domenica 20 luglio 2008

Jacobs, Wilhelm G., Leggere Schelling, a cura di C. Tatasciore.

Milano, Guerini, 2008, pp. 168, € 22,00, ISBN 9788883359811.

Recensione di Davide Sisto - 20/07/08

Storia della filosofia (moderna)

“Questo volume mira a destare la curiosità nei confronti della lettura di Schelling. Inteso filosoficamente, ciò vuol dire addurre delle ragioni per cui si deve studiare questo filosofo. Queste ragioni devono convincere il lettore del fatto che per loro è un profitto leggere Schelling” (p. 23). In poche lineari parole è racchiuso l’intento fondamentale che guida il presente saggio di Jacobs, pubblicato originariamente nel 2004, in occasione del 150° anniversario della morte del filosofo, e ora tradotto per la prima volta in lingua italiana da Carlo Tatasciore per la collana Schellinghiana di “Guerini e associati”, le cui iniziative editoriali in campo schellinghiano sono promosse dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Tentando, infatti, di ricostruire per sommi capi il tortuoso – spesso enigmatico – iter speculativo di Schelling, l’autore si prefigge lo scopo di offrire semplicemente indicazioni tematiche e spunti ermeneutici tali, non solo da stimolare la lettura delle opere di Schelling da parte del singolo appassionato di studi filosofici, ma anche e soprattutto da riportare alla luce quegli elementi propriamente teoretici che, nel sottrarre – una volta per tutte – il pensiero schellinghiano a quel desueto pregiudizio storiografico che lo incastona schematicamente e rigidamente tra l’idealismo soggettivo di Fichte e il razionalismo metafisico di Hegel, lo possano rendere appetibile per un odierno lavoro di dottorato o di abilitazione.

“Perché dunque leggere Schelling?” (p. 27), si chiede Jacobs al termine dell’introduzione al saggio: “perché Schelling pensa in maniera radicale, o, detto in altro modo, a partire dal fondamento, o, ancora in altro modo, a partire dall’inizio” (ibid.). Ora, ciò che viene solitamente concepito come inizio del pensiero è la libertà, la quale “dovrebbe essere, oggi come sempre, degna di riflessione” (ibid.). A dire il vero, tale aspetto è stato negli ultimi anni trascurato dalla filosofia contemporanea, eccessivamente indaffarata in minuzie analitiche o in rompicapi logici, che disperdono il compito autenticamente socratico del filosofare all’interno di sistemi razionalistici avulsi dal reale o, comunque, poco attenti a distinguere la filosofia dalla scienza tout court. Come fecero in precedenza grandi interpreti schellinghiani quali – per esempio – Pareyson, Tilliette e Fuhrmans, Jacobs, una volta tracciato un rapido schizzo biografico del filosofo di Leonberg attraverso il riferimento ai suoi costanti trasferimenti nelle diverse città tedesche ove ha insegnato (pp. 33-44), intende sottolineare, in particolar modo, il suo approccio esistenziale alla filosofia, evidenziando l’abilità indiscussa con cui il pensatore tedesco riesce a creare un sistema speculativo composito, in grado di unire con intelligenza il razionale al simbolico, il logos al mito, il conscio all’inconscio. Per realizzare il suo proposito ermeneutico, l’autore segue il percorso filosofico schellinghiano – dalle dissertazioni giovanili del 1792 fino alle tarde lezioni della cosiddetta “filosofia positiva” – prendendo Kant come principale termine di confronto: “il modo migliore di entrare nella filosofia di Schelling – afferma laconicamente – è una solida conoscenza di Kant” (p. 24). L’intero testo mira proprio a imbastire un costante dialogo a distanza tra i due pensatori, cercando di porre all’attenzione del lettore i loro punti di contatto – così come le loro divergenze – in modo da tracciare a livello argomentativo un filo rosso che tenga insieme l’intera bibliografia schellinghiana, secondo quella linea direttrice che tematizza la realtà della libertà. Avverso alla stereotipata immagine che raffigura Schelling come un Proteo della filosofia, Jacobs ritiene sia possibile asserire l’univocità speculativa della filosofia schellinghiana, trovando nel concetto di libertà come autodeterminazione – scoperta che risale già all’estate del 1797 – quel “filo d’Arianna, seguendo il quale si possono percorrere i diversi campi della filosofia schellinghiana e concepirli come un’unica filosofia” (p. 75). La libertà intesa come autodeterminazione implica tanto il sapere circa la determinazione, quanto il volere la determinazione; “essa ha quindi un aspetto teoretico ed uno pratico. Entrambi sono aspetti di un solo medesimo atto dello spirito. In che modo essi possano essere pensati come un tutt’uno è ciò che Schelling tenterà di pensare fino alla fine” (p. 74). Volere e sapere instaurano fra loro, infatti, un rapporto di unità che, lungi dal sottintendere una connessione tra elementi estrinseci o inversamente un’identità indifferenziata, presuppone – ossimoricamente – la loro separazione, da cui seguono un’attività soggettiva (conscia) e una oggettiva (inconscia), le quali tuttavia restano legate insieme in virtù del rapporto di unità stesso: posta l’unità di reale e ideale a fondamento di ogni cosa, Schelling ha infatti in mente “una sola e medesima sostanza, che da un lato, cioè da quello inferiore, assume proprietà corporee, dal lato superiore, ovvero dal lato rivolto allo spirito, si risolve in un’essenza spirituale” (F.W.J. Schelling, Die Weltalter, in Sämmtliche Werke, hrsg. v. K.F.A. Schelling, Stuttgart-Augusta, Cotta, 1856-1861, vol. VIII, p. 284, corsivo nostro). Jacobs ritiene che questa particolare struttura, lontana dall’idealismo soggettivo di Fichte ma vicina al concetto kantiano di “incondizionato come totalità delle condizioni” (p. 80), quindi come un alcunché di identico e differente, si ripeta nell’intero iter speculativo schellinghiano, quale produttività incondizionata e ostacolo nella Naturphilosophie, costruzione del finito nell’infinito nell’Identitätssystem, rapporto tra natura in Dio e logos nella Freiheitsschrift, ragione e follia nei Weltalter, e infine distinzione tra filosofia negativa e filosofia positiva nella cosiddetta Spätphilosophie successiva agli anni ‘20 del XIX secolo (p. 75).

Partendo da tale struttura, si comprende – a detta dell’autore – la visione della natura organica come l’altro dello spirito, il cui essere incondizionato dipende soltanto dal suo legame con gli altri incondizionati, il soggetto e Dio, quale elemento mediatore tra i due, aspetto totalmente in linea con quanto Kant afferma nelle prime due critiche. Da ciò segue la convinzione di una prossimità originaria tra uomo e natura che la modernità dissolve, separando meccanicamente la legge astratta della riflessione dal sentimento: “considerata a partire da queste riflessioni, la crisi ecologica non è una crisi dell’ambiente, bensì la nostra propria crisi, poiché nella natura non vediamo l’altro di noi stessi, o forse, più esattamente, ciò che ci è proprio. Ed essa non è soltanto una crisi del vedere, ma ancor più del nostro agire […] considerare la natura come materia da trattare in modo casuale significa strappare non soltanto l’ambiente, ma con esso anche noi stessi, dal nesso organico” (p. 91).

Analizzato il ruolo privilegiato dell’arte – soprattutto all’interno della filosofia dell’identità – e il sistema delle arti elaborato con meticolosità dal filosofo tedesco, Jacobs riprende a esaminare la fondamentale concezione dell’Assoluto come unità che non annulla le differenze, là dove di solito viene indicato il passaggio schellinghiano dalla filosofia della natura alla filosofia della storia: vale a dire, nella Freiheitsschrift del 1809. A partire dallo scritto sulla libertà, l’Assoluto quale identità dell’unità e dell’opposizione viene concepito come vita e organismo, quindi “come libertà che fa se stessa per se stessa” (p. 108). Dio è causa sui, ma non meccanicamente, secondo l’insegnamento di Spinoza; è causa sui come “atto originario di affermazione di sé che è nel contempo apertura, cioè rivelazione e creazione” (Tatasciore, p. 14), segnato da una profonda dialettica interna tra natura e logos, necessità e libertà, principi metafisici inseparabili in Dio, ma separabili nelle creature finite. Dalla differenza che caratterizza il rapporto tra natura e logos in Dio e nelle creature finite scaturisce la concezione della libertà come facoltà del bene e del male.

Infine, Jacobs segue l’evolversi del concetto schellinghiano di libertà negli appunti delle lezioni sulla filosofia della mitologia – tema già affrontato negli scritti giovanili e nella filosofia dell’arte – e della rivelazione. Sulla base dell’interpretazione che Schelling offre dell’Antico Testamento, con una particolare attenzione per la dottrina del peccato originale, Jacobs pone l’accento sulla distinzione tra un politeismo relativo, che nasce dal pensare a un numero più o meno numeroso di dèi subordinati a un unico Dio supremo e sovrano, e un politeismo autentico, che nasce dall’ammettere più dèi che possono regnare solo successivamente, giacché ciascuno di essi è in una determinata fase il Dio supremo e sovrano (p. 115). Lo svolgimento di queste forme di politeismo seguono la crisi della coscienza preistorica del primo uomo, la cui necessaria trasfigurazione definitiva nello spirituale è venuta meno con la caduta di Adamo. Pertanto, all’analisi dell’allontanamento della coscienza da Dio che caratterizza l’immediata storia post peccatum, segue quella della riconquista del rapporto con Dio attraverso la libertà, che l’uomo ritrova dopo la rivelazione di Cristo.

Eccellente per la capacità sintetica di riassumere l’intera filosofia di Schelling in meno di centocinquanta pagine, riuscendo a seguire una precisa chiave di lettura – l’influenza di Kant sul concetto di libertà schellinghiano – in grado di donare coerenza all’intero percorso speculativo del filosofo tedesco e di attrarre l’attenzione del lettore neofita, il saggio di Jacobs tuttavia difetta, a nostro parere, là dove trascura – volutamente – quegli aspetti inconsueti che portano alla ribalta uno Schelling diverso, meno conforme ai cliché manualistici e alle formule interpretative comunemente accettate, quindi più filosoficamente variegato e imprevedibile. Pensiamo, per esempio, all’importante ruolo che il concetto della malinconia (Schwermut) ricopre nei cosiddetti scritti intermedi (1809-1815), precorrendo alcune idee decisive tanto dell’esistenzialismo quanto della psicoanalisi, alla particolare dottrina della “corporeità spirituale” (Geistleiblichkeit) ereditata dal pietismo württemberghese del XVIII secolo, alla visione profondamente (tardo?)romantica della natura nel sottovalutato dialogo Clara, alla dottrina tanatologico-escatologica che il filosofo elabora negli ultimi anni della sua vita. Tanti aspetti, troppo spesso omessi dalla Forschung schellinghiana per timore di tratteggiare uno Schelling irrazionalista, che rendono invece l’intera filosofia del pensatore di Leonberg un unicum all’interno del XIX secolo e un punto di partenza ineludibile per la chiara comprensione degli sviluppi speculativi della contemporaneità.

Indice

Introduzione
I. «Rama Dama»
II. Schizzo biografico
III. L’inizio con Kant
IV. La prima filosofia della mitologia
V. Autocoscienza e libertà
VI. Natura e incondizionatezza
VII. L’arte
VIII. Principi E Storia
IX. La tarda filosofia della mitologia
X. Ragione e rivelazione
XI. Leggere Schelling?
Bibliografia


L'autore

Wilhelm G. Jacobs è professore ordinario presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Dal 1968 è membro della Schelling Kommission presso la Bayerische Akademie der Wissenschaften, il cui compito consiste nel pubblicare l’edizione storico-critica delle opere di Schelling. Consigliere della Internationale Schelling Gesellschaft è altresì presidente della Deutsch-Polnische Gesellschaft für Philosophie.

Links

Internationale Schelling Gesellschaft: http://www.schelling-gesellschaft.de/

Kommission zur Herausgabe der Schriften von Schelling (presso la Bayerische Akademie der Wissenschaften): 

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