mercoledì 23 luglio 2008

Innerarity, Daniel, Il nuovo spazio pubblico, trad. it. di M. Mellino.

Roma, Meltemi, 2008, pp. 287, € 22,00, ISBN 9788883536441.
[Ed. or.: El nuevo espacio público, Espansa Calpe, Madrid 2006]

Nota di Vincenzo Maimone – 23/07/2008

Filosofia politica (governance, muticulturalismo, cosmopolitismo), Sociologia

La configurazione complessa e frastagliata del paesaggio politico contemporaneo, sia per ciò che concerne gli scenari nazionali che nel contesto dell’arena internazionale – anche se la linea di confine tra queste due dimensioni geo-politiche appare sempre più sottile e sfumata -, ci fornisce quotidianamente un’immagine caratterizzata dalla presenza di profonde e gravi contraddizioni la cui incidenza sembra andare ben al di là di una mera distorsione formale rispetto a modelli teorici consolidati ed influisce altresì in maniera sostanziale sulla capacità di azione, individuale e collettiva e sulla effettiva disponibilità di un più o meno ampio elenco di opzioni di scelta in campo economico, sociale e politico.
In sintesi, ciò che emerge ad uno sguardo attento e alla luce di un’accurata analisi è la coesistenza forzosa sulla scena pubblica di elementi incoerenti e in alcuni casi addirittura paradossali.
Il ritorno sulla scena politica della logica dell’appartenenza, la recrudescenza di forme becere di nazionalismo attuate attraverso la reintroduzione di procedure lesive delle più basilari garanzie umanitarie (impronte digitali, espulsioni indiscriminate, ecc.) e giustificate in nome e per conto del superiore ideale della sicurezza dei cittadini; ed ancora, il ricorso ad un vocabolario politico che sostituendo il dialetto alla lingua ha ripristinato vecchie barriere e discrimina perfino sotto il profilo lessicale, trasformando la contingenza dell’appartenenza regionale o etnica in uno pseudo-necessario strumento di interpretazione e di valutazione di capacità e competenze, sono tutti aspetti che rendono conto della profonda incoerenza nella gestione dello spazio pubblico e, nel contempo, della delicatezza del momento storico.
La sussistenza di questa intrinseca contraddizione è il segno evidente che le categorie del politico individuate dalla tradizione classica non sembrano essere più capaci di interpretare, e soprattutto di proporre soluzioni efficaci, in grado di sciogliere effettivamente i nodi problematici della politica contemporanea.
Detto altrimenti, la descrizione fornita dai modelli non sembra corrispondere al paesaggio.
Questa ambigua mancanza di sincronia tra analisi e azione, tra teoria e prassi è oggetto delle riflessioni di Daniel Innerarity nel saggio Il nuovo spazio pubblico.
Alla base della tesi suggerita da Innerarity vi è l’idea secondo la quale è necessario operare un radicale ripensamento della nozione di “spazio pubblico” alla luce di nuovi criteri interpretativi in grado di ridefinire l’estensione dei confini tra ciò che pertiene la dimensione privata e ciò che si inserisce entro l’orizzonte propriamente collettivo.
Un tentativo evidentemente non nuovo nel contesto della filosofia politica e che affonda le sue radici nelle teorie di autori quali Koselleck, Arendt e soprattutto Habermas. A tale riguardo, è possibile affermare che la filosofia del teorico dell’agire comunicativo costituisca nel contesto del saggio di Innerarity una sorta di tema di fondo, ripreso, riveduto, e in alcuni casi corretto o ampliato, che segnala e suggerisce i passaggi fondamentali dell’analisi presentata dal filosofo spagnolo. Il riferimento al celebre saggio di Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962; 1990²) costituisce un elemento portante nella disamina condotta da Innerarity. In quell’opera, infatti, Habermas aveva posto l’accento sulle nuove dinamiche che animavano, già allora ma per ragioni differenti, lo spazio del pubblico: quello spazio un tempo circoscritto, i cui criteri di accesso e le cui modalità di partecipazione facevano riferimento alla tradizione della polis o dell’agorà e che con l’entrata in scena di nuovi attori sociali, l’ascesa della borghesia imprenditoriale, si rivelava adesso insufficiente a soddisfare i bisogni di inclusione e di partecipazione politica e sociale.
La tesi di Innerarity prende le mosse da tale considerazione e può essere riassunta in questi termini: così come l’avvento di una nuova classe sociale unitamente alle nuove istanze sollevate dallo spirito illuministico e al ruolo sempre più incisivo rivestito dalla stampa quale strumento di costruzione di un’opinione pubblica, avevano determinato l’esigenza di ridefinire la nozione stessa di “pubblicità”; allo stesso modo i profondi cambiamenti intervenuti nella società contemporanea rendono necessaria una revisione della nozione di partecipazione e decisione collettiva.
Si tratta evidentemente di un passaggio estremamente delicato e non privo di conseguenze.
Nelle tre sezioni che caratterizzano il saggio, Innerarity approfondisce, attraverso un’attenta analisi degli snodi storici cruciali, non solo le ragioni a sostegno della necessità di una tale riconfigurazione dello spazio pubblico, ma propone criteri e strategie utili a guidare con efficacia e una qualche speranza di successo questa delicata transizione.
Nella prima parte, opportunamente intitolata: Lo scenario: i mondi comuni, Innerarity analizza le variazioni e i mutamenti prodotti, nel tempo e dal tempo, su alcuni elementi costitutivi della dimensione collettiva dell’agire. Il filosofo spagnolo sottolinea la particolarità del rapporto tra individuale e collettivo, tra pubblico e privato.
Per comprendere correttamente e in maniera esaustiva la natura di questa relazione è necessario porre l'accento su tre questioni cruciali che permeano l'intero saggio: 1) l'effettiva estensione dei confini tra le sfere del pubblico e del privato; 2) il ruolo che i governi, e non la politica (distinzione questa su cui torneremo più avanti) attribuiscono al concetto di "popolo" nella costruzione delle strategie di intervento e nella definizione delle opzioni di scelta come pure nella selezione dell'elenco delle priorità che dovrebbero costituire i cardini su cui ruota l'azione politica e l'attività normativa di ogni "buon governo"; ed infine, 3) la funzione svolta dai mezzi di comunicazione nella formazione di una coscienza pubblica.
La distinzione tra pubblico e privato ha caratterizzato da sempre la riflessione filosofico politica, rappresentando un criterio utile e tutto sommato efficace di interpretazione sia sotto il profilo normativo che sotto quello squisitamente metodologico. Se ci limitiamo ad una semplice ed essenziale definizione è possibile affermare che lo spazio pubblico rappresenta quello spazio che ha le caratteristiche della "pubblicità". Detto altrimenti, all'interno di uno spazio così concepito azioni e decisioni dovrebbero essere pubblicamente note, sufficientemente trasparenti e comunque pienamente disponibili e aperte alla critica e alla possibilità di esprimere un ragionevole dissenso da parte di tutti i soggetti riconosciuti quali partecipanti al gioco democratico, quali membri effettivi della società (o comunità) politica. In ogni caso, alla luce della prospettiva promossa dalle teorie liberali la delimitazione di un'arena pubblica più o meno ampia segnalava (e segnala) una distinzione netta, un limite invalicabile, a tutela di una sfera di non interferenza, quella privata, segreta per definizione, all'interno della quale la sovranità era, e non poteva non essere che una prerogativa esclusivamente soggettiva.
L'interrogativo posto da Innerarity concerne l'attualità di una simile distinzione. Fino a che punto cioè la sfera privata è ancora e soltanto una faccenda eminentemente soggettiva, e per converso fino a che punto la dimensione del pubblico concerne effettivamente l'interesse generale della collettività. La risposta suggerita dall'autore pone dunque l'accento su una sorta di ribaltamento di un simile paradigma. Agli estremi di tale modello è possibile collocare due atteggiamenti: da una parte vi è quella che Innerarity descrive come la privatizzazione del pubblico; dall'altra parte di questo processo si manifesta un atteggiamento che può essere definito politicizzazione della sfera privata. Per ciò che concerne il primo aspetto alla base vi è la trasformazione della sfera intima in spettacolo mediatico.
"La sfera privata - scrive a riguardo Innerarity - irrompe e viene coltivata come tale nello spazio pubblico. Questo aspetto vale tanto per i cosiddetti personaggi noti, che rendono pubblica la loro vita privata, quanto per la gente comune, che si confessa pubblicamente in certe trasmissioni televisive" (p. 32). In altri termini, ciò che in precedenza costituiva una dimensione da proteggere e tutelare dall'invadente curiosità collettiva diviene adesso termine di paragone di un'esistenza appagante da condividere e rendere pubblica e dunque necessariamente trasparente. Un'esigenza che va ben al di là dei quindici minuti di celebrità profetizzati da Warhol.
Assistiamo ad un radicale cambiamento delle modalità di valutazione e di giudizio. La sfera pubblica diviene così il luogo dove intavolare discussioni private.
Questa rivoluzione di senso porta con sé come logica conseguenza il ribaltamento di ciò che deve e può essere considerato come pubblico interesse. Sotto questo profilo, la politicizzazione della sfera privata ha contribuito a completare questa trasformazione. Più semplicemente, con tale espressione si intende l'irruzione sulla scena politica di aspetti che un tempo appartenevano alla sfera dell'intimità e che al contrario oggi determinano le priorità dell'agenda politica: scelte religiose, preferenze sessuali, differenze di genere, animano i dibattiti parlamentari riducendo in tal modo la possibilità di una plurale accettazione dell'altro e alimentando il fuoco del dogmatismo e dell'appartenenza a comunità sempre più particolari e ristrette.
Un'altra degenerazione del sistema, in qualche misura collegata a quanto sin qui affermato, concerne il palese conflitto di interesse che caratterizza l'azione politica di molti uomini di governo. Sempre più spesso, infatti, il mero interesse economico privato e la ricerca di spazi sempre più ampi di immunità (e di impunità), fanno irruzione nell'apparato legislativo di democrazie ogni giorno più deboli e asservite a logiche mercantili. Sotto questo profilo, l'autorità degli uomini di governo si sostituisce con crescente prepotenza all'autorevolezza degli ideali ed alla spinta costruttiva dell'azione politica nel suo significato autentico.
La definizione di uno spazio pubblico, sebbene modificato, richiede la presenza di un attore, di un soggetto legittimato a muoversi all'interno di un simile contesto. Nell'ambito della tradizione democratica, tale ruolo appartiene al popolo. Si tratta di una sorta di fondamento costitutivo, e costituzionale (si pensi in tal senso al più celebre incipit costituzionale: We, the people). Così come ricordato da Rousseau in uno dei capitoli del Contratto sociale ciò che fa di un popolo un popolo è una questione previa a qualsivoglia definizione di un modello istituzionale.
Anche per ciò che concerne tale aspetto è però necessario interrogarsi in merito alla reale interpretazione di questa categoria politica. La storia recente ha mostrato il crescente successo elettorale conseguito da partiti e coalizioni di governo che propongono programmi ispirati ad una semplicistica, populistica e variegata valutazione di ciò che costituisce un interesse collettivo.
Come afferma Innerarity: "Gli atteggiamenti e i comportamenti populisti si verificano oggi al di là del circolo dei populismi "originali": lo stile populista costituisce una delle tendenze delle democrazie attuali nell'era mediatica, in un contesto di cittadinanza passiva o di bassa intensità, e quindi di mobilitazione superficiale. Possiamo percepire questo stile populista, per esempio, in certe retoriche contro la globalizzazione, in certe domande di sicurezza e di identità, nella disaffezione verso il sistema politico, nei discorsi demagogici che lodano il popolo e sfuggono a qualunque responsabilità, nella retorica del vittimismo, nel linguaggio semplicistico del dibattito politico, nel rifiuto di qualunque forma di rappresentanza, nelle difficoltà di articolare a livello istituzionale il lungo termine" (p. 49).
Due sono gli aspetti che emergono in maniera evidente alla luce di questa descrizione del paesaggio politico contemporaneo. Il primo aspetto ha a che fare con la mancanza di spessore che la nozione di "popolo" così concepita sembra denotare. Posta in tal modo, l'argomentazione di Innerarity, sviluppata ampiamente nella seconda parte del volume: Gli attori: chi siamo noi?, sembrerebbe legittimare le istanze comunitariste e le critiche sollevate da tale paradigma alla estraneità del soggetto liberale. In realtà, quello di Innerarity non è un richiamo al radicamento bensì alla partecipazione.
La nozione di popolo, e più generalmente l'interpretazione autentica con la quale deve intendersi il pronome "noi", che funge da soggetto all'agire politico di una società sostanzialmente democratica, è caratterizzato non tanto da un'omogeneità di valori, di visioni e versioni del mondo, che peraltro spesso conduce ad uno sterile appiattimento culturale e a forme più o meno velate di intolleranza, quanto piuttosto dalla piena consapevolezza delle parti. Consapevolezza relativamente ai fatti, consapevolezza relativa alla natura poliedrica e cangiante della nostra identità.
L'applicazione di un modello unidimensionale, infatti, non rende conto della complessità che caratterizza le relazioni intersoggettive e intrasoggettive. L'acquisizione di una mentalità aperta e pronta al confronto necessita di una robusta competenza interculturale. Un aspetto cruciale è dato dalla non rassegnazione all'inevitabilità dello scontro tra civiltà. Ogni identità, infatti, è frutto di convenzioni, spesso nobilitate attraverso mascheramenti morali o attraverso artificiose narrazioni sempre e comunque contingenti. L'uscita dai confini sicuri dell'appartenenza e del pregiudizio costituisce una efficace metafora della sfida esistenziale. Senza forzare troppo l'afflato retorico è possibile affermare che l'unico modo per ritrovarsi è probabilmente quello di cominciare a perdersi, ovvero di rinunciare a quel rassicurante e fittizio senso di protezione dettato dall'accettazione passiva di false certezze.
Consapevolezza e capacità critica, tuttavia, sono elementi che richiedono la presenza di un'opinione pubblica correttamente informata. Scegliere significa, infatti, valutare la preferibilità di un esito, in termini di rapporto tra costi e benefici, di responsabilità o conseguenze, alla luce di un corredo ampio e particolareggiato di notizie e informazioni pertinenti. In un recente saggio intitolato Infotopia (2006), Cass Sunstein ha sottolineato la rilevanza sociale della scelta collettiva come pure la fragilità delle procedure deliberative che poggino su false percezioni o su conoscenze non sottoposte ad una corretta analisi. Viviamo in un mondo dominato dall'informazione, nel quale è possibile comunicare in tempo reale indipendentemente dalle effettive distanze geografiche.
"I media - scrive Innerarity - creano un'integrazione comunicativa istantanea della società mondiale e ci inducono in questo modo a pensare che viviamo in un mondo unico e non in realtà incommensurabili. I media hanno esteso enormemente le dimensioni del comune e della sfera pubblica, fenomeni che altrimenti non risulterebbero così ampi e visibili" (p. 85).
Nondimeno, è necessario chiedersi se l'incredibile mole di informazioni disponibili contribuiscano a rendere più autentica e rispondente al vero l'immagine del mondo. Ciò che Innerarity sottolinea è la presenza di una evidente difformità comunicativa. In accordo con Luhmann secondo cui "il medium è il messaggio", i mezzi di comunicazione si sono resi indipendenti dalla realtà che sono chiamati a descrivere. La loro funzione non si limita più all'osservazione e alla diffusione dei fatti, ma ha assunto sempre più un ruolo attivo. I media creano la notizia, la propongono (o la impongono) in maniera adeguata. Alla stregua di ogni altro genere di consumo, i fatti vengono plasmati, confezionati allo scopo di adattarli alle attese dei consumatori. Ed alla stregua di un genere di consumo, l'informazione è allo stesso modo deperibile.
"I media si muovono sempre a partire dalle presunte attese dei telespettatori. Se tale presupposizione non trova riscontro il mezzo fallisce e muore, così come decadono temi concreti o diminuiscono le quote. Questa attesa è ciò che conferisce all'imposizione degli argomenti un carattere sperimentale. L'opinione pubblica non rispecchia ciò che la gente pensa, bensì ciò che la gente pensa che la gente pensi" (p. 99).
La diacronia tra l'evento e la sua rappresentazione contribuisce ad alimentare l'illusione della realtà, o più precisamente l'illusione di vivere in un eterno presente perfettamente noto e addomesticabile. La realtà rappresentata dai media però non prevede alcuna forma di fenomenologia, non necessita di collegamenti temporali: non esistono dunque antefatti, né tantomeno conseguenze.
Questa distorsione inibisce la capacità deliberativa dell'opinione pubblica, pur soddisfacendo apparentemente il bisogno di avere un punto di vista, qualunque esso sia. Sotto questo profilo, gli esperimenti sociali condotti da Fishkin e Ackerman illustrano con estrema chiarezza una simile anomalia e rendono conto della necessità di un nuovo modello deliberativo di democrazia. Entro questa prospettiva, la nostalgia della realtà rappresenta il sintomo inconscio di un disagio profondo. Abbiamo bisogno di entrare in contatto con la realtà, ma non siamo più in grado di riconoscerla. Lo scenario del mondo descritto dai media è un ossimoro (un gigantesco e deprimente reality show): esso è una semplice costruzione, una scenografia pronta ad essere sostituita a seconda dell'esigenze del copione di volta in volta rappresentato. Sembra così dissolversi l'illusione di Habermas relativa al ruolo salvifico dei mezzi di comunicazione. E seguendo Innerarity è evidente che la costruzione di un nuovo spazio pubblico richiede una revisione radicale della funzione pubblica dei media.
È chiaro che l'addomesticamento dei mezzi di comunicazione si riveli funzionale ad una gestione privatistica dello spazio pubblico. L'artificialità di questo eterno presente è uno strumento utile di controllo ed inibizione della coscienza collettiva.
Ecco perché, del tutto conseguentemente, il secondo elemento di interesse nell'analisi delle ragioni della crisi dell'opinione pubblica ha a che vedere con l'assenza di prospettiva dell'azione politica. In sostanza, le strategie di governo appaiono improntate ad una mera gestione della contingenza, esprimono una capacità deliberativa incapace di progettare, programmare o, più semplicemente di rivoluzionare, nel senso arendtiano del termine, lo status quo. Sotto questo profilo acquisisce un significato rilevante la distinzione, introdotta da Innerarity, tra le funzione dello Stato, inteso nel suo aspetto meramente formale, e le funzioni ideali della politica. La dimensione politica non si identifica né si sovrappone alla dimensione governativa. L'agire politico implica l'adozione di una prospettiva ampia, indipendente dalla pura e semplice contingenza e, per sua natura, aperta.
Nella terza parte del volume: Le azioni: articolare lo spazio pubblico, Innerarity individua alcune possibili strategie di intervento in vista di un concreto e fruttuoso recupero della dimensione politica. In primo luogo, è necessario prendere coscienza della natura interdipendente delle relazioni intersoggettive. In altre parole, la complessità sociale non può essere racchiusa nelle rigide gabbie della gerarchia burocratizzata delle istituzioni statali. Al modello burocratico del governo, dovrebbe essere preferito il modello aperto e dinamico della governance. La gestione dinamica della cosa pubblica incentiva lo spirito cooperativo degli attori sociale e rafforza il legame di reciprocità tra le parti. Riassumendo con una formula efficace il senso di questa radicale trasformazione sociale è possibile affermare che l'essenza stessa del buon governo è data dal giusto rapporto tra cooperazione e divisione delle competenze: "tutta la cooperazione possibile in mezzo alla minima gerarchia necessaria" (p. 238).
Posta in questi termini, l'ipotesi tracciata da Innerarity sembrerebbe legittimare una qualche forma di Stato minimo. In realtà, la distinzione tra Stato e politica ha proprio lo scopo di evitare questo fraintendimento. La riduzione del potere coercitivo delle gerarchie statuali non implica necessariamente una riduzione della sfera di influenza della politica. Ciò che si contesta è l'inefficienza di alcune strategie istituzionali e non la loro funzione politica.
Il passaggio dalla gerarchia alla eterarchia va nella direzione di una maggiore efficacia nella individuazione delle soluzioni dei problemi, partendo dal presupposto che una buona decisione prescinde dai vincoli della gerarchia e considerando che la valutazione del rapporto tra costi e benefici di una scelta dovrebbe contemplare anche le eventuali ricadute sulle generazioni future. Quest'ultimo aspetto, apparentemente secondario, definisce una importante distinzione tra la mera attività amministrativa e l'azione politica. Ciò che caratterizza la politica, infatti è la sua spinta utopistica: la capacità di farsi carico del futuro.
La consapevolezza della natura interdipendente delle relazioni tra i soggetti può essere estesa anche alla definizione delle relazioni tra gli stati. Il modello di spazio pubblico suggerito da Innerarity, infatti, si inserisce all'interno di un contesto tipicamente cosmopolitico. La liberazione dal giogo della gerarchia, l'attribuzione di sempre maggiori responsabilità politiche e decisionali a soggetti non governativi, in breve il ritorno sulla scena pubblica della società civile, impone una seria riconfigurazione della nozione di sovranità. La cosmopoliticizzazione dello spazio pubblico rappresenta un processo dotato di una forte caratura inclusiva e concretamente democratica e, come in parte ci insegna l'esperimento europeo, tale processo implica una messa in discussione della tradizionale concezione di sovranità. Alla base della necessità di rivedere e riformulare tale nozione vi è il bisogno politico di una diversa identificazione di ciò che rappresenta il "bene comune" e l'urgenza di individuare strumenti democratici in grado di garantirne sostanzialmente il pieno perseguimento.

Bibliografia

J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, a cura di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2002
J. J. Rousseau, Il contratto sociale, traduzione e note di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994
C. Sunstein, Infotopia. How many minds produce knowledge, Oxford University Press, New York 2006

Indice

Introduzione - Un concetto per rinnovare la filosofia politica 
Parte prima - Lo scenario: i mondi comuni 
Parte seconda - Gli attori: chi siamo noi? 
Parte terza - Le azioni: articolare lo spazio pubblico 
Bibliografia


L'autore

Daniel Innerarity è professore di Storia della Filosofia presso l’Università di Saragozza. È autore di diversi libri, tra cui La transformación de la politica, per il quale ha ricevuto il Premio Miguel de Unamuno per la saggistica e il Premio nazionale per la saggisitica. Collabora assiduamente con “El País” e con altre testate giornalistiche spagnole. Il suo primo libro tradotto in italiano è stato La società invisibile (2007).

1 commento:

MAURO PASTORE ha detto...

Nonostante il recensore della pubblicazione filosofica "Il nuovo spazio pubblico" del pensatore D. Interarity, concentri sua attenzione su elementi interni e su relazioni col passato dell'opera filosofica-politica in cui essa già consiste, tuttavia comparando risultati recensorii ed indice di Autore si può intender originale contenuto di opera stessa, in recensione mostrato solo in parte e con aggiunta di riflessione che non è specchio ma riconduzione-ricomposizione ad altra filosofia non di Autore, alterità che non è alterazione perché riformulazione espressiva-interpretativa ma resta non solo del tutto esterna pure estranea a pensiero originario, perché di questo inversione in politica-filosofica. Tale recensoria non appartenenza che nel presentare rende all'oggetto presentato anche altra rappresentazione, soggettiva ed impropria, non è adatta a polivoche intellettualizzazioni dei concetti di appartenenza, di fatto in recensione ridotte a condizioni necessitanti ed assolute e che invece in Piano di autore corrispondono necessariamente, per unicità, a vastità di dimensione inclusiva-inclusa e con solo relativa impossibilità e negazioni di possibilità solo non assolute, entrambe altramente e non altre ed anche funzioni, per non unicità dimensionalità non esclusivale e polidimensionalità puranche, mentre il recensore oltre a ridurne parzializzandone e trasvalutandone non indifferentemente ne riferisce solo ad unicità e non alterando ma pur sempre presentando con rappresentare altramente; logica mondana ma non imparziale questa sua e non di Autore; e data coessenza non coesistenza politica di oggetto presentato-rappresentato, dunque la recensione ha valenza, sia pure non attiva, censoria, neppure essendo solo re-censione ma recensione-censione, che poco offre a chi vuol sapere ed ancor meno ad ipotetico censore potrebbe offrire. Di fatto in recensione si trova anche separato 'censo' degli elementi filosofici di opera recensita e nessun resoconto sufficiente sul senso filosofico originario di essa, che non può essere incluso in rappresentazione inconsapevole di volontà di stesso rappresentare perché ha un significato non soltanto mondano e tantomeno ingenuo.

Essendo il cosmo ordine, necessità, completezza, non totalità, incatalogabilità, insondabilità, tutto l'opposto cioè della realtà meramente rappresentativa, il decadimento della sfera pubblica della politica, da manifestazione ad automanifestazione, inclina verso arbitrio mondano; e la filosofia ha identificato, di questa chiusura comunicativa, la causa: ispirazione in stessa realtà politica con influenza da realtà mista extrapolitica ed impolitica. Ne consegue che la politica non ha da chiudersi nella sua gerarchia che gli è stata a sua volta chiusa esternamente cioè dal mondo incapace di asseverare la funzione della politica; ma tal 'apertura' politica deve esser a sua volta politica altrimenti sarebbe inane se soggetta a stesso chiudersi esterno, ineluttabilmente impositivo quindi distruttivo. Aprire ad un potere, in tal caso alla "eterarchia", senza proprie strutture istituzionali che vincolerebbero, quindi mobile e privo di peso politico ma dinamicamente influente in se stesso, non eterodotto od 'ortodosso'.
Però tale eterarchia non è antietnica perché non è fatta per negare appartenenze e legami di appartenenze e deve anzi per aver reale ruolo ed effettiva funzione rispettare le facoltà etnarchiche, altrimenti si disintegrerebbe poiché ineluttabilmente senza soggetto né oggetto e solo tramite, verbo inutile ugualmente al messaggio fatto del proprio mezzo, fallendo dunque lo scopo di ridestare efficienza politica comunicativa e disperdendosi tra gli altri poteri uguali non politici. Circa i limiti del rimedio, si consideri che il potere politico dell'arte crea con messaggio stesso il potere ma non è medietà bensì finalità pur relativa.

MAURO PASTORE