venerdì 12 gennaio 2007

Ciancio, Claudio, Del male e di Dio.

Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 136, € 12,00, ISBN 8837221215.

Recensione di Davide Sisto - 12/01/2007

Filosofia della religione, Teologia, Ermeneutica, Esistenzialismo.

Nella relazione Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, presentata nel febbraio 1986 al convegno Dove va – se va – la filosofia italiana? svoltosi a Saint-Vincent, Luigi Pareyson palesava il proprio stupore per il fatto che “nell’immediato dopoguerra abbiano avuto grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, mentre l’umanità stava appena uscendo dall’abisso del male e del dolore in cui era precipitata” (L. Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in Essere libertà ambiguità, a cura di F. Tomatis, Milano, Mursia, 1998, p. 15); pareva, in particolar modo, inammissibile al filosofo esistenzialista torinese che la filosofia del dopoguerra tentasse esplicitamente di occultare quelle diaboliche manifestazioni dell’efferatezza umana culminanti nell’Olocausto, perdendo tempo in questioni di lana caprina o, ancor peggio, cimentandosi futilmente con passatempi linguistici non certo determinanti per le sorti culturali e sociali dell’Occidente. Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki non sono, infatti, soltanto prove tangibili dell’angoscioso insuccesso di qualsivoglia tendenza filoilluministica volta all’ottimismo nel progresso tecnologico e scientifico della modernità, ma anche inquietanti sintomi della radicalità del male nel mondo, la cui scandalosa presenza non ha fatto altro che rendere ancor più drammaticamente attuali termini quali disillusione e spaesamento.
Con il presente Del male e di Dio, Claudio Ciancio, nel portare avanti gli insegnamenti del maestro Pareyson, sulla scia di una filosofia della libertà intesa come pensiero tragico ed ermeneutica dell’esperienza religiosa, ripropone il problema della possibile compatibilità fra esistenza di Dio e realtà del male, cercando di trascendere la radicata tendenza occidentale di attenuare, o addirittura rimuovere, quell’incoercibile e demoniaca energia malvagia che impronta ineluttabilmente il creato, pietra d’inciampo che la filosofia non può permettersi di aggirare o ignorare.
La prima parte dell’opera si pone il compito di enucleare le principali “strategie di difesa e anche di immunizzazione dal male” (p. 7) che l’universo culturale da sempre fornisce all’umanità, in modo da “approntare una spiegazione rassicurante o consolante o liberante, da offrire un rifugio di fronte al male che assedia l’esistenza umana” (p. 8). Se l’arte classica tende ad estetizzare l’esperienza del male, sottraendo “la realtà caduca al flusso distruttore del tempo e al non senso” (ibid.) e privando il tò kakòn della sua intrinseca e malefica irragionevolezza mediante rappresentazioni artistiche volte ad una quieta sublimazione dei contrasti, e se alcune diffuse correnti religiose della contemporaneità perseverano in una consolante mitigazione delle sofferenze terrene derivanti dall’ineludibile certezza della morte, è la filosofia ad essere “il luogo della più decisa rimozione o giustificazione del male” (p. 14). Due sono sostanzialmente le strategie immunizzanti avanzate dalla filosofia: la prima – di stampo cosmico-fatalistico e ampiamente frequente nel pensiero greco – pensa il male “come lo stesso prodursi del mondo, come il prodursi delle cose particolari e dei singoli uomini attraverso un distacco dall’unità originaria” (p. 18), di modo che il negativo altro non sia che “condizione di un bene superiore” (ibid.). La seconda, invece, riconducibile prevalentemente al razionalismo metafisico di Hegel, lungi dal negare il male, lo riconosce come “reale opposizione, ma tale opposizione è resa del tutto funzionale alla realizzazione dell’assoluto” (ibid.); ne consegue una risoluta razionalizzazione del negativo, condizione fondamentale della piena manifestazione di Dio.
Tenuto conto delle preziose testimonianze offerte da Kant e da Schelling riguardo ad un riconoscimento autentico del problema del male, le quali risultano senza dubbio determinanti per le successive posizioni filosofiche di Kierkegaard e Dostoevskij, Ciancio s’accinge ad affrontare la pars costruens del suo saggio, intendendo dimostrare, attraverso un richiamo tutt’altro che velato alla tautegoricità del linguaggio mitico – cioè al contenuto originario di verità insito nel concetto di mito – e all’interpretazione cristiana del tragico, che la salvezza dal male non può fare a meno che implicare una drastica accentuazione delle contraddizioni in esso insite.
Lungi dall’essere banalmente ricondotto nel tunnel del mero errore o della sofferenza come naturale vicenda della vita, il male va pensato, nella sua traboccante e inarrestabile infinità e universalità, come colpa e peccato, realtà che investe l’intero ordine dell’essere: “solo come peccato il male si presenta come contraddizione infinita, come rovina profonda e irreparabile, come ciò che è ma non doveva essere, formula con la quale si esprime il carattere ontologico ma negativo del male, l’essere del non essere: in virtù di tale carattere il male è attiva potenza di distruzione e non può trovare una soddisfacente mediazione con l’essere” (p. 39). Esasperando e radicalizzando il male come essere che in nessun modo doveva essere ma che, per un uso perverso della libertà, è divenuto reale, è possibile trovare quell’unica via che paradossalmente ci avvicina a Dio, giacché nella sua negatività assoluta sono insiti i segni dell’onnipotenza divina, la quale, congiunta a bontà e generosità, ha reso Dio volontariamente impotente, in modo che la sua creatura più importante (l’uomo) godesse di un tal libero arbitrio, da poter addirittura ribellarsi e farsi indipendente dal suo stesso Padre creatore. Ciancio pare convinto che non vi sia indizio più certo della divinità che la realtà stessa del male: “la condizione dell’uomo – osserva il pensatore piemontese – è tragica non perché misera, ma piuttosto perché misera e grande insieme. La grandezza sta nella sua capacità di elevarsi alla verità e al bene (attraverso la grazia), di ricostituire l’unità di infinito e finito spezzata dal peccato; ma questa grandezza non cancella la miseria, anzi la fa risaltare ancora di più” (p. 95). Dietro il tragico come paradossale “impossibilità possibile” della mediazione tra finito e infinito, s’impongono l’Abramo kierkegaardiano, esposto al rischio doloroso ed eticamente ingiustificabile della fede, la cui profonda tragicità “consiste nel fatto che proprio ciò che procura la salvezza spalanca un baratro in cui ci si può perdere” (p. 98), e Alësa e Dmitrij Karamazov, che Dostoevskij contrappone all’ateismo di Ivan, in quanto assumono volontariamente su di sé la sofferenza; “la redenzione a cui conduce questa assunzione non è una semplice conciliazione, perché è prodotta a prezzo di una sofferenza ingiustamente distribuita” (p. 99). L’uomo ha, pertanto, il dovere di non cercare, nella sua vita, effimere vie di fuga dalla sofferenza, ma piuttosto d’intraprendere quell’angoscioso cammino del dolore, necessario per il riconoscimento dell’alterità assoluta, nell’orizzonte della quale soltanto può essere pensata la salvezza e una futura gioia sempiterna, come insegna, d’altronde, Schelling nella sua ultima stagione speculativa.

Indice

Strategie di rimozione del male 
Rimozione e riconoscimento del male nel pensiero contemporaneo 
Forme e dimensioni del male 
La sofferenza 
Cristianesimo tragico 
Il male come “prova” dell’esistenza di Dio


L'autore

Claudio Ciancio insegna filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale ed è Direttore del “Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson” di Torino. Fra i suoi lavori ricordiamo: Friedrich Schlegel. Crisi della filosofia e rivelazione (Mursia 1984), Cartesio o Pascal? Un dialogo sulla modernità (con U. Perone, Rosenberg & Sellier 1995) e Il paradosso della verità (Rosenberg & Sellier 1999).

3 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Recensore attribuiva sensi che derivano da convenzioni linguistiche culturali, di cui si riconosce concezione panteista popolare, che della civiltà cattolica invertiva i significati e le necessità: chiesa e salvezza trasformati in salvezza già ottenuta in luoghi di rito, che in verità corrispondevano ad esenzioni di doveri sociali nazionali culturali e sfruttamento di chi ne svolgeva ed anche a impossessamento di edifici e documenti ed oggetti cristiani unito ad invasione di e con cose non cristiane in comunità religiose non solo cristiane; tutto ciò per supposizione, che visione tragica della vita ed impegno affinché il tragico sia annullato o limitato in dramma fossero pensamenti di deboli ed intrusi cui destinare i guai del destino: anche da ciò l'insistenza a far usar e ad abusar di crocifissi al posto di Croce, fino a provocar con indebite consuetudini nelle scuole sentenza di Magistratura che, del tentativo di elevare a simbolicità nella religione ciò che era segno di non comprensione accettato non accolto ecclesiologicamente e rifiutato dogmaticamente dal Cristianesimo, ne restituiva alla sola civiltà e dando possibilità esplicite e specificate di consuetudini alternative... Ma come reagiva intellettualità in connubio con quella popolarità non volta a discernere tutta la alterità della eternità e tutta la particolarità dei tempi? Non voleva coglier occasione di libertà dai segni relativi ed esterni e provvisori, pensando di sentenza attestante valori civili dei crocifissi vantaggio per continuare in fondamentale disconoscimento invadente della realtà religiosa cristiana, senza badare che valore civile pertinente resta distinto da valore religioso eminente e civiltà poteva finire con maggior svantaggio degli invasori spacciatisi per altro profittando di decadenze ecclesiastiche ed aumentando intrusioni inquisitorie... Lavoro di allievo del filosofo Pareyson presentava qual contrappunto e termine negato non medesima ma ugual parallela vicenda, in università ed accademie: ma, da evidenza di titolo ed indice se ne può dedurre, ciò neutralmente senza propendere per disastrose disoneste indistinzioni popolarmente ingiustamente accreditate da decisivo non rifiuto di massa dell'ateismo marxiano marxista, prima e durante ed anche dopo Guerra Fredda; cui recensione invece soggiace, forse non per deliberazione ma per mancanza di possibili destinatari certi ed altri in mente a recensore stesso.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(...)
Sobrietà di indice mostra evidentemente contenuto generale di valore teoretico cui occasioni non neutrali sono trascese da forza di evento filosofico non coinvolto già; però accampa in recensione travisamento di storia e cultura greca perché quanto affermatone è mediato da vicenda del grecismo e del pensiero che grecità pensa col grecismo ed attestato secondo soggettività del grecismo cui attribuita però oggettività, nella realtà solo di ambienti umani non greci in circostanze di pensabilità del mondo greco, propinqui e vicini a greci ma in rifiuto contro questi.
Rigorosità teoretica riferirebbe o dovrebbe riferire, o perlomeno non negare, del pensar non direttamente grecità non di pensiero greco, nel confondere assenza di male morale determinante nel mondo greco per distrazione da esso nei mondi degli altri; e della storia politica greco-ellena e greco-ellenica ove senza dubbio accaduta sottovalutazione di altrui immoralità non bisognando fraintendere errori in prassi con prassi e dovendosi domandare dove e quando e come; per scoprire decadenze elleniche italiane passate recenti e non più attuali né recenti in Ellade dacché unitariamente poi unitamente fino a singolarità statale moderna, da Alessandrinismo e Bizantinismo, a Impero Ottomano d'Occidente e Regno Neoasburgico, tra fine di Monarchia e Garanzia Militare Democratica (non mi riferisco a delitti, peraltro non autenticamente pubblici né politici, di alcuni colonnelli).
Intendendo l'isolamento ideologico di alcuni luoghi italiani durante Guerra Fredda mantenuto poi da vendette di massa, si intende anche originario messaggio del libro recensito, cui scrittura quindi aliena da conoscenze di originale pensar greco, non di retaggi grecisti ma dal senso incognito-ipotetico: Pareyson non conosceva antropologia greca né eredità intellettuale di essa.
Ovviamente: bisogna pure limitare pretese (sia di autore che di lettori e lettrici) ove inautentiche citazioni o peggio riferimenti non veri, leggendo testo recensito stesso.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Allego miei 'appunti di mio diario' a maggior intendimento di miei commenti qui.

'{ Aprile 2019 }  [...] La disgraziata confusione tra tempo ed eternità delle "chiese cattoliche" è stata espressione di questo mondo criminale fino al suicidio ma senza vere ambizioni politiche, diversamente da Hitler. Confondere gli istanti che passano con le durate è stato un passatempo suicida di milioni di individui e non ancora terminato. Quel che restava di buono nella organizzazione cattolica ha fatto da strumento rivelatore ma ovviamente non è stata divina rivelazione ma allarme criminologico che ha risuonato nella falsa teologia. Tanta la falsità che ne era intuizione per contrasto la assente verità. Più di questo nessuna furbizia poteva alle prese con tanta aberrazione.
Alcune notti orsono di fronte alla figura da crocifisso, ve ne sono tutto attorno il "Carcere degli increduli" (così era detta anche secoli fa la chiesa di San Giovanni quando era frequentata da superstiziosi) notavo era ancora il mormorio della ossessione mortuaria che si basa sul frainteso non solo dei simboli cristiani (tra i quali il principale è la croce ma non il crocifisso che è stato uso simbolico raramente accettabile e non teologicamente significante) ma anche della antica vera punizione romana, fatta solo con legacci e non per uccidere ma per stancare evitando per gli innocenti altre stanchezze; e sul frainteso del gesto dei militari fenici antichi di porre il proprio corpo in forma di croce per simboleggiare il non aver potuto pur volendo. La croce del supplizio nel cristianesimo era simbologia usata non suscitata per insegnare la evenienza tragica della vita e con scopo di porre fine alla ossessione mortuaria con un poco di saggia consapevolezza, poi dal falso cristianesimo eletta a sistema simbolico fisso, poi usata dai cristiani per segnalare gli intrusi e per salvare gli ingenui... insomma la ossessione del supplizio in croce è divenuto un grosso alibi, quasi per niente mistificazione ormai, che cela relativa varietà di spietatezze di abitudini criminali, relativa perché la realtà del crimine resta priva di tanta immaginazione proprio perché è fatta anche di volontari rifiuti a considerare la imprevedibilità delle sventure. Non serve per i criminali far riemergere le vere cronache delle guerre puniche, che non tutti i romani e non tutti i cartaginesi e non tutti gli altri schierati combatterono con uso effettivo di armi e alcuni senza neppure tenerne per mostrarle. Non si usava dopo queste guerre mostrare un crocifisso perché esse non erano iniziate per insavi compiacimenti ma per odio, da ambo le parti, contro coloro che a tale insavia avrebbero voluto abbandonarsi. L'uso del crocifisso nella simbologia del cristianesimo aveva scopo anche di commutare la idolatria più stupida nell'atto a vuoto e di non accogliere maestri né alunni di orrori e se invadenti lasciarli con fantasia palese affinché la loro stupida violenza fosse evidente. Questo scopo è ancora presente: infatti milioni e milioni di stupidi si sono autodenunciati con l'idoleggiare tale fantasia e altri continuano a denunciarsi, ma per mezzo ci sono innocenti ad essa costretti o che i colpevoli ne fanno sembrare non costretti, essa imposta da molti preti cattolici però mai da tutti tollerata.
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MAURO PASTORE