martedì 16 dicembre 2008

Badano, Claudio, La possibilità e il senso. Un itinerario intorno al tema della possibilità nella filosofia del pensiero: Meinong, Husserl, Wittgenstein.

Roma, Armando, 2008, ISBN 978-88-6081-339-8   € 25,00

Nota di Elisa Leonzio – 16/12/2008

Possibilità, filosofia del pensiero

La possibilità e il senso è il primo volume di una trilogia che ha per tema il pensiero della possibilità nella filosofia europea della prima metà del ‘900 – ad esso seguiranno L’apriori della storia e la possibilità e Il possibile tra l’essere ed il nulla. Il saggio muove dalla considerazione del ruolo svolto dalle geometrie non-euclidee nelle sviluppo della fisica di inizio Novecento: l’idea, infatti, che sia possibile “svincolare gli assiomi geometrici dal requisito dell’evidenza intuitiva” (p. 7) – idea che portò ad una messa in discussione del V postulato euclideo – conduce all’affermazione di un nuovo metodo, fondato sull’assunzione di ipotesi di carattere controintuitivo, che favorisce, in fisica, la nascita della teoria della relatività. Questa trasformazione si riflette su ogni altro campo del sapere, non ultimo quello della filosofia. Il logico polacco Lukasiewicz, in particolare, muove da queste premesse per confutare il principio di non-contraddizione che è alla base della filosofia aristotelica e di tutta la logica successiva, ed il cui errore di fondo consisterebbe nella confusione tra piano ontologico, logico e psicologico. Egli, riprendendo la questione dei “futuri contingenti” affrontata da Aristotele nel De interpretatione, costruisce un sistema di logica trivalente: l’enunciato relativo ad un evento che non è ancora accaduto non è né vero né falso, ma ha un terzo valore, il “possibile”; altrettanto si può dire per quegli oggetti generali ai quali il principio del terzo escluso è inapplicabile.
In questo contesto centrale è la teoria dell’oggetto (Gegenstandstheorie) – e all’interno di essa il concetto di “oggetto impossibile” – ideata dal filosofo austriaco Alexius Meinong, cui è dedicata la prima parte del saggio di Badano. Nonostante la dimenticanza cui il suo pensiero è andato incontro in Italia, infatti, notevolissima è l’importanza di Meinong per lo sviluppo delle principali prospettive teoretiche nella filosofia e nella psicologia primo-novecentesche. Influssi delle teorie di Meinong, a volte pure esplicitamente citate, si ritrovano anche in Husserl e in Wittgenstein, autori ai quali Badano dedica per questo la seconda e la terza parte del suo lavoro.
Meinong è, tra i tre autori considerati, l’unico ad aver dedicato alla nozione di possibilità un’intera opera, Über Möglichkeit und Wahrscheinlichkeit. Beiträge zur Gegenstandstheorie und Erkentnisstheorie, del 1915. Il maggiore equivoco in cui la filosofia è caduta a proposito della possibilità concerne l’individuazione degli enti di cui la possibilità è attributo; la realtà delle cose concrete (l’orizzonte dell’esserci, Dasein) soggiace all’alternativa tra essere e non-essere e tra questi due poli non vi è spazio per il possibile. L’orizzonte dell’esserci è però solo il modo più immediato della realtà, ma non l’unico; accanto ad esso vi è il non-esistente, che la metafisica ha sempre reputato irrilevante, ma che l’ontologia deve considerare. Meinong introduce la distinzione tra oggetto (Objekt) e “obietivo” (Objektiv). Quest’ultimo indica la proposizione oggettiva (“daß”-Satz) che descrive lo stato delle cose. Solo gli oggetti fisici sono esistenti in senso stretto, mentre per gli obiettivi Meinong introduce la categoria della sussistenza (Bestand). A distinguere l’ambito delle cose materiali da quello dei significati sono le modalità, cioè le determinazioni dell’esser-così degli obiettivi. E tra le proprietà modali delle proposizioni vi è il predicato del “possibile”: la possibilità dunque non attiene alla dimensione temporale reale (al futuro), ma indica la “condizione di incompiutezza fattuale di un obiettivo” (p. 25).
Meinong mira a fornire un concetto positivo di possibilità che superi la nozione logica del ‘meramente-possibile’, di una ‘possibilità incapace di incremento’, in vista di quella ‘capace di incremento’ che è misurabile con il calcolo delle probabilità.
Se la possibilità concerne gli obiettivi, essa deve però avere a che fare anche con gli oggetti (che degli obiettivi costituiscono il “materiale”). “L’implicazione dall’obiettivo all’oggetto è del resto comprovata dal rapporto che lega il giudizio sulla possibilità al giudizio di possibilità: la possibilità del fatto che il triangolo sia rettangolo implica l’attribuzione al triangolo del poter-essere-rettangolo” (p. 63). Occorre allora identificare gli oggetti che possano fungere da soggetti delle possibilità. Essi non possono essere gli oggetti del mondo reale, che, per il principio del terzo escluso, o esistono o non esistono. Vi sono però oggetti che Meinong definisce oggetti incompleti (unvollständige Gegenstände), come quello “un qualcosa di blu” e come il triangolo (ossia un oggetto intellettuale, un Begriffsgegenstand). “Le possibilità pure sono le proprietà compatibili rispetto a cui l’oggetto incompleto è indeterminato e che possono essergli variamente attribuite” (p. 66).
Accanto all’esistenza e alla sussistenza, Meinong introduce poi il modo dell’essere-così (Sosein) dell’oggetto, che è completamente indipendente dall’essere dell’oggetto stesso. “Autonomo dall’essere, l’oggetto (Gegenstand) è anche libero dai vincoli cui l’essere è sottoposto, compreso quello di non-contraddizione. Un oggetto quale il “quadrato rotondo”, ad esempio, benché né reale né possibile, è comunque qualcosa che è analiticamente determinato nel suo essere-così [...] Un obiettivo esistente non richiede l’esistenza reale dell’oggetto che figura in esso come soggetto” (p. 77). Questi sono gli oggetti impossibili, gli oggetti contraddittori, che si affiancano agli altri oggetti non-esistenti dell’universo meinonghiano: oggetti ideali, oggetti inattuali, oggetti non fattuali. “L’oggetto impossibile è privo di qualsiasi possibilità, intesa in senso proprio; esso però, determinato nel suo essere-così, acquista veste semantica e rientra quindi nelle possibilità di essere in senso lato. [...] in questo senso è innegabile che la Gegenstandstheorie sia una teoria che dilata l’ambito del possibile” (p. 85). Intendendo il Gegenstand come entità indipendente dall’attualità dell’atto percettivo che la pensa, Meinong si oppone inoltre allo psicologismo, senza con ciò porre in discussione il ruolo che il fattore psicologico svolge nell’esperienza gnoseologica.
Meinong sviluppa inoltre – a ciò sono dedicati gli ultimi due capitoli della prima sezione – la nozione di Außersein (il “fuori-essere”), che è pensata come connotazione dell’oggetto puro o, conferendo ad esso un connotato ontologico, come un terzo modo di essere, e la nozione di Annahme (assunzione), che è la modalità epistemica con la quale ci dirigiamo al non-fattuale e che, non essendo vincolata al principio di non-contraddizione, consente di configurare l’intenzionamento di un oggetto impossibile.
La seconda parte del saggio è dedicata a Edmund Husserl, di cui Badano illustra la dottrina logico-semantica delineata nelle Ricerche logiche, evidenziandone i punti di convergenza, m pure di rottura rispetto ala Gegenstandstheorie di Meinong. Le stesse entità logiche – oggetti, obiettivi, stati di cose – ricorrono infatti nelle Ricerche e anche lì sono concepite come “oggetti di ordine superiore dotati di natura autonoma, indipendenti cioè dal loro essere concretamente pensati” (p. 147). Husserl distingue due funzioni del linguaggio, quella comunicativa e quella significante. Il significato però non è costantemente associato ad oggetti realmente esistente, come prova il fatto che vi siano nomi che denotano oggetti inesistenti. L’espressione significante è dunque soggetta solo alle leggi logico-grammaticali che regolano i nessi combinatori fra le diverse categorie semantiche del contesto grammaticale. Il linguaggio gode dunque di una possibilità significante che lo rende autonomo da vincoli realistici: l’oggetto significato può essere reale, ma anche fittizio e perfino impossibile. L’unico limite che l’espressione significante deve rispettare è dato dalla delimitazione ontologica, dalle possibilità ed impossibilità ontologiche di ogni specie di oggetti. Le specie sono oggetti singolari che si differenziano dagli oggetti materiali in cui si esemplificano per la loro natura ideale. Su questo terreno, come Badano evidenzia, si situa la differenza fondamentale rispetto alla teoria degli oggetti impossibili di Meinong: per Husserl, infatti, questi ultimi non hanno alcuna forma d’essere; il carattere dell’esser-pensato, infatti, non conferisce esistenza a qualunque oggetto della rappresentazione e gli oggetti della finzione e del controsenso sono un nulla, sono possibilità vuote.
Dalla centralità della nozione di forma, cui si aggiunge l’elemento intuitivo, deriva la dottrina ‘eidetica’ che viene esposta in Idee I: “essa ripercorre il cammino che dai dati di fatto (Tatsache) sensibili, percepiti nel corso dell’esperienza naturale, risale all’intuizione degli eide ad essi immanenti” (p. 159). Per compiere questo tragitto la fenomenologia ricorre al metodo della variazione: “assunto un dato come esemplare del concetto che si intende spiegare, se ne variano via via le proprietà fino al punto in cui la variazione non è più possibile” (p. 159). Tra il 1920 ed il 1926 Husserl matura la convinzione che le leggi logico-formali rappresentino condizioni solo negative di possibilità. Per ricercare una condizione positiva, invece, Husserl ricorre ad una ‘indagine genetica’, distinguendo tra la dimensione generale dell’esperienza della coscienza ed il momento della intenzionalità. La sfera della possibilità si dischiude quando l’insorgere di un contrasto interrompe il soddisfacimento delle intenzioni di aspettazioni ed insinua il dubbio: si avranno allora “possibilità aperte” quando l’incertezza scaturisce nella indifferenza e “possibilità problematiche” quando essa scaturisce nella differenza, dove “l’intenzione interrogativa deve operare una scelta tra possibilità contrapposte che esercitano una attrazione effettiva sull’io” (p.190).
Nell’ultimo capitolo della seconda sezione Badano si sofferma in maniera più approfondita sulla doppia valenza della possibilità che dalle argomentazioni precedenti è emersa: “quella del contrasto di possibilità concorrenti che viene a modificare la certezza; quella – più radicale – che invece priva della certezza stessa” (p. 219). Si giunge con ciò alla possibilità che il mondo nel suo complesso sia oggetto di una illusione percettiva.
Nell’ultima sezione del suo saggio Badano muove nuovamente dalle nozioni meinonghiane di oggetto e di “stato di cose”, che egli rintraccia nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1918), mostrando però come quest’ultimo, impiegandole, pervenga ad esiti molto diversi: l’indagine dei significati, infatti, non conduce in Wittgenstein, come accadeva invece in Meinong, ad una “proliferazione ontologica che dà vita ad entità di nuovo tipo, quanto piuttosto assolve il campito di isolare la griglia logico-grammaticale entro cui la possibilità dei significati viene delimitata” (p. 241). “Possibili” sono, in questo primo periodo della riflessione di Wittgenstein, tutte le proposizioni che non sono insensate (unsinnig), che sono cioè grammaticalmente corrette. Oltre alla correttezza grammaticale, esse devono però anche essere dotate di senso, raffigurare situazioni possibili, stati di cose di cui sia immaginabile l’opposto. Wittgenstein sviluppa nel Tractatus una tavola della possibilità di verità, ai cui due estremi si trovano la tautologia e la contraddizione: tra i due estremi si collocano le proposizioni di probabilità, che non descrivono uno stato di cose possibili, bensì una condizione formale di eventualità di verità.
Nella fase intermedia del suo pensiero, documentata soprattutto dalle Osservazioni filosofiche del 1929-1930, si assiste ad una svolta pragmatica: centrale diviene cioè l’applicazione, l’uso del linguaggio. Dall’isomorfismo immediato di linguaggio e mondo si passa allora all’analisi della grammatica logica degli “spazi”, per ricostruire così il sistema di coordinate che lega il soggetto alla realtà. Il soggetto è legato al mondo attraverso una modalità percettiva che gli è data dall’esperienza fenomenologica degli spazi: tempo, spazio, colori, suoni. «L’esperienza che nella realtà facciamo del finito rimanda ad una dimensione di possibilità che è in-finita. Vi è dunque un duplice livello dell’esperienza e quindi anche due diverse competenze: la fisica si occupa degli stati di cose reali che possono essere veri o falsi; la fenomenologia si occupa invece del possibile, corrispondente alla sfera del senso. Ogni spazio è dunque una condizione di possibilità. Per evidenziarlo Wittgenstein ricorre al “metodo immaginativo” che consiste nell’immaginare situazioni che rasentino l’impossibilità fisica, sì da mettere indirettamente in risalto il punto fin dove si estende il possibile.
A partire dal Big Typerscript, raccolta di appunti degli anni 1929-1932, tuttavia, Wittgenstein respinge il proprio stesso assunto che sia l’esperienza fenomenologica a definire l’ambito della possibilità. È soprattutto con le Ricerche filosofiche (1941-9), comunque, che questa critica è definitivamente sancita. Centrale si fa qui la nozione di Lebensform (forma di vita): “le regole logiche consentono il funzionamento dei giochi linguistici, ma non è la logica che vi sta a fondamento, bensì i comportamenti prelinguistici a cui la storia naturale degli uomini risale come suo termina intrascendibile” (p. 291). Wittgenstein invita ora ad un esercizio: provare a pensare come possibile ciò che per noi è impossibile; ciò consente di dimostrare che l’idea dell’univocità del nostro sistema logico è solo un’idea fuorviante: prefigurando così altre logiche a altri giochi linguistici, tale “metodo immaginativo sembra porci in una carta misura all’esterno del nostro sistema grammaticale, così da poterlo descrivere. L’escogitare possibilità, se viene inteso sotto questo profilo, non appare più come attività surrettizia della filosofia, ma come metodo in cui essa può esplicare la sua funzione critica” (p. 294).

Indice

PARTE PRIMA: ALEXIUS MEINONG
Capitolo primo: La possibilità (Möglichkeit) e gli “obiettivi” (Objektive)
Capitolo secondo: Il semplicemente-possibile (das bloß Möglisches) e la possibilità capace di incremento (steigerungsfähige Möglichkeit)
Capitolo terzo: Supposizione (Vermutung) e probabilità (Wahrscheinlichkeit)
Capitolo quarto: Possibilità pure (Nurmöglichkeiten) e possibilità applicate (angewandte Möglichkeiten)
Capitolo quinto: Gli “oggetti impossibili” (unmögliche Gegenstände)
Capitolo sesto: La possibilità percettiva (Wahrnehmungsmöglichkeit)
Capitolo settimo: Il “fuori-essere” (Außersein)
Capitolo ottavo: La libertà illimitata delle assunzioni (Annahmen)
PARTE SECONDA: EDMUND HUSSERL
Capitolo primo: Possibile ed impossibile fenomenologici
Capitolo secondo: Il sistema delle possibilità eidetiche
Capitolo terzo: Il noema del possibile
Capitolo quarto: Le possibilità problematiche (fragliche Möglichkeiten)
Capitolo quinto: Le possibilità vuote dell’immaginazione
Capitolo sesto: L’apparenza trascendentale: la possibile irrealtà del mondo
PARTE TERZA: LUDWIG WITTGENSTEIN
Capitolo primo: Contingentismo e possibilità logico-grammaticale
Capitolo secondo: Grammatica degli spazi e limiti di possibilità
Capitolo terzo: Il superamento della concezione “umbratile” della possibilità
Capitolo quarto: La contraddizione e le forme di vita


L'autore

Claudio Badano insegna Filosofia e Storia presso il liceo G.P.Vieusseux. Ha pubblicato tra gli altri Le origini del movimento socialista nel Ponente ligure 1880-1900, Dominici (1984), Clarence Bicknell studioso e socialista, in “Insieme”, mensile della SOMS di Oneglia, n. 2, anno V (1984) e Malattia tedesca e cultura europea, Quaderno filosofico a cura dell’ICIT (1994).

lunedì 15 dicembre 2008

AA.VV., Utilitarianism: Historical Theories and Contemporary Debates, a cura di Gianfranco Pellegrino,

in «Notizie di Politeia», anno XXIV, N. 90, 2008, pp. 123, €. 12,50, ISSN 1128-2401.

Recensione di Francesco Ferraro, 15/12/2008

filosofia morale, utilitarismo

Questo numero di «Notizie di Politeia» raccoglie dieci articoli originati da interventi alla conferenza Utilitarianism: An Ethic of Experience?, tenutasi all’Università “La Sapienza” di Roma dal 12 al 14 giugno 2007. Come il titolo della conferenza suggerisce, il filo conduttore comune è il rapporto con l’esperienza che hanno le teorie etiche di tipo utilitarista, o più in generale consequenzialista. Il curatore Gianfranco Pellegrino afferma, nella sua Introduzione, che l’esito della conferenza è stato di chiarire che l’utilitarismo è, di fatto, un’etica dell’esperienza: non soltanto perché nata nel contesto della filosofia empirista, ma anche perché tuttora vocata alla risoluzione di dilemmi pratici. Persino la critica più nota all’utilitarismo, quella di condurre a risultati controintuitivi, riguarda comunque il suo rapporto con l’esperienza. Il volume è, in realtà, divisibile in due sezioni: la prima comprende interventi di argomento storico-filosofico sul cosiddetto utilitarismo classico; la seconda sezione contiene, invece, articoli di riflessione teorica su alcuni problemi di etica applicata. La parte storica comincia con un articolo di Frederick Rosen su John Stuart Mill’s Science of Politics, incentrato sull’importanza che Mill attribuisce alla scienza del carattere o “etologia” (Ethology). Tale scienza è per lui una “scienza deduttiva”, in quanto sistema di corollari dipendenti dalla “psicologia” (Psychology), la quale è invece una scienza sperimentale e fondata sull’osservazione. L’etologia come scienza corrisponde all’educazione come arte, secondo la distinzione milliana fra scienze e arti, che corregge quella già tracciata da Bentham. È l’ “etologia politica” a essere fondamentale come branca di quell’altra scienza deduttiva che è la scienza sociale o “sociologia”. Riguardo al tema centrale dell’articolo, la scienza della politica o del governo, per Mill essa non ha senso se non all’interno del quadro generale della sociologia. È grazie a quest’ultima, e a quella sua branca che è l’etologia politica, che egli può dichiarare il governo rappresentativo come la miglior forma di governo. La scienza del carattere, infatti, fornisce per Mill la distinzione fra “carattere attivo” e “carattere passivo” e permette di stabilire quale dei due tipi prevalga nelle differenti culture, religioni e popolazioni. Una volta stabilita la superiorità del carattere attivo, egli sostiene che un governo rappresentativo si confà ad esso molto più che il dispotismo, per quanto possa essere illuminato. Rosen non manca di sottolineare l’arbitrarietà delle distinzioni milliane e i salti logici della sua argomentazione.
Nel saggio Hume, Experience and Value, Peter Kail non intende chiedersi, come si è fatto a lungo, se Hume sia o non sia un utilitarista, piuttosto si propone di esaminare il suo “edonismo metafisico”. È questa una tesi cognitivista e internalista, per la quale il valore morale può essere oggetto di conoscenza e, inoltre, una volta conosciuto esso determina una spinta a perseguirlo. Detto altrimenti, il piacere è il bene e la sua conoscenza motiva a perseguirlo. Secondo Kail, Hume abbraccia questa tesi: per lui, la presenza e l’esperienza del piacere e del dolore rendono possibile qualsiasi giudizio di valore, qualsiasi pensiero su cosa sia buono e cattivo. Ciò è differente dal sostenere che “buono” significhi “che causa una sensazione piacevole”: l’analisi di Hume non è semantica, ma metafisica. Kail spiega che, se è vero che la ragione per Hume è solo la facoltà di comparare oggetti e stabilire relazioni fra loro – ed è priva di capacità motivazionale, dunque non può essere il fulcro della vita morale – è anche vero che le credenze possono essere gli oggetti di tale comparazione, e le credenze di per sé possono fornire motivazioni. Dunque, credere che qualcosa sia buono, secondo questa lettura, può benissimo spingere a perseguirlo. La credenza del bene e del male deriverebbe dall’impressione del piacere e del dolore, che ci spinge a perseguire certi oggetti piuttosto che altri.
L’articolo di Sergio Cremaschi, Utilitarianism and its Nineteenth-Century Critics, descrive il dibattito britannico ottocentesco sull’utilitarismo, partendo da un’indagine sul rapporto fra il pensiero di utilitaristi “teologici” come Paley e Cumberland e l’utilitarismo laico di Jeremy Bentham. C’è un’influenza indiretta, secondo Cremaschi, di quelli su questo, attraverso l’Essai de philosophie morale di Maupertuis. Di fatto, i critici dell’utilitarismo accomunarono Bentham a Paley sotto molti aspetti. Con estrema sintesi, Cremaschi passa in rassegna le critiche dell’utilitarismo provenienti da pensatori unitariani, anglicani, romantico-idealisti. Nel difendere l’utilitarismo, John Stuart Mill e Henry Sidgwick dovranno in qualche modo tener conto di queste critiche, col risultato di trasformarlo sostanzialmente rispetto alla versione benthamiana. Cremaschi mostra come la storia delle idee sia, in questo caso, utilmente preliminare allo “stile analitico”.
La parte storica di questo numero si conclude con il contributo di Annamaria Loche, Utilitarianism and Contract Theory. Democracy in Bentham and Rousseau. Loche confronta la filosofia politica di Bentham e di Rousseau su temi trattati da entrambi: la sovranità, il potere legislativo, la relazione fra autorità e individuo, la teoria del contratto sociale. Al di là delle evidenti differenze, come il fatto che Bentham accetti come una necessità che il popolo deleghi dei rappresentanti (purché questi siano controllabili e controllati), Loche mette in luce anche la vicinanza tra i due pensatori per quanto riguarda il tema della sovranità popolare e, soprattutto, per la presenza di una “matrice autoritaria” accanto al riconoscimento di una necessaria tutela delle esigenze individuali. Ciò che allontana Bentham da Rousseau è, secondo Loche, soprattutto il rifiuto benthamiano della teoria del contratto sociale, sostituita dalla teoria utilitarista. La democrazia, che per Rousseau è fondata sul patto di individui liberi e uguali, e possiede una forte natura normativa, è invece per Bentham uno strumento della massimizzazione dell’utilità.
I saggi di carattere teorico, contenuti nella seconda parte del volume, iniziano con la riflessione di John Skorupski su Utilitarian Arrogance. Skorupski esamina l’accusa all’utilitarismo di essere un’etica in qualche modo “arrogante”, che permette o raccomanda azioni individuali contrarie alle convinzioni morali più diffuse: per esempio, viaggiare sistematicamente senza pagare sui mezzi pubblici, a patto che i soldi risparmiati siano usati per fare del bene in misura maggiore del danno che si provoca. È molto interessante che Skorupski recuperi la critica di Hegel all’imperativo categorico kantiano per cercare di dare un senso all’accusa di arroganza. Per Hegel l’etica kantiana pecca di astrattezza, di vuoto formalismo, perché è scissa dai costumi e dalla morale condivisa nella società. Allo stesso modo, spiega Skorupski, l’arroganza utilitarista è una forma di astrattezza, che finisce per far diventare l’etica una faccenda privata, o meglio esoterica. Il problema non è l’elitarietà di questa etica, né la versione dell’utilitarismo “nel palazzo di governo”: il vero problema sono i rischi connessi al restringere la discussione pubblica, o addirittura al rinunciarvi. Il confronto con la morale condivisa, conclude Skorupski, è necessario anche all’utilitarista.
In Rule-consequentialism versus Act-consequentialism. Brad Hooker affronta il tema a lungo dibattuto delle differenze fra utilitarismo (o consequenzialismo) dell’atto e della regola, e della preferibilità dell’una o dell’altra versione. Ciò che caratterizza l’utilitarismo di Hooker, così come presentato anche nel suo libro del 2000 Ideal Code, Real World, è l’attenzione all’esigenza di internalizzare quelle regole considerate utilitaristicamente corrette. Non tutte le regole possono essere facilmente fatte proprie dalla grande maggioranza degli agenti morali. Il consequenzialismo della regola è superiore a quello dell’atto, perché tiene conto della difficoltà per la maggior parte di noi di accettare che ogni singolo atto debba avere conseguenze utilitaristicamente auspicabili (coi continui sacrifici che ciò comporterebbe). Hooker, inoltre, cerca di giustificare il suo consequenzialismo della regola sulla base di un “equilibrio riflessivo” – espressione notoriamente coniata da John Rawls – tra la speculazione teorica e le convinzioni e intuizioni morali comuni. Ciò permetterebbe, a suo parere, non soltanto di trovare un argomento non-consequenzialista a favore del suo rule-consequentialism, ma anche di renderlo compatibile con tutte le nostre intuizioni morali (laddove l’act-consequentialism sarebbe incompatibile con molte di esse).
In Utilitarianism as both Unattainable Ideal and Human Morality, Tim Mulgan segue Hooker nel delineare un consequenzialismo della regola che tenga conto dei “costi di internalizzazione” e che non si riduca all’equivalenza col consequenzialismo dell’atto. Il rapporto con l’esperienza, tema unificante di tutti gli articoli, emerge con l’affermare che il rule-consequentialism così delineato è il più adatto a diventare il codice morale della maggioranza degli umani: esso è un’etica “moderata”, poco incline alla coercizione morale (intesa come richiesta agli agenti di sacrifici notevoli). Tuttavia, esso può ammettere tale coercizione morale nei casi di emergenza: per esempio, per combattere le cause del cambiamento climatico globale può richiedere i sacrifici necessari.
La versione del rule-consequentialism propugnata da Hooker e Mulgan è messa in discussione da Gianfranco Pellegrino nell’articolo Some Old Objections to Rule Consequentialism Reconsidered: The Case of Reproductive Freedom. Pellegrino applica quella versione al problema della libertà riproduttiva: per Hooker e Mulgan, l’utilitarismo della regola è molto più adeguato di quello dell’atto per concepire politiche riguardanti la riproduzione. Esso, infatti, permetterebbe di lasciare liberi gli agenti di riprodursi o di non riprodursi, in situazioni nelle quali – come nel mondo in cui viviamo – non sarebbe bene che tutti si riproducessero, ma neppure che nessuno lo facesse. Al contrario, sostengono, l’utilitarismo dell’atto permetterebbe solo di obbligare a una scelta o a quella opposta, in situazioni di emergenza (come il rischio di sovrappopolazione o quello, opposto, di estinzione della specie). Pellegrino mostra come, in realtà, anche questo rule-consequentialism debba finire per ridursi all’utilitarismo dell’atto, almeno per quanto riguarda il caso della libertà riproduttiva nel mondo in cui viviamo. Conclude, quindi, che il progetto di mitigare, da un punto di vista consequenzialista, i rigori del consequenzialismo stesso, dev’essere abbandonato.
Infine, Utilitarianism and Coercion, di Nir Eyal, mette a confronto la tradizionale ostilità della morale comune a ogni forma di coercizione con l’utilitarismo dell’atto, che si oppone alla coercizione solo per ragioni contingenti e non in linea di principio. Eyal cerca di trovare una giustificazione utilitaristica per opporsi alla coercizione in tutti i casi in cui vi si oppone la morale comune (le “intuizioni morali”). Il problema, per Eyal, è che le barriere alla coercizione, opposte dalla morale comune, non sono giustificabili in termini utilitaristici: le intuizioni morali comuni, dunque, per un utilitarista sono sbagliate. Tuttavia, proprio su basi utilitaristiche si può incoraggiare la credenza che tali intuizioni siano corrette, perché essa comporta conseguenze preferibili. Per esempio, un medico nel suo rapporto col paziente deve ritenere che questi abbia una dignità inviolabile, che non gli permette di decidere sulla sua pelle, neppure in base a calcoli d’utilità; ed è proprio l’utilitarismo a richiedere al medico, in questo caso, di non ragionare in termini consequenzialistici.

Indice

Introduction, by Gianfranco Pellegrino
John Stuart Mill’s Science of Politics, by Frederick Rosen
Hume, Experience and Value, by Peter Kail
Utilitarianism and Its 19th-Century Critics, by Sergio Cremaschi
Utilitarianism and Contract Theory: Democracy in Bentham and Rousseau, by Annamaria Loche
Utilitarian Arrogance, by John Skorupski
Rule-consequentialism versus Act-consequentialism, by Brad Hooker
Utilitarianism as Both Unattainable ideal and Human Morality, by Tim Mulgan
Some Old Objections to Rule-consequentialism Reconsidered: The Case of Reproductive Freedom, by Gianfranco Pellegrino
Utilitarianism and Coercion, by Nir Eyal


Il curatore

Il curatore Gianfranco Pellegrino è dottore di ricerca in filosofia del diritto e insegna filosofia dell’impresa presso la Luiss Guido Carli. Si occupa principalmente di storia dell’etica e di metaetica e ha scritto, tra gli altri, articoli su H. Sidgwick, su J. Bentham, sul particolarismo morale e sulle ragioni per l’azione. Tra le sue curatele: AA.VV., Robert Nozick. Identità personale, libertà e realismo morale (con Ingrid Salvatore; Luiss University Press, 2006); J. Bentham, Libertà di gusto e d’opinione. Un altro liberalismo per la vita quotidiana (Edizioni Dedalo, 2007). È responsabile di redazione della rivista “Filosofia e questioni pubbliche”.

Link

Sito del Centro studi “Politeia”
www.politeia-centrostudi.org
Utilitarianism Resources
www.utilitarianism.com
Sito dell’organizzazione “Utilitarian.org”
www.utilitarian.org

Oppo, Andrea, Philosophical Aesthetics and Samuel Beckett.

Oxford et al., Peter Lang, 2008, pp. 268, € 42,60, ISBN 9783039118243.

Recensione di Monica Poddighe - 15/12/2008
Estetica

Questo studio di Andrea Oppo prende in esame il ruolo dello scrittore e drammaturgo Samuel Beckett nell’estetica filosofica contemporanea, principalmente attraverso l’analisi dei suoi stessi articoli e saggi - nei quali, fra le altre cose, vengono passati in rassegna i suoi rapporti letterari con Dante, Proust e Joyce - e delle diverse interpretazioni che i filosofi (in particolare Adorno, Deleuze e Blanchot) hanno dato delle sue opere.
L’analisi ruota attorno alla questione fondamentale del rapporto fra arte e verità, dove l’arte giunge al proprio totale esaurimento per mezzo di una serie di “finali di partita” che riguardano progressivamente la filosofia, la scrittura, il linguaggio e ogni minima forma di espressione.
La tesi di fondo di questo lavoro (probabilmente il primo che in questa maniera, organica e unitaria, cerca di ricostruire l’estetica filosofica dello scrittore irlandese e il suo rapporto con Adorno e i filosofi contemporanei) è che, alla base del progetto filosofico di Beckett, questa estetica della verità risulti essere nient’altro che il soggetto reale stesso, all’interno di un tragico e contraddittorio rapporto che lega il Sé/Voce all’Oggetto/Corpo del teatro e della narrativa beckettiana. Questo processo - in un certo senso un ampio e generalizzato “coma della parola” - secondo l’autore avviene in Beckett attraverso un triplice passaggio (“processo al significato”, “finale di partita dell’arte” e “ritorno alla soggettività”) che, in qualche modo, rappresenta il filo conduttore di tutta l’opera di Beckett, nonché una triplice “uscita” della sua stessa ricerca filosofica: uscita dall’arte espressiva, dalla filosofia e dal linguaggio.
Dopo un’ampia prefazione che mette in chiaro cosa significhi, in generale, occuparsi del rapporto tra Beckett e la filosofia, il primo capitolo del libro porta a termine un’analisi completa degli scritti saggistici di Beckett sull’arte e l’estetica, in modo da ricostruire l’essenziale proposta estetica dell’autore. Nel secondo capitolo si analizza la decisiva interpretazione che Adorno ha fornito soprattutto per ciò che riguarda il potenziale filosofico dell’opera di Beckett.
Il capitolo successivo si concentra invece sulle letture postmoderne dei testi beckettiani, proposte in larga parte da autori francesi. In questo caso, in particolare, l’attenzione è rivolta alla questione della “fine della modernità” in relazione al pensiero di Beckett. Infine, il quarto e ultimo capitolo si occupa di alcune prospettive extrafilosofiche derivanti dalla radicale opposizione, nel teatro beckettiano, di testo/voce e corpo.
Lo studio si conclude con l’affermazione che il pensiero filosofico di Beckett costituisca una sorta di “discorso sulle uscite” nel quale l’estetica, precisamente nell’atto di esaurire le possibilità dell’arte, rivela il più autentico contenuto di verità dell’arte stessa: vale a dire il ritorno al soggetto.

Indice

Preface
Chapter I: The Aesthetics of Samuel Beckett: Essays and Writings
Chapter II: Adorno: Interpreter of Beckett
Chapter III: The Cul de Sac of Critique: Beckett’s Late Work via Postmodern Philosophy
Chapter IV: If the Body is Able to Think: Towards a Philosophy of Theatre
Bibliography
Index


Il curatore

Andrea Oppo (1970) è docente di Estetica presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. È allievo di Sergio Givone e ha conseguito il dottorato in Filosofia-Estetica all’Università di Dublino UCD. Ha pubblicato diversi articoli sulla filosofia russa, l’estetica e la filosofia della letteratura.

Link

martedì 2 dicembre 2008

Groys, Boris, Post scriptum comunista.

Roma, Meltemi, 2008, pp. 95, € 13,00, ISBN 978-88-8353-673-1.
[Ed. or.: Das kommunistische Postskriptum, Surkhamp Verlag, Frankfurt am Main 2006].

Recensione di Paolo Calabrò – 2 dicembre 2008

Filosofia politica – Filosofia del linguaggio – Filosofia della storia

Come mai un dittatore totalitario quale Stalin si diede la briga – poco prima di morire – di pubblicare in tutta fretta degli scritti sulla linguistica? Scelta quanto meno singolare, da parte di un capo di Stato, che costituisce il punto di partenza di questo saggio di Boris Groys, appena edito nella collana ‘Melusine’ dell’editore Meltemi, dalla grafica originale e accattivante. Con il termine ‘comunismo’ si intende di solito quell’insieme di dottrine più o meno facenti capo a Marx e ispirate alla comunanza dei beni e dei mezzi di produzione; ovvero, si intende l’esperienza politica di certi Stati che hanno inteso mettere in pratica tali dottrine, come ad esempio l’ex Unione sovietica (in questi casi, generalmente, si aggiunge a ‘comunismo’ l’aggettivo ‘reale’). A tali consolidate concezioni Groys aggiunge la caratterizzazione del comunismo come ‘svolta linguistica’ nella prassi sociale, ciò su cui si concentra l’intero studio.
Poiché il ‘medium’ della politica è il linguaggio (la politica agisce infatti secondo programmi, proclami, discussioni, deliberazioni, ecc.), la critica al comunismo può esprimersi nel suo stesso medium: in questo modo esso riesce a realizzare la vera parità sociale fra tutti i cittadini dello Stato, in quanto ciascuno ha il diritto e la possibilità (anche se subalterna, o di fatto inefficace) di esprimersi sul piano politico e di partecipare così con il proprio, anche piccolo, contributo al processo sociale.
Nel capitalismo, viceversa, dove il denaro è il motore degli eventi economici, e dunque politici – la disuguaglianza nel possesso di denaro genera disuguaglianza sociale, fino all’esclusione di alcuni e addirittura alla morte per fame di altri; il processo politico si muove dunque tramite un medium diverso da quello della sua critica (cioè, ancora una volta, il linguaggio). In quanto il medium del capitalismo è il denaro e non il linguaggio, gli eventi economici sono ciechi e privi di senso (relativamente alla vita e al destino dell’uomo e della società).
Al contrario, nel comunismo (dove l’economia è subordinata alla politica) il destino dell’uomo diventa dichiarato, indirizzato, progettato e infine realizzato. In questo il comunismo ritiene di cogliere la vera essenza della democrazia, mentre la democrazia di stampo liberale è una contraddizione in termini che si trova continuamente a subordinare la volontà popolare agli interessi del mercato. Per fare un esempio del legame esistente nel comunismo tra il progetto teorico e la sua realizzazione pratica (che Hannah Arendt riportò nel suo Le origini del totalitarismo, anche se con altro scopo), quando Stalin diceva che la borghesia era una classe in via d’estinzione, significava che stava preparando il massacro dei kulaki. Groys non dà giudizi di merito su singoli episodi storici (sulla questione della violenza insita nella pretesa di progettare la società ‘così come dovrebbe essere’, e quindi sul legame tra lo schema evolutivo-rivoluzionario e lo sterminio, si sofferma invece l’acuta prefazione di Gianluca Bonaiuti); egli punta semplicemente a caratterizzare il fondamento della sua categoria principale, fin qui preannunciata, la verbalizzazione della società: “Solo quando il destino non è più muto e non domina solo sul piano strettamente economico, ma al contrario viene formulato fin dall’inizio a livello linguistico e deciso a livello politico – come nel caso del comunismo –, allora l’uomo diviene un essere che esiste nel linguaggio e per mezzo del linguaggio. L’uomo ottiene così la possibilità di argomentare, protestare e sollevarsi contro decisioni fatali. Tali argomentazioni e tali proteste non si dimostrano sempre efficaci. Vengono spesso ignorate o addirittura represse, ma non sono in quanto tali prive di significato” (pp. 24-25).
Secondo Groys, la perplessità per la quale il solo linguaggio sarebbe di per sé insufficiente a governare, a creare cioè la necessaria obbligazione tra chi formula le leggi e chi è tenuto ad osservarle, è lo specchio della condizione politica attuale, nella quale il linguaggio è di fatto impotente. Groys dedica tutto il secondo capitolo all’analisi del logos e della sua forza obbligante, a partire dalla critica alla sofistica di Socrate e Platone. Ma, soprattutto, istituisce un’interessante (ancorché discutibile, come forse un po’ tutta la sua interpretazione della filosofia platonica) rilettura delle posizioni sofistiche e socratiche alla luce della dialettica hegeliana: “Il discorso sofistico appare [...] coerente soltanto perché è unilaterale, perché si isola dal tutto, perché maschera il suo rapporto paradossale con il tutto del linguaggio. Il sofista svolge la sua difesa di una posizione particolare anche quando sa che ci sono molti argomenti anche in favore della posizione opposta” (p. 35). Così il sofista opera nell’interesse esclusivo di sé e dei propri clienti, mostrando in tal modo la propria affinità con il capitalista dei nostri giorni, che Groys così descrive, lasciandosi prendere un po’ la mano: “De facto i discorsi sofistici che appaiono razionali sono ora come sempre al servizio di interessi particolari e del mercato. [...] Non c’è nessun dominio totale della ragione [...] Per avere successo nel mercato non si ha notoriamente bisogno di calcoli, di freddi costrutti logici, né di riflessioni razionali, ma di intuizione, ossessività, aggressività e di istinto da killer” (p. 40). Al contrario della sofistica (di ieri come di oggi), il ‘materialismo dialettico’, su cui il potere comunista si basa, non perde mai di vista il tutto della realtà, cioè il persistente rapporto dialettico tra ogni cosa e il suo ineliminabile contesto. In questo, afferma Groys, ogni governo comunista ha visto se stesso come unico governo veramente razionale, capace di ‘prendersi cura del tutto’ (secondo l’antico monito di Periandro di Corinto), e di svelare così la contraddizione interna a quel realismo logico che, tradotto in termini politici, significa solo la determinazione a operare in vista di interessi particolari.
Ciò dunque (e non i singoli obiettivi politici, realizzati o meno), secondo l’autore, costituisce l’essenza del comunismo e lo differenzia non solo dalla democrazia liberale, ma anche dai fascismi: essi infatti, anche quando si pretendono totalitari, non sono mai abbastanza ‘totali’, perché il primato di una razza o di un partito resta pur sempre qualcosa di parziale, di non universale, anche se elevato a legge di natura. Il comunismo è invece, in quest’ottica, l’unico governo veramente totale, governo del tutto da parte di chi sa abbracciare l’orizzonte del tutto, ciò che consente a Groys di avvicinare questo modello a quello platonico, e di definire il comunismo come tentativo di “instaurare un governo dei filosofi” (p. 44); la differenza tra questi due modelli è soltanto che, nello Stato comunista, tutti i cittadini sono tenuti ad essere filosofi, e non solo i governanti (p. 64).
Ora, se il motore del processo politico è il materialismo dialettico, il quale ritiene che la vita sia in sé contraddittoria (p. 49) e che la realtà sia in sé paradossale (p. 46), l’azione politica non potrà che essere a sua volta contraddittoria: si troverà cioè a perseguire fini reciprocamente contraddittori, la cui coerenza potrà essere svelata solo da una prospettiva ‘superiore’ (illuminante in proposito il resoconto del comportamento tenuto nel 1908 dall’ala sinistra della socialdemocrazia russa nei confronti del regime zarista, p. 47). Che tale posizione possa condurre nella pratica a giustificare ogni sorta di nefandezze, è l’autore stesso a sottolinearlo, facendo notare che questa (giusta) critica risale almeno al 1984 (oggi sessantenne) di George Orwell. Ma, come già detto, non è questo il punto di Groys, al quale preme piuttosto sottolineare – ma, sia chiaro una volta per tutte, non in chiave apologetica – quanto i membri del Partito comunista di ogni tempo e luogo abbiano sentito il filosofare come un proprio preciso dovere. Ciò che l’autore esemplifica mostrando il legame tra la svolta linguistica operata dalla rivoluzione russa e gli scritti di Stalin, appunto, sulla linguistica. I quali sono significativamente redatti in forma di ‘dialogo platonico’, cioè come sequenza di risposte a domande formulate da interlocutori diversi. Groys rimarca la centralità di questi scritti nell’ambito dell’intera operazione e rivoluzionaria: “C’è una cosa [...] che emerge chiaramente dalla lettura di questa particolare testimonianza della vita interiore di un leader politico: Stalin aveva tanta fretta da pubblicare subito considerazioni incompiute, frammentarie e provvisorie, perché aveva la sensazione di essersi imbattuto in qualcosa di estremamente importante, di cui il mondo non doveva restare all’oscuro nemmeno per un minuto” (p. 57). Il testo sulla linguistica doveva avere il compito preciso di introdurre la contraddizione quale suprema regola della logica (p. 61), di impostare la contraddizione come fondamento del retto pensare e del retto agire. In questo senso, un agire contraddittorio non è sintomo di schizofrenia o indecisione, bensì di capacità di abbracciare un orizzonte non parziale. Da questo punto di vista Groys non vede affatto una rottura nel passaggio dell’Unione sovietica dal comunismo al capitalismo (sul piano economico), bensì una ‘continuità dialettica’ in incessante evoluzione (pp. 81 ss.). Dallo stato di salute dei regimi russo e cinese egli deduce che l’albero del comunismo – tuttora in crescita – ha ancora altri frutti, nuovi e inattesi, da portare: il comunismo, ci dice Groys, è tutt’altro che morto.

Indice

Prefazione di Gianluca Bonaiuti
Introduzione
Capitolo primo
La verbalizzazione della società
Capitolo secondo
Il paradosso al potere
Capitolo terzo
Il comunismo considerato da fuori
Capitolo quarto
Il dominio dei filosofi: amministrazione della metanoia
Bibliografia


L'autore

Boris Groys insegna Filosofia, Estetica e Teoria dei media alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe (Germania). È tra i massimi esperti di arte russa del XX secolo, movimenti avanguardisti, estetica e teoria culturale. Tra le sue pubblicazioni: Unter Verdacht. Eine Phänomenologie der Medien (2000) e Topologie der Kunst (2003).