giovedì 2 agosto 2007

Berti, Enrico, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica.

Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 350, € 18,00, ISBN 8842082538.

Recensione di Massimo Pulpito – 02/08/2007

Storia della filosofia (antica), Filosofia teoretica (metafisica), Etica

Tra le poche cose su cui i due massimi filosofi greci, il maestro Platone e il discepolo Aristotele, erano d’accordo, vi era l’idea dell’origine della filosofia. Il primo aveva fatto dire a Socrate: “È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo” (Teeteto 155 d). Il secondo, dal canto suo, aveva ribadito: “Gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a filosofare a causa della meraviglia” (Metafisica I, 2, 982 b 12-13). La meraviglia di cui parlano Platone e Aristotele non è un sentimento estetico, ma un’attitudine cognitiva, una sospensione che chiede di rendere ragione delle cose, che sorprendono per la loro apparente incomprensibilità; di cercarne, dunque, la spiegazione, di conoscerne il “perché”.
Partendo da queste considerazioni, Enrico Berti, il più noto studioso italiano di Aristotele, ha intitolato il suo nuovo libro con una formula che riecheggia il celebre incipit giovanneo: In principio era la meraviglia. Si tratta di una storia della filosofia antica organizzata per questioni. Il titolo di ogni capitolo si conclude sempre con un punto di domanda: sono, appunto, le grandi questioni della filosofia antica, come recita il sottotitolo, che vanno dalla cosmologia all’ontologia, dalla teologia alla logica, dall’etica all’estetica. Berti ha preferito riorganizzare questa storia, abbandonando l’onnicomprensivo paradigma cronologico, e accogliendo invece l’ordine tematico, al fine di tornare alla fonte di quella meraviglia greca da cui è sorta la filosofia. Un ritorno giustificato dalla convinzione che quella meraviglia motivi tuttora il filosofare più autentico. Le domande sono pressoché le stesse. Sono cambiate le risposte, certo. Ma spesso le nuove risposte hanno attinto da quelle più antiche. Riscoprire la “freschezza di ciò che originario” (p. XII) è un indubbio aiuto alla comprensione (il che non vuol dire confondere la storia con la teoria). Ma, soprattutto, dai Greci si può imparare a domandare per ottenere una risposta, e non per compiacersi di una meraviglia fine a se stessa. Scrive Berti: “I Greci […] non hanno soltanto formulato delle domande: essi hanno anche cercato delle risposte” (p. IX); “I Greci non avevano il gusto per la ricerca fine a se stessa: essi cercavano per trovare. Oggi a volte si preferisce concepire la filosofia come pura ricerca, o come ricerca senza fine. Sembra quasi che il cercare sia un atteggiamento nobile, critico, raffinato, che desta simpatia e rispetto, mentre il trovare sia banale, grossolano e dogmatico. In realtà la ricerca è sincera, o autentica, solo se cerca per trovare. Chi cerca per il solo piacere di cercare non cerca veramente, ma finge di cercare” (p. X). Ciò che è interessante delle questioni filosofiche e delle rispettive risposte dei Greci, è che pur essendoci al loro fondamento la meraviglia, esse “non si arrestano alla meraviglia, bensì cercano di venirne fuori” (pp. XI-XII). La meraviglia compiaciuta è solo una “posa” (p. X).
La prima questione di cui si occupa Berti è: L’universo ha avuto origine? Per i primi filosofi il cosmo è stato generato da alcuni elementi originari, i quali invece sono ingenerati. Il punto fermo di questi pensatori sembra essere l’eternità dell’essere, e dunque il rifiuto di una genesi dal nulla. Questo presupposto permane nel pensiero di Platone e Aristotele, che pure propongono due visioni opposte della durata del cosmo: per il primo esso è stato fabbricato da un Demiurgo, la cui opera è incomparabile alla creazione dal nulla del Dio cristiano, trattandosi, piuttosto, di una messa in ordine di una materia preesistente; per il secondo il cosmo è eterno allo stesso modo delle idee platoniche. Il dibattito sull’origine del cosmo conobbe poi l’incontro con la Bibbia ebraica (che introdusse nuovi elementi teorici, sebbene assimilati spesso a quelli già presenti nella cultura filosofica greca), e quindi quella che per Berti è la grande risposta pagana al cristianesimo, ossia la filosofia neoplatonica, e in particolare il pensiero di Plotino (con la proposta dell’emanazione come alternativa teorica sia alla creazione dal nulla che alla fabbricazione demiurgica).
Si è visto che per i Greci il rifiuto del non-essere originario sembra essere un punto fermo. Il secondo capitolo affonda la propria domanda caratterizzante nel cuore di questo presupposto, e si chiede: Che cos’è l’essere? La risposta a questa domanda coincide con la nascita di un’intero settore della filosofia, quello che noi indichiamo con il termine ontologia, il cui inizio si deve alle riflessioni di Parmenide sull’essere necessario, estraneo ai mutamenti fisici e alla molteplicità. Il presupposto dell’immutabilità come caratteristica dell’essere è mantenuto da Platone, che però lo declinò nel senso di una pluralità di regioni, le Idee, intese come l’”essere qualcosa” nel più alto grado. Aristotele sarà ancora più radicale e introdurrà la molteplicità nello stesso significato dell’essere, poiché l’essere “si dice in molti modi”, e questo non solo perché l’essere è espresso in quattro forme (per accidente, per sé, come indicatore di verità, in potenza e atto), ma anche perché “a seconda del predicato con cui viene unito, può avere lo stesso significato di qualsiasi verbo” (p. 57). Ad esempio, “l’uomo è camminante” corrisponde a “l’uomo cammina”. Qui, come nel capitolo successivo, ma un po’ in tutto il libro, Berti tradisce la sua maggiore competenza su Aristotele, che gli consente originali riletture di alcuni punti fermi della manualistica. Il dibattito ontologico successivo, segnato dal crescente interesse religioso, conobbe dapprima l’identificazione dell’essere necessario con Dio, con i medioplatonici, e quindi la subordinazione dell’essere all’Uno platonico trascendente, con i neoplatonici.
Proprio al divino è dedicato il terzo capitolo, dal titolo: Chi sono gli dei? Berti racconta il passaggio dagli dei dei poeti al Dio dei filosofi, i quali pure non misero mai seriamente in discussione il politeismo tradizionale e nemmeno esclusero in qualche modo l’esistenza stessa del divino (tranne che nel caso di Teodoro detto l’Ateo, il cui appellativo ne rivela, appunto, l’eccezionalità; ma in odore di ateismo furono anche Diagora di Melo e Evemero di Messene). Lo studioso descrive così le famose critiche mosse da Senofane alle concezioni antropomorfiche, la persecuzione dei filosofi operata nel nome del rispetto delle leggi divine (ad esempio, Socrate, com’è noto, fu condannato a morte per empietà), le complesse teologie platonica e aristotelica con i rispettivi protagonisti divini, il Demiurgo e il Motore Immobile. Su quest’ultimo, in particolare, Berti propone la sua interessante tesi secondo cui esso muoverebbe il cosmo in quanto causa efficiente, e non causa finale, come tradizionalmente si intende. Infine, Berti descrive il conflitto insorto tra la diffusione del monoteismo ebraico e cristiano e la reazione neoplatonica (e neopitagorica), dapprima “intellettualistica e panfilosofica” (p. 123), e poi volta ad un recupero anche di carattere cultuale del politeismo pagano.
Dopo gli dei, è la volta dell’uomo. Il quarto capitolo si chiede, appunto: Che cos’è l’uomo? e illustra l’antropologia greca. Mentre per l’ontologia bisogna risalire ai presocratici, per la riflessione sull’uomo la svolta avvenne con i Sofisti. “Sebbene non sia del tutto corretto sostenere che prima di essi l’uomo non costituisse un tema di riflessione – magari poetica, religiosa, o anche filosofica -, è giustificato asserire che i Sofisti e Socrate spostarono il fuoco della loro attività speculativa dalla natura all’uomo” (p. 135). In particolare con Socrate la questione dell’identità dell’uomo venne posta in un modo che, si potrebbe dire, anticipa il secolare dibattito su mente e corpo. Per Socrate l’uomo è essenzialmente la sua anima, fondamento del resto della sua etica. Su questa traccia operò Platone che individuò, anche qui, come nell’essere, un’articolazione gerarchica in più regioni: è la celebre tripartizione tra la parte razionale, quella irascibile e quella concupiscibile. Aristotele invece, consapevole che ogni domanda che chiede che cosa sia ciò di cui si parla, cerca la classe a cui l’oggetto appartiene e la sua differenza da tutti gli altri oggetti coappartenenti alla stessa classe, nel caso degli uomini indica nei viventi la classe di appartenenza e nel logos, ossia la ragione che si esprime nel linguaggio, la loro differenza specifica. Per gli Stoici, invece, l’uomo, coerentemente con la loro ontologia corporalista, è costituito di anima e corpo, entrambi di natura materiale, sebbene la prima si presenti come un corpo più sottile e infuocato. Sarà il cristianesimo a introdurre una nozione di fatto sconosciuta nella filosofia greca: quella di persona.
Aristotele, come si è visto, ha legato la questione antropologica a quella logico-linguistica. Il quinto capitolo è appunto dedicato alla domanda: Perché dici questo? Nel ruolo di iniziatore c’è ancora un eleate, Zenone, ritenuto da Aristotele l’inventore della dialettica, ossia di quella tecnica che mira a dimostrare una tesi attraverso la confutazione di quella opposta. Il linguaggio fu esaltato dai sofisti e in particolare da Gorgia, che al potere distruttivo della dialettica affiancò quello persuasivo della retorica. A Socrate si deve la sintesi della dialettica confutativa di Zenone, con l’arte delle domande e risposte che fu propria di un altro sofista, Protagora. Fu questa sintesi a caratterizzare il metodo socratico, che si esprimeva nella richiesta ai suoi interlocutori di rendere ragione delle loro parole. Platone diede consistenza filosofica a questo metodo, poiché ancorò la ricerca della ragione ad un principio metafisico universale, quello eidetico. Dal canto suo, Aristotele teorizzò in modo rigoroso le caratteristiche tipologiche della dialettica.
Ma la parola non è solo discussione, persuasione e ricerca della verità: è anche diletto. Che effetto fa la poesia? è la domanda del sesto capitolo, che si concentra particolarmente sul contrasto tra Platone, che vedeva nella poesia una fonte di delirio e inganno, per la sua potenza suggestiva, oltre che per il fatto di costituire un’imitazione di imitazioni (giacché il mondo in cui viviamo, imitato dall’arte poetica, non è quello reale) e Aristotele, che invece attribuiva all’arte dignità cognitiva e pedagogica, in quanto fonte di godimento e conoscenza morale al tempo stesso, attraverso la nota “catarsi”.
Con il settimo capitolo si passa dall’estetica all’etica, con la questione: Che cos’è la felicità? La nozione di felicità è centrale nella riflessione morale degli antichi Greci. Essa veniva ritenuta da tutti il fine supremo della vita umana, e le differenze tra i vari pensatori consistevano soltanto nei modi da essi immaginati per raggiungerla e nel riconoscimento o meno della possibilità stessa di ottenerla. Alla concezione tragica della vita, dipinta dagli antichi tragici, che attribuivano alla sorte una forza cieca e irresistibile, contro cui l’uomo non può nulla, reagirono i primi pensatori, come Democrito e Socrate, che incentrarono nella virtù (e dunque su qualcosa che dipende da noi stessi) la possibilità del raggiungimento della felicità. Ancora una volta, Platone si mantenne nel solco tracciato da Socrate, ossia la concezione autarchica della morale, sebbene sviluppandola in una riflessione più complessa e di ampio respiro (si pensi alla teoria della giustizia). Sarà Aristotele che reintrodurrà la fortuna nella concezione della felicità, superando di fatto la visione ascetica del saggio di stampo socratico-platonica, ma senza ritornare al pessimismo dei tragici. Con le scuole ellenistiche, che su nessun punto furono tanto concordi quanto sulla concezione della felicità, vi fu invece un evidente ritorno alla posizione autarchica e ascetica, condotta alle sue estreme conseguenze. Nei primi secoli della nuova era si scontreranno, invece, la concezione cristiana della vita eterna, che svuota di senso ogni riflessione sulla felicità nell’al di qua, e quella neoplatonica, che sintetizzò di fatto le precedenti posizioni filosofiche greche.
L’ultimo capitolo pone, forse, la questione più antica e più sentita dagli uomini: Qual è il destino dell’uomo dopo la morte? Berti mostra con grande efficacia come siano state due le tipologie di risposte che i pensatori greci hanno dato a questa domanda: la risposta omerica (ripresa dai fisici, Aristotele e i filosofi ellenisti) e quella orfica (ripresa dai pitagorici, Empedocle, Platone, e quindi neopitagorici e neoplatonici). Per la prima, l’uomo è un essere mortale, distinto dagli dei immortali proprio per questa sua limitatezza. Dopo la morte per gli uomini c’è un destino di ombra senza vita. Per la seconda, invece, nell’uomo vi è un principio divino e immortale, l’anima, destinata a rivivere altre vite, condizionate dalla condotta della vita precedente, soggetta così ad ascesa e discesa nella gerarchia degli esseri viventi.
In conclusione, l’ultimo lavoro di Enrico Berti s’impone come uno dei più interessanti esperimenti di divulgazione storico-filosofica degli ultimi tempi, in cui convergono rigore storico e interesse teorico. Un manuale atipico, di agevole consultazione, da consigliare senza dubbio a studenti e lettori colti, ma di sicuro interesse anche per gli specialisti della materia.

Indice

Prologo
I. L’universo ha avuto un’origine?
II. Che cos’è l’essere?
III. Chi sono gli dei?
IV. Che cos’è l’uomo?
V. Perché dici questo?
VI. Che effetto fa la poesia?
VII. Che cos’è la felicità?
VIII. Qual è il destino dell’uomo dopo la morte?
Note


L'autore

Enrico Berti ha insegnato a Perugia e a Padova (dove è tuttora docente). È stato ordinario prima di Storia della filosofia antica e poi di Storia della filosofia. Titolare della “cattedra Perelman” presso l’Università di Bruxelles, è stato due volte presidente della Società Filosofica Italiana e accademico dei Lincei. È tra i più importanti esperti di Aristotele a livello internazionale. Tra le sue opere più recenti: Aristotele, Bompiani 2004; Nuovi studi aristotelici, Morcelliana 2004-2005; Introduzione alla metafisica, Utet 2007.

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