martedì 25 marzo 2008

Franceschelli, Orlando, Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla.

Roma, Donzelli, 20082, pp. 250, € 27,00, ISBN 9788860362117

Recensione di Elisa Leonzio – 25/03/2008

Storia della filosofia (contemporanea)

Nel suo saggio Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Franceschelli ripercorre l’itinerario teorico e umano di Löwith, individuando il motivo di continuità tra le diverse fasi della sua speculazione nel naturalismo. Esso, secondo la definizione che Löwith ne darà nella maturità, rappresenta «la semplice conseguenza» del congedo moderno dall’orizzonte della creazione (p. XI) e consiste nella capacità per l’uomo di riscoprire e «coltivare con saggezza la propria appartenenza alla realtà naturale» (ibid.).
Pubblicato per la prima volta nel 1997, il volume di Franceschelli viene ora ripresentato in una seconda edizione, arricchita da una nuova introduzione in cui l’autore si sofferma sull’attualità del pensiero löwithiano per la società contemporanea, e per quella italiana in particolare: in Italia, infatti, il dibattito tra laici e cattolici sulle ormai ineludibili questioni di bioetica ha assunto i toni dello scontro, complice una Chiesa sempre più ingerente, ma pure una classe politica propensa, più che altro, a sterili ideologismi antireligiosi; di fronte a ciò la lezione löwithiana (come titola l’ultimo capitolo del saggio) spicca per coerenza e sobrietà, mantenendosi parimenti distante dall’escatologia e dall’antropocentrismo di impronta teologica e metafisica quanto dalle filosofie della storia (idealismo, marxismo, esistenzialismo, ermeneutica) che ne sono le riscritture secolarizzate. In appendice Franceschelli presenta la sua traduzione di un testo di Löwith sulla libertà del morire, nuovamente di grandissima attualità per il dibattito contemporaneo sull’eutanasia.
La formazione e i primi saggi e le prove della storia
Il saggio si articola in tre grandi sezioni. La prima sezione, a sua volta suddivisa in tre capitoli, muove da una ricostruzione della formazione civile, politica e filosofica del giovane Löwith. Nato a Monaco nel 1897 in una famiglia ebraica dell’alta borghesia, egli subisce, come molti giovani della sua generazione e della sua classe sociale, il fascino della Kriegideologie, fede in un attivismo militare che solo potrà mutare radicalmente il destino della Germania; parte per questo volontario per il fronte, dove è ferito e fatto prigioniero. Deluso dall’esperienza bellica, nei primi anni del dopoguerra si iscrive dapprima all’università di Monaco e in seguito a quella di Friburgo, dove ha modo di seguire le lezioni di Husserl e dell’allora suo assistente Heidegger.
Da Husserl Löwith apprende, prima di tutto, un metodo, quello della descrizione fenomenologica, guidato dall’esigenza di andare «alle cose stesse», al fenomeno cioè come esso appare al di là dei nostri pregiudizi, messi tra parentesi con l’atto dell’epoché. La fenomenologia però, obietta Löwith, operando una riduzione della realtà stessa del mondo alle strutture intenzionali della coscienza, finisce presto per trasformarsi in una filosofia che vuole interpretare, costruire i fenomeni. Questa critica all’idealismo fenomenologico husserliano, che dunque non descrive il mondo nella sua impenetrabile naturalità, bensì lo costituisce a partire dalle funzioni a priori del soggetto, è presentata da Franceschelli come il primo indizio di quella direzione naturalistica che il pensiero di Löwith gradatamente assume già negli anni Venti.
Una scarsa attenzione per la realtà naturale del mondo e dell’uomo è anche il rimprovero che Löwith muove a Heidegger. Se condivisa da entrambi, a detta di Heidegger, è la convinzione che l’ontologia debba essere fondata onticamente (cioè sui fatti naturali), molto diversi sono però i risultati che derivano da tale assunto: Heidegger propone infatti un’«ermeneutica della fatticità» capace di costituire il mondo a partire dalla Ek-sistenz dell’Esserci (dunque dalla trascendenza, dalla progettualità, dall’essere-per-la-morte), il che si traduce però, agli occhi di Löwith, in una preminenza dell’ontologico sull’ontico; l’unica via per conservare veramente la preminenza dell’ontico è riconosciuta da L­öwith in un recupero della dimensione naturale dell’uomo. Ulteriore motivo di distacco dal maestro è la heideggeriana «possibilità-più-propria» dell’Esserci, l’essere-per-la-morte, di cui Löwith evidenzia il carattere solipsista citando, a dimostrazione di ciò, un passo di Sein und Zeit in cui Heidegger afferma che «la morte pretende l’Esserci nel suo isolamento» (p. 18); in tal modo Heidegger, spiega Löwith, finisce per negare i propri stessi concetti di «prendersi cura» e di «stare-insieme con gli altri» (ibid.). Löwith contrappone a ciò un’antropologia che vede quale realtà originaria dell’uomo proprio il Miteinandersein (il reciproco stare insieme) in una Mit-Welt (mondo condiviso). Nelle fasi più mature del suo pensiero, tuttavia, Löwith assumerà un atteggiamento critico anche nei confronti di questa sua prima antropologia, poiché essa muove da un’inter-soggettività che ancora impedisce di cogliere la realtà cosmica e, in essa, l’homo natura.
Nei tardi anni Trenta (cap. II) Löwith ancora si soffermerà sulle implicazioni politiche del concetto heideggeriano di autoaffermazione dell’esistenza «propria», che troppo facilmente può essere ed è stato tradotto nella categoria politica dell’autoaffermazione totalitaria del «proprio stato» (p. 51). Per questo alcune assonanze con il decisionismo occasionale di Schmitt (cui Löwith dedica l’omonimo saggio del 1935), un decisionismo che per Löwith consiste «nell’esser pronti al nulla, cioè alla morte stessa intesa come sacrificio della vita» allo Stato (p. 50); ed assonanze pure con Jünger, nel cui concetto di lavoro quale mobilitazione totale Löwith riconosce «un processo anonimo che disumanizza dell’uomo» (più. 52). Contro tali estremismi Löwith si richiama alla lezione di moderazione e di «scettica distanza» appresa da Burckhardt.
Il terzo capitolo della sezione è dedicato invece al confronto löwithiano con la grande tradizione filosofica, da Hegel a Nietzsche. Se la filosofia di Hegel rappresenta l’ultimo tentativo di una determinazione metafisica dell’uomo – riconoscendo nello spirito la sua essenza universale –, già con la sinistra hegeliana, in cui Löwith include (ed è interpretazione che ha diviso la critica di Von Hegel bis Nietzsche) anche Kierkegaard, si avvia quel processo di allontanamento dal mondo borghese-cristiano che Nietzsche porterà a conclusione.
Storicismo, «nichilismo cosmologico» e ritorno alla natura
La seconda sezione del volume, nuovamente suddivisa in tre capitoli, è dedicata ad approfondire la riflessione löwithiana sul senso della storia universale e del suo rapporto con la realtà naturale del mondo; riflessione che si intensifica nel 1940, anno in cui Löwith si trasferisce negli Stati Uniti, e che culmina nel 1949 con la pubblicazione di Significato e fine della storia, dove la critica dell’escatologia secolarizzata si intreccia con quella del «dogma moderno dell’esistenza storica». Sempre attento alla tradizione che l’ha preceduto, Löwith descrive la genesi stessa del concetto di filosofia della storia (cap. IV): se essa risulta ancora impossibile nel mondo classico, dove l’episteme ha come oggetto esclusivamente i fenomeni sempiterni e regolari del cosmo, legittimazione trova invece nella prospettiva biblica, dove il tempo, da ciclico, si fa lineare, scandito dall’atto della creazione, da uno svolgimento e da un eschaton (p. 83). La storia profana acquisisce allora una nuova rilevanza, che le è data però esclusivamente dalla presenza di un fine ultimo ad essa trascendente. Solo con Voltaire, a cui tra l’altro si deve l’espressione filosofia della storia, la storia profana acquista autonomia dalla storia sacra e si avvia il processo di secolarizzazione dell’escatologia biblica: alla fede nella provvidenza divina si sostituisce infatti la fiducia in un progresso di cui l’uomo stesso è artefice e che garantirà la sua felicità terrena. Dopo Hegel, che ancora parla di un’attuazione storica del regno di Dio, lo storicismo abbandona definitivamente questo afflato metafisico, ma ne conserva la concezione finalistica: nell’uno e nell’altro caso il fine è l’uomo stesso, rispetto a cui la pura naturalità perde totalmente di valore.
Nel processo di secolarizzazione in atto nella modernità, al tempo della storia è però sottratto non solo «l’ancoraggio teologico» alla soprannaturale volontà divina, ma pure quello «cosmologico» al ciclo della physis (p. 95) e l’uomo precipita per questo in una condizione di spaesamento e angoscia dove tutto si fa relativo (cap. V). Poiché però il concetto stesso di relativo implica la presenza di un fondamento nei cui confronti si esplichi la re-lazione, Löwith cerca allora una strada «non-moderna» che, liberata dall’ipoteca teologica, sappia recuperare il nesso cosmologico evidente per gli antichi. Questa strada «non-moderna» (cap. VI) è inaugurata per Löwith dalla filosofia di Spinoza e si prolunga, attraverso Feuerbach, fino a Nietzsche e Valéry. Il naturalismo di Löwith si precisa anzi, argomenta Franceschelli, come combinazione di elementi desunti proprio dal pensiero spinoziano e da quello niciano. Spinoza è colui che, traducendo il Dio biblico trascendente in causa immanente alla natura, ha favorito il ritorno al naturalismo dei Greci, alla loro concezione della phyis come forza vitale, scevra di qualunque volontarismo. Nietzsche, dal canto suo, ha invece eliminato totalmente il divino sia come Dio-persona sia quale causa immanente, recuperando però proprio il concetto di volontà e servendosene per designare, seppure in modo improprio, «il moto cosmico, circolare e senza un fine» (p. 138). Löwith, consapevole che Nietzsche rappresenta un punto di non ritorno nel pensiero occidentale, è dunque anche conscio dei limiti della proposta niciana, irretita del resto nel proprio stesso nichilismo originario, in quanto l’amor fati recupera sì il mondo, ma solo a partire dalla nullificazione della naturalità del mondo stesso; sceglie allora di collocarsi in una posizione intermedia che, come Franceschelli ha già sottolineato anche altrove (nell’introdurre la propria traduzione del saggio di Löwith Spinoza. Deus sive natura) e qui ribadisce, presenta una natura cosmica e priva di volontà come quella di Spinoza e priva di Dio come quella di Nietzsche.
Tra Dio e nulla: il naturalismo di Löwith
Nell’ultima sezione del saggio Franceschelli, riprendendo i punti principali della sua precedente analisi, precisa ulteriormente le caratteristiche del naturalismo löwithiano. Particolare risalto viene qui conferito alla differenza tra senso (Sinn), scopo (Zweck) e fine (Ziel): è un errore, infatti, osserva Löwith, definire la natura insensata perché non indirizzata coscientemente ad uno scopo; la natura, piuttosto, ha in sé il principio del proprio movimento secondo una spontanea auto-organizzazione cosmica che ab aeterno costituisce e conserva il proprio ordine (cap. VII). Nella natura è cioè presente, secondo Löwith, un logos physikos da cui deriva la ragione stessa dell’uomo e la sua capacità di trascendere, che non vanno perciò considerate come qualcosa di assolutamente diverso rispetto alla physis (p. 181). Il logos physikos, che fa sì che l’insieme di tutte le cose esistenti per natura sia un mondo, che «fa esistere il mondo come un “sistema” della vitalità» (p. 206), resta però inattingibile ad ogni costruzione umana e ad ogni sua mediazione linguistica (cap. VIII). L’accettazione di questo limite è l’ultimo grande insegnamento del naturalismo di Löwith, in cui egli fa rivivere il significato più autentico della scepsi filosofica: «voler sapere e, insieme, riconoscere il “confine”, l’incertezza del nostro sapere» (ibid.): solo così la domanda sul mondo, sull’uomo e su Dio può restare realmente aperta, e l’uomo realizzare la propria natura di «essere vivente parlante» che «può-deve domandare» (p. 207), dando il proprio assenso a ciò che appare più probabile, ma senza mai assolutizzarlo.

Indice

Il naturalismo postreligioso di Karl Löwith
Introduzione alla seconda edizione
I. La formazione e i primi saggi e le prove della storia
II. Storicismo, «nichilismo cosmologico» e ritorno alla natura
III. Tra Dio e nulla: il naturalismo di Löwith


L'autore

Orlando Franceschelli è docente a contratto di Teoria dell’evoluzione e politica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università «La Sapienza» di Roma. È autore di diversi volumi, tra cui Disincanto, natura e volontà (2003), Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (2005) e La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza (2007). Di Löwith ha curato la traduzione e presentazione di Spinoza. Deus sive Natura (1999) e Dio, Uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (2000). Collabora con il quotidiano «Il Riformista» e con varie riviste.

Nessun commento: