesso. Ne siamo tutti impregnati, gli uni e gli altri; ma quelli che se ne accorgono ne sono un po’ più esenti, ma non ne sono certo” (p. 135).
Le immagini che nel corso del saggio si caricano con maggiore frequenza di significati meta-letterari sono legate al tema del viaggio. La poetica della forma saggio impone infatti di “procedere con la penna come con i piedi” (p. 110) e di condurre l’argomentazione come un viaggio senza alcun percorso preciso, né dritto né curvo, con la regola di tornare indietro ogni volta che scopre di aver tralasciato di descrivere qualcosa di importante. Montaigne non sviluppa il confronto tra la natura itinerante della scrittura e le possibilità narrative del viaggio in termini astratti, ma lo connota in chiave personale, caricandolo dei significati che entrambe le dimensioni hanno assunto durante la sua vita. Viaggiare è la massima espressione della vanità. Diversamente da quanto negli stessi anni viene teorizzato da Richard Burton o nella Praga di Rodolfo II, tuttavia, per Montaigne il viaggio non è mai la fuga da una melanconia intesa come condizione ontologica dell’uomo. Più semplicemente, il viaggio è liberazione dalla noia del quotidiano e dagli impedimenti della conduzione della casa. La possibilità di scoprire gli usi e costumi di nuovi popoli implica di per se stessa una disconnessione che mette in relativo i propri. Come per Galileo, anche per Montaigne il discorrere è come il correre. I caratteri comuni alla forma saggio e al viaggio sono infatti la mancanza di una destinazione precisa e il piacere della divagazione in quanto tale: un viaggio “non lo comincio né per tornare né per portarlo a termine, lo faccio solo per muovermi e finché il movimento mi piace. Passeggio per passeggiare. Chi corre dietro a un beneficio o dietro a una lepre non corre; corre chi fa la corsa a ostacoli e per esercitarsi nella corsa” (p. 82). Gli strumenti che concorrono a rendere convincente l’argomentazione di Montaigne sono soprattutto la molteplicità e l’improvvisazione. Della vanità è un viaggio testuale in cui si succedono senza soluzione di continuità aneddoti, citazioni classiche e riflessioni morali. Nel giro di poche pagine, la sua scrittura è capace di affastellare nella mente del lettore impagabili descrizioni del rapporto del signore con i servi, delle noie del ménage familiare e della ripetitività del dovere coniugale, dei vuoti della memoria e della conseguente paura di parlare in pubblico, del piacere di fare favori e del peso di riceverne, della lontananza e della forza dell’immaginazione. La confusione degli argomenti è riscattata dal piacere e dalla sorpresa che sanno destare nel lettore. La vocazione della sua prosa va scorta nel gusto per la decorazione. Montaigne è insomma uno di quegli autori che scrive sempre lo stesso libro, cesellando le proprie argomentazioni con nuovi esempi e citazioni. In questo senso, egli è il maestro di una linea saggistica del corposo e del concreto, polifonica e divagante, che ha trai suoi eredi Denis Diderot, Charles Lamb, José Ortega y Gasset, Paul Valéry, Mario Praz e molti altri ancora.
La sensibilità contemporanea guarda al discorso morale di Montaigne in maniera ambivalente. Da una parte, le appare ormai lontana l’opinione mutuata dalla filosofia antica secondo la quale la felicità è in primo luogo assenza di dolore. D’altronde, assolutamente consonante con essa sono sia l’insoddisfazione di Montaigne per la dimensione politica che la sua descrizione di una virtù fatta di pieghe, angoli e gomitoli. Per smascherare e sovvertire le certezze di ogni ipocrisia della virtù astratta, alla forza demistificante della sua scrittura bastano piccole note di comportamento come questa: “Dallo stesso foglio su cui ha appena scritto la sentenza di condanna contro un adultero, il giudice strappa un pezzetto per farne un bigliettino alla moglie del suo collega” (p. 106). Come ha notato giustamente Cesare Colletta, il riferimento prediletto di Montaigne non è lo stoicismo, ma l’invito di matrice socratica alla perplessità sistematica e al conoscere se stessi.
La scommessa in una salvezza che venga da quanto nel mondo c’è di più effimero e vano fa venire in mente uno dei Raccontini e Scorciatoie di Umberto Saba, dedicato al vecchio traduttore di Montaigne, Sergio Solmi. Incapace di interrompere il filo dei propri pensieri, Solmi era un cattivo accompagnatore, poiché finiva sempre per far arrivare in ritardo o prendere la strada sbagliata. Saba racconta di quando, arrestato dai nazifascisti, chiese dopo poco dove fosse il gabinetto della prigione e, condottovi da una sentinella, all’uscita non la trovò più. Solmi si incamminò per ritornare da solo in cella, ma prese ancora una volta la strada sbagliata, ritrovandosi, senza volerlo, all’uscita. “E adesso che cosa gli dirò io, ap­pena potrò riabbracciarlo?”, – si domanda Saba, – “gli rimprovererò ancora la sua mancanza di senso d’orientamento? O gli dirò che, alcune volte, i nostri difetti – come l’angelo custode – ci conducono per mano?” (U. Saba, Scorciatoie e raccontini, 62, Milano, Mondadori, 1946, p. 54).

Indice

Prefazione di Cesare Colletta

Della Vanità

L'autore

Michel Eyquem de Montaigne è il più importante scrittore e filosofo francese del XVI secolo. Il merito dei suoi Essais è quello di aver inventato la forma saggio legando il discorso filosofico con l’autobiografia. Tra le sue altre opere, va ricordato almeno il Journal de voyage in Italia.

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